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Scusa, Cuba

Ve lo ricordate il 22 marzo 2020? 53 medici cubani della Brigata internazionale Henry Reeve arrivarono in Lombardia, c’erano medici, epidemiologi, anestesisti, rianimatori e infermieri specializzati in terapia intensiva. La Lombardia in quel momento era l’epicentro mondiale della pandemia nel mondo e i medici cubani, specializzati nel trattamento delle malattie infettive, vennero spediti nell’ospedale da campo di Crema. Gli “hermanos de Cuba” li chiamavano affettuosamente i colleghi italiani. La sindaca di Crema Stefania Bonaldi disse: «Ci sentiamo fortunati. All’alba siamo saliti sul loro autobus con la bandiera di Cuba tra le mani e con gli occhi lucidi per ringraziarli ancora una volta – raccontò ancora la sindaca -, ma ci piace pensare che sia stato solo un arrivederci e non un addio, perché continueremo a fare cose belle insieme». Se andate a cercare le dichiarazioni ufficiali del governo invece sono poche, rare.

Alcuni sostennero quei medici cubani addirittura come candidati al Nobel per la Pace. Peccato che l’arrivederci affettuoso che abbiamo riservato ai cubani sia uno schiaffo in faccia: nel Consiglio dei diritti umani cinque giorni fa è stata votata una risoluzione, inappuntabile giuridicamente dal punto di vista del diritto internazionale, che rilevava il pesante impatto negativo che le sanzioni, ovvero, con termine più tecnico, le misure coercitive unilaterali hanno sui diritti umani. Tra questi ovviamente c’è anche l’anacronistico embargo che gli Usa impongono a Cuba dal 1962. 59 anni di sanzioni durissime con cui lo Stato più forte impone sofferenze durissime a uno Stato più debole per piegarlo alle proprie decisioni, un bombardamento senza bombe per imporre la propria politica estera.

La risoluzione è ovviamente passata ma l’Italia è riuscita a farsi notare votando contro, in nome di un becero atlantismo che risulta assolutamente fuori tempo e che sembra essersi dimenticato dell’aiuto ricevuto in questi ultimi mesi. Un voto infame (che al momento non ha spiegazioni ufficiali) e di cui ci sentiamo di chiedere scusa. L’embargo durante la pandemia tra l’altro in campo sanitario mette a rischio anche l’approvvigionamento di macchinari indispensabili per affrontare il virus. «Potrebbe mancare qualsiasi cosa – spiegava l’Ambasciatore Josè Carlos Rodriguez Ruiz -: un componente di un apparecchio sanitario, una tecnologia o un principio attivo che potremmo reperire negli Stati Uniti, ma che non può raggiungere Cuba a causa del blocco. In quel caso saremmo costretti a rivolgerci altrove a costi molto più alti ma con grandi difficoltà. Un esempio: se volessimo acquistare una macchina della multinazionale tedesca Siemens dotata di una porzione di tecnologia statunitense non potremmo farlo…».

Scusa Cuba.

Buon martedì.

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Ne usciremo privati

Nel bel mezzo della seconda ondata della pandemia, nella discussione sul Natale,  di chi come il presidente della Liguria Toti ci dice di «chiudere le scuole e aprire le piste da sci», sempre schiacciati tra profitto e salute, tra incassi e malattie, avvicinandosi a queste feste che servono per le ore giuste per riempire i carrelli, in mezzo a tutto questo c’è la prossima legge di bilancio.

Ed è qualcosa che quest’anno conta ancora di più perché dentro la legge di bilancio c’è l’idea di Paese che si vuole disegnare, c’è la lista delle priorità e la visione del mondo. E allora mettiamoci le mani dentro questa legge di bilancio che si prepara ad arrivare in Parlamento. Ecco l’articolo 89 comma 3 e l’articolo 93:

ART. 89.3. Per l’anno 2021, i contributi di cui all’articolo 2 della legge 29 luglio 1991, n. 243, sono incrementati di 30 milioni di euro.

