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Le risposte che mancano

La quarantena fra due settimane finisce e le domande sono tante. Alle Regioni e al governo: dai casi di contagio alla sicurezza sul lavoro, dai trasporti alla scuola…

Alle regioni, ad esempio.

Sapete che professione esercitano i contagiati di questo ultimo periodo, quelli che hanno incrociato il virus nonostante la quarantena? L’hanno preso in famiglia? Se sì, quindi sono stati sottoposti a test tutti i membri della famiglia? L’hanno preso sul posto di lavoro? Quindi sono stati controllati i colleghi, sono state verificate le condizioni di lavoro, si è verificato che esistano tutti gli accorgimenti e i dispositivi che servono in quel luogo di lavoro?

E poi: quelli che sono guariti dalla malattia sono stati sottoposti a tampone o semplicemente vengono lasciati liberi di tornare a lavorare senza ulteriori verifiche? Quando sarà possibile immaginare l’accesso al tampone per le migliaia di persone che sono sottoposte a isolamento solo con diagnosi sintomatica?

Più banalmente: quando si potrà fare un serio screening sulla popolazione?

Al governo, ad esempio.

Cosa si ha intenzione di fare per tutte le attività che non riprenderanno a breve? Spettacoli dal vivo, ristorazione, alberghiero come faranno a superare questi mesi? Quali misure si metteranno in campo?

Come organizzare i trasporti pubblici? Si confida sul fatto che dal 4 maggio tutti si spostino con un mezzo privato? E chi non può? Chi non ce l’ha? E comunque il traffico reggerà?

Quanto durerà questa carenza dei dispositivi che servono per ripartire? Ci saranno abbastanza mascherine dal 4 maggio quando molti si sposteranno quotidianamente? Quando un cittadino potrà sapere se ha contratto il virus? Come risolvere il problema degli isolamenti che si renderanno ancora necessari a chi non ne ha la possibilità?

Riapriranno gli asili? E chi si occuperà di loro se i genitori dovranno tornare a lavorare? E per quelli che continueranno a lavorare da casa chi provvederà a tutti gli strumenti che servono per lavorare? Lo Stato? Le aziende?

Come si pensa di colmare il gap che impedisce a molti ragazzi di seguire le lezioni? Chi si occuperà degli anziani che saranno costretti ancora alla quarantena? Come risolvere la questione dell’assistenza domiciliare che si è fermata in questo periodo?

Come risolvere il problema dell’agricoltura che vive sul lavoro degli stagionali che si spostano ora che non ci si può spostare? Dove si troveranno i braccianti? Come calmierare i prezzi che stanno già crescendo?

Com’è possibile mettere in sicurezza le carceri che non hanno nessuna possibilità di garantire distanziamento sociale? Quali comportamenti e dispositivi per detenuti e operatori?

Era il 21 febbraio quando si è ammalato il paziente 1 nell’ospedale di Codogno. Siamo stati a casa, ligi alle regole. Non notate anche voi quante domande rimangano appese, così, nel silenzio? Fra due settimane finisce la quarantena decisa per decreto, sicuri di non essere in ritardo?

Buon giovedì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

C’è già il futuro. Mancano gli occhi

Mi ha colpito molto leggere una notizia che ha dato il Corriere della Sera in cui si racconta di questo asilo a Prato in cui si insegnano tre lingue (il lunedì e il martedì si parla in italiano, il mercoledì e il giovedì in cinese mentre il venerdì e il sabato si parla in inglese) frequentato da bambini italiani, francesi, peruviani, marocchini, egiziani, rumeni e cinesi dai tre ai sei anni.

Prato, del resto, è una città con altissima immigrazione (le cifre ufficiali parlano di almeno trentamila persone) e ha inevitabilmente dovuto fare i conti con l’integrazione al di là dell troppe cretinate a cui dobbiamo assistere per ignoranza e per propaganda.

In tutto questo c’è anche il fatto che l’asilo “Isola felice” (perché sì, si chiama proprio così) è gestito da cinesi ma non è per niente una scuola cinese come ci si potrebbe aspettare seguendo la solita retorica delle comunità chiuse. La direttrice  Giulia Hu infatti si sente in dovere di chiarire: «Attenzione però, noi non siamo una scuola cinese di cinese c’è solo la gestione, siamo una materna parificata e dunque seguiamo gli standard ministeriali italiani». Evidentemente abituarsi a uno scambio bidirezionale è un’impresa.

Poi c’è la frase di una mamma italiana che racconta perché ha deciso di iscrivere il figlio: «Semplice: oltre a imparare tre lingue i bambini si abituano a vivere e a pensare in modo globale e multietnico. Il metodo pedagogico è eccellente, la scuola ben attrezzata, funzionale, ha ottimi servizi. Il futuro è multiculturale. Bisogna abituarci a convivere con più culture sin da piccoli».

E mentre leggevo la notizia pensavo che in fondo il futuro, quello che viene declamato con tanto ardore da alcuni aspiranti progressisti molto innamorati di se stessi, è già qui: immagino cosa pensano alla sera questi bambini e i loro genitori e questi insegnanti quando sentono filosofeggiare di modelli di integrazione che in realtà in Italia esistono già e funzionano benissimo. E chissà che non si sentano in colpa anche i dirigenti dei media, quelli che avrebbero l’obbligo di raccontare che l’integrazione funziona mica solo nei programmi elettorali, perfino negli asili funziona.

Buon giovedì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui https://left.it/2019/09/19/ce-gia-il-futuro-mancano-gli-occhi/ – e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.