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marciapiede

La strage degli invisibili, il freddo uccide 25 senza tetto

Ci sono vite che non si incrociano, che non hanno voce da alzare, che scivolano fuori dal dibattito politico perché vengono considerate poca roba, che non spostano molti voti, che si affievoliscono. Quando l’11 marzo dell’anno scorso per motivi di sicurezza nazionale, con lo spettro del virus che incombeva, il primo di una lunga serie di Dpcm lanciava l’appello #iorestoacasa per più di 55mila persone quel consiglio non era perseguibile: una casa non l’avevano. Sono vite precarie che ciondolano tra problemi di salute, fragilità relazionali e condizioni di vita assai difficile, sono il percolato di una paradigma sociale in cui se ti lasci andare finisci schiantato senza nessuna rete di protezione.

La pandemia non è uguale per tutti e non è nemmeno l’occasione per romanticizzare la solitudine nonostante più di qualcuno abbia provato a inquinare lo sguardo: la pandemia ha reso i poveri ancora più poveri, i precari ancora più schiacciati e ha annientato quelli che non avevano niente e ora insieme al peso del niente si portano anche la paura o le conseguenze del virus: «È stata un acceleratore per la costruzione di risposte e soluzioni organizzative, ma rimane il fatto che vi sono case vuote e tante persone in strada. Dare una casa a queste persone significa salvare la loro esistenza, significa dare loro forza e coraggio per riprendere in mano la propria vita, riallacciare relazioni ed affetti, reinserirle nel tessuto sociale», spiega la Fio.Psd (Federazione italiana organismi per le persone senza dimora) che con Iref (istituto di ricerche educative e formative) e in collaborazione con la Caritas ha redatto un report sulla situazione dei senza tetto in Italia lo scorso 26 novembre e che ora lancia un appello al Governo e al ministro Orlando per chiedere di agire subito. «Non dimentichiamoci degli ultimi!», dice Cristina Avonto, presidente della Fio.Psd, ricordando come con le temperature sotto zero siano già 25 i morti in strada.

L’organizzazione ricorda che l’Housing First (l’opportunità di entrare in un appartamento autonomo “senza passare dal dormitorio” godendo dell’accompagnamento di una equipe di operatori sociali direttamente in casa) costa in media 26 euro al giorno rispetto ai 30 euro giornalieri dei dormitori e i beneficiari vedono garantiti i loro diritti fondamentali: casa, residenza, lavoro e reddito. Le ricerche raccontano che in 8 casi su 10 la persona esce dall’isolamento, stabilizza il proprio benessere psico-fisico, si prende cura della propria salute, si impegna in attività di training e occupazioni di svago e in molti casi riprende i legami con familiari e amici. Sono storie di riscatto che ridisegnano il prodotto interno lordo della dignità di un Paese.

C’è Gian Maria, ad esempio, che per strada ci ha vissuto per cinque anni perché il suo orgoglio l’aveva sempre spinto a non chiedere aiuto ai dormitori pubblici. Gian Maria ha perso il lavoro, ha perso la casa ed è sopravvissuto fra i vagoni di un binario abbandonato frequentando le mense cittadine finché un suo compagno una notte non gli morì di fianco. Quando gli offrirono una casa la rifiutò, pretendeva un lavoro: «E come me la pago una casa se non ho un lavoro?», disse ai volontari. A 59 anni ora Gian Maria, che si sentiva a capo di un manipolo di soldati traditi dallo Stato, ha ricominciato piano piano a reinserirsi, ad affidarsi alle cure di uno psichiatra, a occuparsi di tutti i documenti che smettono di renderlo invisibile, ad appoggiarsi al reddito di cittadinanza e ora ha l’occasione di un lavoro.