ART. 93. (Trattamento di previdenza dei docenti di Università private) 1. Ai fini dell’applicazione delle disposizioni di cui al comma 1 dell’articolo 4 della legge 29 luglio 1991, n. 243, per i professori e ricercatori delle Università non statali legalmente riconosciute, a decorrere dall’1 gennaio 2021, l’aliquota contributiva di finanziamento del trattamento di quiescenza è pari a quella in vigore, e con i medesimi criteri di ripartizione, per le stesse categorie di personale in servizio presso le Università statali. Restano acquisite alla gestione di riferimento e conservano la loro efficacia le contribuzioni versate per i periodi anteriori alla data di entrata in vigore della presente legge. Ai maggiori oneri derivanti dal differenziale tra l’aliquota contributiva e l’aliquota di computo relativa ai trattamenti di quiescenza con riferimento al periodo 2016-2020 pari a euro 53.926.054 per l’anno 2021, si provvede mediante apposito trasferimento dal bilancio dello Stato all’ente previdenziale.

I contributi alle università private (private!) vengono aumentati di 30 milioni di euro arrivando quindi a 98 milioni di euro. A livello percentuale si tratta di un incremento del 44%. Non male se si pensa a come sono ridotte le università pubbliche (e la pandemia ce lo sta raccontando). Uno potrebbe immaginare che lo stesso incremento percentuale arrivi alle università pubbliche e invece no, niente. Anche perché sarebbe un aumento di 3,4 miliardi per il prossimo anno. Quindi niente da fare. Nell’articolo 93 invece si dice che la maggioranza vuole dare il suo contributo per pagare i trattamenti di previdenza dei professori delle università private con un trasferimento all’Inps di 54 milioni di euro.

Ne dovevamo uscire migliori. Vediamo di non uscirne privati.

Buon lunedì.

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Spiegateci perché gli esperti che minimizzavano il virus ora imperversano in tv (di Giulio Cavalli)

Spiegateci perché gli esperti del virus “clinicamente morto” imperversano in tv

Il virus non è morto, anzi, purtroppo per noi è in ottima salute: sfondati i 10mila positivi con 150mila tamponi, 55 deceduti, 4.343 ricoverati in più di cui 52 in terapia intensiva. Stanno benissimo però anche quelli che nei mesi scorsi vedevano psicotici e allarmisti dappertutto, quelli che ci avvisavano che ormai era tutto alle spalle e che addirittura si innervosivano se qualcuno provava a chiedere un po’ di precauzione in vista dell’autunno. Fu Alberto Zangrillo, primario del San Raffaele, che lo scorso 31 maggio ci annunciò nel corso del programma Mezz’ora in più che “il virus clinicamente non esiste più”.

Zangrillo poi provò a correggere il tiro, certo, ma rimane lo studio del San Raffaele di Milano che parlava (a maggio) di “pochi pazienti e tutti con sintomi lievi” dovuti al fatto che il virus aveva perso la propria capacità replicativa e che risultava essere “enormemente” indebolita rispetto a quella registrata a marzo. “Ha ragione il mio amico Alberto Zangrillo: clinicamente il Covid-19 non c’è più, è morto, ho più degenti con infezioni batteriche”, disse Paolo Navalesi, direttore dell’Istituto di Anestesia e Rianimazione dell’Azienda ospedaliera di Padova e della Scuola di specialità, che si espresse anche sul futuro: “In base all’esperienza maturata in questi tre mesi, posso dire che se siamo riusciti ad affrontare in pochi giorni un’emergenza completamente sconosciuta, oggi saremmo in grado di rispondere nel giro di qualche ora, perciò mi sento tranquillo”.

“Chi parla di seconda ondata fa terrorismo”, disse ad agosto Matteo Bassetti, direttore della Clinica malattie infettive dell’Ospedale San Martino di Genova, che parlò addirittura di una “psicosi per una malattia ormai sotto controllo“. Sempre Bassetti lo scorso 9 settembre ci assicurava anche che in Campania non c’era “nessuna seconda ondata” ma semplicemente una “coda, peraltro prevedibile”. Eh, già. “Non ci sarà la seconda ondata” diceva anche Giorgio Palù, professore emerito di microbiologia e virologia dell’Università di Padova e già presidente della Società europea di virologia.

“Non ci sarà una seconda ondata, l’autunno sarà come adesso, il virus si sta adattando all’uomo, magari farà un ping pong con il pipistrello, cioè ce lo ripasseremo tra specie, ma non se ne andrà fino al vaccino”, disse il 6 agosto Massimo Clementi, professore ordinario di virologia al San Raffaele. E ora? Ora quegli stessi “esperti” che hanno minimizzato e hanno addirittura deriso chi temeva l’autunno tornano a essere considerati “affidabili” e a imperversare nei media. Ma siamo sicuri che non sia il caso di chiedere conto delle dichiarazioni che sono state rilasciate? Almeno un accenno di spiegazioni, basterebbe anche solo un “sì, scusate, mi sono sbagliato”. No? Ora teneteli bene a mente perché saranno quelli che cominceranno a strepitare contro il governo per le mancate misure. Scommettiamo?

Leggi anche: 1. Allarme terapie intensive: ecco la situazione regione per regione. Se i casi aumentano non siamo pronti / 2. “Ora fermiamoci 3 settimane”: parla Crisanti / 3. E alla fine lo hanno fatto: gli sceriffi governatori scavalcano il governo e chiudono le scuole (per colpa loro) – di Luca Telese / 4. Negazionisti contro empiristi: la guerra tra i virologi che decide se siamo liberi o no

TUTTE LE ULTIME NOTIZIE SUL CORONAVIRUS IN ITALIA E NEL MONDO

CORONAVIRUS ULTIME NOTIZIE: TUTTI I NUMERI

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L’altra salute (oltre al Covid)?

Quasi un milione di interventi chirurgici rimandati, molte visite oncologiche saltate, la digitalizzazione degli ospedali ancora in alto mare. No, la sanità italiana non è in crisi solo sul fronte della lotta al coronavirus

C’è un’altra sanità, oltre alla questione Covid, su cui forse conviene fare una riflessione. Sono numeri spaventosamente alti che aggravano una situazione endemica che già esisteva: le liste di attesa degli interventi chirurgici si sono inevitabilmente allungate all’infinito e i numeri nel mondo sono spaventosi. Ora finalmente se ne ricomincia a parlare dopo che il viceministro Sileri ha confermato le stime che giravano già da mesi e il dibattito, badate bene, merita tutta la nostra attenzione perché dietro ai numeri ci sono sempre le persone. E allora parliamone.

Un’analisi dell’Università di Birmingham già lo scorso maggio stimava che, nel periodo di 12 settimane del picco epidemico che ha portato all’interruzione di molti servizi ospedalieri, gli interventi chirurgici elettivi annullati o rinviati potrebbero essere stati 28,4 milioni in tutto il mondo, cioè il 72,3% di quelli pianificati.

La situazione italiana era sulla stessa linea: Nomisma aveva contato circa 410mila interventi chirurgici rimandati a causa del dirottamento di anestetisti e infermieri verso i reparti Covid e della necessità di ridurre il rischio di esposizione al virus. Si va dal 56% dei ricoveri per interventi legati a malattie e disturbi dell’apparato cardiocircolatorio alla quasi totalità dei ricoveri per patologie afferenti all’otorinolaringoiatria e al sistema endocrino, nutrizionale e metabolico, oltre l’area ortopedica con 135mila ricoveri rimandati.

E, secondo Sileri, la situazione si sarebbe poi ulteriormente aggravata. «Abbiamo purtroppo un numero importantissimo, vicino al milione, di interventi chirurgici saltati e ovviamente rinviati, e un numero importantissimo di indagini e visite ambulatoriali saltate e rinviate, intorno ai 20 milioni», ha dichiarato il viceministro della Salute a fine settembre, in occasione della presentazione del rapporto annuale sull’innovazione in campo sanitario e farmaceutico dell’Istituto per la Competitività.

Le diagnosi di tumore e le biopsie, inoltre, sempre a maggio erano calate del 52% e nei reparti di oncologia si era registrata una diminuzione del 57% delle visite: gli oncologi dichiaravano che in media prima dell’insorgenza del Covid-19 visitavano circa 80 pazienti alla settimana, ma che nell’ultima settimana presa in esame ne hanno visitati 34. Ancora: il 45% dei malati oncologici aveva rimandato la chemioterapia. E nulla fa pensare che questa emergenza si sia risolta.

Volendo poi c’è il cronico problema della mancata informatizzazione del nostro sistema sanitario: un sistema che non dialoga con gli altri ospedali e che spesso addirittura non riesce a dialogare tra reparti e che nel mondo invece è considerato determinante per migliorare le cure e per diminuire gli sprechi (le ripetizioni di esami già fatti è solo un esempio).

C’è anche altra salute, oltre al Covid.

Buon mercoledì.

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Fino a ieri ha sbeffeggiato il Coronavirus ora Trump (positivo) si affida alla scienza

Non è nemmeno stato capace di twittare l’informazione esatta: il presidente USA Trump annuncia di essere risultato positivo al Covid-19 e non al Coronavirus, non riuscendo a distinguere il virus dalla malattia che sviluppa. Ma non stupisce, certo, no. Del resto è lo stesso Trump che ha sbeffeggiato (come molti altri suoi colleghi leader mondiali, spesso di una certa parte politica) il Coronavirus fin dall’inizio, annunciando al mondo che c’era troppo allarmismo e che non avrebbe certo indossato la mascherina.

È lo stesso Trump che era riuscito a farsi rimuovere un post da Facebook e Twitter scrivendo che aveva “sentito” (ha scritto proprio così, come quelli che parlano di voci che circolano al bar) che i bambini fossero immuni. Falso, ovviamente. È lo stesso Trump, ve lo ricordate, che durante una conferenza stampa consigliava ai medici iniezioni di disinfettanti e candeggina sui malati di Covid-19. Alcuni suoi sfegatati supporter lo presero addirittura alla lettera e vennero ricoverati.

Sono forti questi negazionisti a capo dei Paesi più potenti del mondo: passano dal negare al virus al suggerire cure (per un virus che non dovrebbe esistere) e infine si ammalano. Ma non è tutto, no. Trump è riuscito anche a condividere sui suoi social un tweet in cui si sosteneva che i Centers for Disease Control and Prevention avevano “tranquillamente aggiornato il numero dei morti di Covid, ammettendo che solo il 6% delle vittime riportate – circa 9000 – sono decedute davvero per il Covid”. Il resto “aveva 2-3 altre gravi malattie”. L’informazione arrivava direttamente da un seguace delle teorie cospirazioniste QAnon, gli stessi che raccontano di un network internazionali di satanisti pedofili (tra cui Hillary Clinton e Obama, tanto per capire il livello della ridicolaggine) che insieme a reti di “poteri forti” (eccallà) starerebbero agendo contro il presidente USA.

Poi si passa all’idrossiclorochina che proprio Trump ha dichiarato essere una cura valida per la prevenzione: “ne prendo una al giorno da una settimana e mezzo, cosa c’è da perdere?”, aveva dichiarato il presidente. Niente, nemmeno questo. Poi c’è stato l’annuncio di un vaccino entro la fine dell’anno (smentito da tutti) e proprio qualche giorno fa durante il dibattito televisivo Trump ha scanzonato il suo rivale Biden sull’uso della mascherina: “Ho qui la mascherina. La metto quando serve. Mica come Biden, che la usa sempre”. Probabilmente era già infetto. Intanto negli USA si registrano più di 7 milioni di casi e 208mila morti. E si è ammalato anche lui. Ben fatto, Donald. Ora, come sempre, si affiderà alla scienza che ha deriso fino a ieri.

Leggi anche: 1. Il presidente Usa Donald Trump e la first lady Melania positivi al Covid-19: “Siamo in quarantena, ce la faremo”; // 2. Chi è Hope Hicks, la consigliera di Trump che potrebbe aver contagiato la coppia presidenziale; // 3. Trump positivo al Covid, da Pence a Biden chi è esposto al contagio; //4. Slogan rimasticati, insulti e un arbitro debole: il match senza il colpo del KO tra Trump e Biden (di Giampiero Gramaglia); // 5Ecco perché queste saranno le elezioni più importanti della storia americana (di Iacopo Luzi, inviato TPI a Washington)

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Rimangono solo l’asinello e il bue

Sono andati a messa, i senatori assenti che hanno affossato lo Ius soli, si sono fatti accarezzare dal loro parroco e hanno pregato a mani giunte in bella mostra con tutta la giunzione che ci si aspetta da un Natale che precede di pochi mesi le prossime elezioni. Staranno inscenando tutta la bontà di cui sono capaci, protagonisti del pranzo in cui loro, da esimi senatori, danno lezioni di mondo come si addice a una classe dirigente sempre diligente alla proiezione che vogliono dare di se stessi.

Faranno foto tutto il giorno stando bene attenti a non inquadrare regali troppo costosi per non inimicarsi “la base”, con qualche spruzzata di qualche nonno ché la vecchiaia ha sempre il suo bell’effetto di tenerezza e, sicuro, inonderanno i propri social con mielose frasi di pace rubate da qualche sito di aforismi trovato grazie a google.

Poi, immancabile, ci sarà il presepe, che di questi tempi è l’olio di ricino a forma di statuette.

Fotograferanno, ignoranti, quell’immagine che rappresenta la nascita di un bambino palestinese rifugiato in Egitto, i tre Magi (un uzbeko, un somalo e un siriano), i pastori pieni di cenci e portatori di malattie, quella madre e quel padre che da irresponsabili hanno pensato bene di avere un figlio senza nemmeno avere una casa e nemmeno un lavoro e in più fotograferanno le pessime condizioni igieniche in cui sono abituati a vivere perché è “la loro cultura”.

Poi racconteranno ai figli e ai nipotini di Babbo Natale, di minoranza etnica lappone che vorrebbe fingersi finlandese.

E alla fine rimangono solo il bue e l’asinello. E l’ipocrisia, a fiumi, insieme al prosecco.

Buon Natale.

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I migranti e le malattie. Per essere seri.

Un articolo di Cristina Da Rold di qualche mese fa che mette in chiaro dati, fatti e numeri. E che ci torna utile in questa giornata di prime pagine che sono una vergogna per il giornalismo ma soprattutto per la verità:

Sono oltre 500 mila le persone sbarcate sulle coste italiane negli ultimi anni: 170 mila nel 2014, 154 mila nel 2015 e 170 mila circa nel 2016. Una cifra che corrisponde, grosso modo, agli abitanti di una città come Genova, anche se per una grossa fetta di coloro che arrivano nel nostro Paese l’Italia è solo un paese di passaggio.

C’è chi ha parlato addirittura di “sesto continente” riferendosi ai movimenti migratori, volontari e non, che interessano l’intero pianeta; anche se nel caso italiano più che a un sesto continente siamo di fronte alla Terra dei fraintendimenti. Il più grave, quello per cui la vulnerabilità sanitaria dei migranti viene interpretata come un problema che può mettere a repentaglio la salute degli autoctoni.

“Il vero problema che dobbiamo affrontare oggi riguardo alla salute di chi sbarca sulle nostre coste non è rappresentato dalle gravi malattie infettive e diffusive, la cui incidenza è assai contenuta per il fenomeno del “migrante sano” ormai ampiamente dimostrato dai dati, ma dal disagio psicologico di queste persone” spiega all’Espresso Giovanni Baglio, epidemiologo della Società Italiana di Medicina delle Migrazioni (SIMM).

“Dal punto di vista della salute mentale, l’effetto migrante sano tende a esaurirsi rapidamente, già prima dell’arrivo, a seguito delle condizioni spesso estreme in cui il percorso migratorio si compie: coloro che arrivano, donne, uomini e bambini, sono estremamente vulnerabili e manifestano forme reattive quali depressione, disturbi di adattamento, disordini post-traumatici da stress, stati d’ansia”.

Non si tratta di nascondersi dietro a un dito, di spostare l’attenzione da un problema a uno pseudoproblema, come sottolinea nientemeno che il prestigioso Karolinska Insitutet svedese sulle pagine dell’altrettanto prestigiosa rivista Nature , dove gli esperti hanno affermato senza mezzi termini che “I paesi ospitanti devono affrontare i livelli elevati di disordini della salute mentale nei migranti, nell’ottica di far sì che essi si integrino il meglio possibile”.

Mentre nel nostro paese si fa politica intorno alle millantate conseguenze epidemiologiche dell’accoglienza, il focus sulla salute mentale è entrato oramai a pieno titolo nelle agende internazionali. L’Organizzazione Mondiale della Sanità per esempio ha dedicato la giornata mondiale della salute 2017 proprio alla salute mentale, anche in relazione al fenomeno delle migrazioni. Tuttavia, una primo passo l’abbiamo fatto anche in Italia: il 3 aprile scorso sono state pubblicate in Gazzetta Ufficiale  le Linee guida per la programmazione degli interventi di assistenza e riabilitazione nonché per il trattamento dei disturbi psichici dei titolari dello status di rifugiato e dello status di protezione sussidiaria che hanno subito torture, stupri o altre forme gravi di violenza psicologica, fisica o sessuale.

IL FRAINTENDIMENTO METODOLOGICO

I principali spauracchi sono le malattie che in una storia più o meno recente sono state sinonimo di epidemia: tubercolosi, polio, ebola. “Chi alimenta la paura della diffusione di malattie come la tubercolosi o ebola, divulgando l’idea del migrante-untore, vettore anche asintomatico di temibili pestilenze, ignora le evidenze epidemiologiche basilari: il viaggio risulta essere troppo lungo per ebola, ma troppo breve per la tubercolosi, nonostante le condizioni di grave deprivazione che accompagnano i migranti in fuga” spiega Baglio. I tempi con cui si sviluppa la tubercolosi sono infatti lunghissimi, possono durare anche anni, molto di più dunque di una traversata, e quindi anche se un migrante parte perfettamente sano ma con un’infezione latente abbiamo tutti gli strumenti per agire bene per tempo se si dovesse manifestare l’infezione una volta stabilitosi in Italia. Specularmente, i tempi in cui ebola si manifesta sono molto più brevi di quelli di una traversata in mare. “Se davvero dovesse esserci un caso di ebola a bordo – cosa assai improbabile –difficilmente il malato, o chi eventualmente venisse contagiato, arriverebbe vivo in Italia, rappresentando un problema per noi”.

Se c’è un problema riguardo alla tubercolosi, riguarda gli immigrati residenti, che di fatto si ammalano di più rispetto agli autoctoni, e al momento nessuna regione italiana propone uno screening sistematico per la tubercolosi fra gli stranieri residenti, anche se complessivamente il paese sta assistendo a una diminuzione dei casi anno dopo anno. Secondo quanto riportato dall’ultimo rapporto Osservasalute , i casi di tubercolosi notificati in Italia mostrano una lenta e progressiva diminuzione dell’incidenza, in accordo con quanto già accaduto nel corso degli anni (da 7,7 casi per 100.000 abitanti nel 2006 a 6,3 casi per 100.000 nel 2015). Insomma: la presenza dei migranti, anche quando diventano cittadini italiani, non ha impattato minimamente sul trend del numero dei casi di tubercolosi in Italia.

Lo stesso si verifica per l’HIV. I dati in merito sono lapalissiani: le ondate migratorie non hanno influenzato il trend complessivo dei nuovi contagi da HIV in Italia, anzi i dati del Centro Operativo AIDS (COA) dell’Istituto Superiore di Sanità mostrano che stiamo assistendo a una costante diminuzione dei casi. “Sebbene non siano untori, non significa che il problema non sussista – precisa Baglio – dal momento che comunque gli stranieri, anche se residenti, hanno maggiori difficoltà di accesso ai servizi, nonostante le cure siano assicurate presso le strutture del Servizio sanitario nazionale anche a chi non ha il permesso di soggiorno. Occorrono dunque maggiori sforzi a sostegno di una più efficace azione preventiva, di un accesso tempestivo al test diagnostico e di una maggiore fruibilità dei percorsi di cura, con particolare riferimento al grado di adesione dei pazienti ai protocolli terapeutici”.

ALLERTA NON SIGNIFICA EPIDEMIA

Circa 180 mila dei 500 mila sbarcati, stando alle statistiche più recenti, sono accolti nei centri di accoglienza, che sono i luoghi dove chi arriva sano ma vulnerabile può ammalarsi, se non vengono assicurate le misure minime di igiene e di controllo. Ancora una volta i dati sono chiari: la maggior parte delle malattie che si riscontrano nei centri di accoglienza sono problemi dermatologici non gravi in termini infettivi: scabbia e ustioni, queste ultime dovute alla commistione fra carburanti e acqua di mare, a cui i migranti, in particolare le donne che viaggiano di norma al centro dei gommoni, sono sottoposti.

Non si tratta di opinioni, sono i dati a metterlo nero su bianco, come emerge ancora una volta dall’ultimo rapporto di Osservasalute, che riporta i risultati dell’ultima Sorveglianza sindromica nei Centri per migranti della regione Sicilia nel periodo marzo- agosto 2015. Delle 13 malattie incluse nella sorveglianza, che ha coinvolto 21 centri di accoglienza in 5 province siciliane, per un totale di oltre 5000 migranti osservati ogni giorno, si sono riscontrate oltre 2000 sindromi, ma altro non erano che scabbia e ustioni. Nessun caso di diarrea con sanguinamento, sindromi gastroenteriche, meningiti, encefaliti, sindromi neurologiche, sepsi o shock inspiegabili, emorragie o ittero. E soprattutto solo un caso di tubercolosi polmonare latente.

Qui entra in gioco un secondo fraintendimento, questa volta di carattere linguistico, che deriva dall’utilizzare a sproposito i termini allerta e allarme. Questa sorveglianza sindromica riporta infatti 48 allerte e 16 allarmi nel periodo esaminato, in questa coorte di 5000 persone. “Si tratta di parole che fanno risuonare l’idea di gravi pericoli incombenti, mentre si tratta solo di termini tecnici utilizzati da noi epidemiologi – spiega Baglio – per descrivere situazioni che vale la pena controllare. Un’allerta statistica si verifica quando, nell’analisi giornaliera dei dati, la frequenza di una certo problema di salute (sia esso un episodio di bronchite o un caso di varicella) supera il livello atteso, mentre si parla di allarme quando l’allerta ricorre per almeno due giorni consecutivi. L’obiettivo è riuscire a intercettare il maggior numero di situazioni dubbie su cui poi si procede con la conferma diagnostica e l’eventuale trattamento”.

Importanti sono anche i risultati, riportati sempre da Osservasalute, che emergono dagli interventi effettuati a Roma fra il 2014 e il 2015 sui migranti in transito, per un totale di 3.870 visite effettuate dalle équipe sanitarie operanti sulle unità mobili nel 2014 e 8.439 nel 2015. Per quanto riguarda le malattie infettive sistemiche, nel 2014 sono state effettuate 21 segnalazioni (pari allo 0,5% della casistica totale), così distribuite: 7 persone con sospetta tubercolosi polmonare, per nessuna delle quali è stata poi confermata la diagnosi; 8 casi di malaria e 6 casi di varicella. Nel 2015, le segnalazioni di sospetta malattia infettiva sono state in tutto 108, e hanno riguardato prevalentemente casi di varicella (70) e malaria (27). I casi sospetti di tubercolosi sono stati 7 e solo per 2 di questi è stata confermata la diagnosi.

Certo, i problemi di igiene in molti casi rimangono, e in generale, nonostante non dobbiamo prestare attenzione ad alcun monatto manzoniano, non possiamo abbassare la guardia sul fronte dei controlli. A tale riguardo, sta per essere pubblicata dall’Istituto Nazionale Salute, Migrazioni e Povertà, in collaborazione con l’Istituto Superiore di Sanità e con la SIMM, la linea guida “Controlli sanitari all’arrivo e percorsi di tutela per i migranti ospiti presso i centri di accoglienza”. Si tratta di un documento, elaborato da un panel multidisciplinare di esperti, che intende offrire raccomandazioni basate sulle migliori evidenze scientifiche disponibili sulla pratica dei controlli, per la quale esiste a tutt’oggi elevata incertezza e discrezionalità. Prima della stesura definitiva, sarà avviata una fase di revisione aperta, mediante consultazione pubblica, al fine di consentire un confronto trasparente, partecipato e costruttivo tra gli stakeholder e gli operatori sanitari, volto a sollecitare osservazioni e suggerimenti.

SALUTE PUBBLICA PER CHI?

È oltremodo curioso inoltre assistere alle rimostranze in termini di fantomatiche malattie infettive – che poi altro non sono che scabbia, varicella, eventualmente morbillo – e dall’altra al pericoloso aumento di chi decide per scelta per esempio di non vaccinare i propri figli. Anche qui il concetto di salute pubblica è perlomeno frainteso: ci si sente in pieno diritto di gridare agli untori, se ci sentiamo potenzialmente minacciati, ma non ci autodefiniamo tali se le nostre scelte possono mettere a rischio indirettamente e potenzialmente qualcun altro. “Rispetto alle malattie prevenibili con vaccino – precisa Baglio – il problema viene affrontato dalle Linee guida in precedenza ricordate, che raccomanderanno di vaccinare i bambini migranti ospiti presso i centri di accoglienza per le principali malattie, secondo il calendario nazionale vigente, in relazione all’età”.

“Il vero grosso fraintendimento è dunque quello di considerare come problema di salute pubblica primariamente ciò che avvertiamo come emergenza, in termini di ciò che può avere conseguenze dirette su di noi, mentre qui si tratta di allargare lo sguardo e considerare nel complesso il benessere di chi arriva. Ci riferiamo solitamente alla salute pubblica mettendo al centro noi, gli autoctoni, e le conseguenze delle azioni degli ‘altri’ – i migranti, gli stranieri – su di noi, ma è una prospettiva parziale” conclude Baglio. “Si tratta di pensare invece alla salute pubblica davvero in termini universali, e non solo per noi, gli autoctoni. I dati mostrano in maniera evidente che qui a essere vulnerabili sono loro, non noi.”

(fonte)