C’è Anita che dopo la fine di una relazione si è ritrovata a chiedere ospitalità in un dormitorio e che ha vissuto una convivenza difficile con altre 6 donne. Trovare una casa ha avuto un effetto sorprendente: un crollo degli elementi di tensione e conflitto e una gioia incontenibile per la novità di un luogo da sentire come “casa propria”. Adesso ha un lavoro, la residenza e può incontrare a casa i suoi figli. Ci sono i racconti di chi ha vissuto l’angoscia della pandemia moltiplicata dall’essere per strada. Antonio racconta: «Uscivamo la mattina e non sapevamo dove andare, per evitare di incontrare la polizia, vagavamo per la strada in metro. Ci sentivamo braccati, evitavamo di fermarci perché altrimenti ci davano degli appestati. Vedere il panorama di una città vuota, senza auto e né persone, solo gabbiani».

«Troppe persone che da anni sono bloccate nel circuito dei servizi rendono evidente che il sistema è inefficace per fronteggiare le crisi – dice Giuseppe Dardes, coordinatore della Community italiana dell’Housing First -. Non possiamo sprecare questa opportunità. Persona al centro e responsabilità diffusa nella comunità: questi sono i due fattori chiave dell’efficacia di Housing First sia nell’esperienza italiana sia in quella della rete internazionale a cui Fio.Psd aderisce. Crediamo che si possa e si debba ripartire da qui per una nuova stagione della programmazione degli interventi per il contrasto alla grave emarginazione adulta».

La pandemia sta bloccando e scoraggiando gli ingressi nei ricoveri caritativi notturni, rendendoli anche più complicati per l’obbligo di eseguire il tampone. Tra i morti congelati e soli che riempiono qualche riga di giornali c’è anche Mario, 58 anni, deceduto il 6 gennaio vicino alla stazione Termini, a Roma. A pochi passi da lui c’era un albergo, vuoto per l’emergenza Covid. È la foto perfetta di un accoglienza possibile che viene respinta e lasciata sul marciapiede.

L’articolo La strage degli invisibili, il freddo uccide 25 senza tetto proviene da Il Riformista.

Fonte

La Storia non è una statua inamovibile uguale a se stessa: ecco perché si può mettere in discussione

La Storia non è una statua, non rimane ferma, per fortuna, non è qualcosa di inamovibile che si ripresenta uguale a se stessa ogni giorno sottoposta nei secoli allo stesso identico giudizio. Le persone che sono state, siano il Montanelli che sventola da anni con la sua agiografia o qualsiasi altro rappresentato in qualche statua, non sono icone che sbiadiscono e si cementificio in arredo urbano come se fossero un lampione o un marciapiede allargato.

Sono personaggi che hanno compiuto cose alte e basse, che sono naufragati in piccolezze che a quel tempo erano tollerabili e ora lo sono meno. Tutto per un motivo semplice semplice che qualcuno si ostina a negare: il progresso del pensiero, l’evoluzione della sensibilità e, si spera, il progresso civile che rende normale qualcosa che prima non lo era e che rende insopportabile qualcosa che prima poteva essere sopportato.

C’è chi tira questa corda perché ogni giorno il mondo migliori di un pezzo, perché ci si ricordi che in fondo era accettato l’essere schiavi, l’essere inferiori perché femmine, l’essere escluso dal voto, l’essere considerato meno degno per condizione sociale o religiosa o di etnia. L’Italia che non permetteva il divorzio, che non concedeva l’aborto, che conviveva con il delitto d’onore e con il matrimonio riparatore non è la stessa Italia di oggi: se non cadessimo nel tranello di parlare del dito e perderci la luna in questi giorni parleremmo del mondo che è cambiato, solo dopo è cambiata la sensibilità con cui certi eroi vengono visti anche con occhi diversi. Sta tutto qui.

Il punto non è che Indro Montanelli abbia comprato una moglie che considerava una “docile bestiola” in un’era in cui era “normale” ma il punto è che nella nostra Storia abbiamo considerato potabili degli orrori che oggi fanno accapponare la pelle, semplicemente. E con il senno di poi, con il progresso civile, si potrebbe anche dire che sì, che era proprio una schifezza quella cosa lì, senza tirare in ballo una difesa a oltranza che è solo il pungolo di quelli che da sempre la corda la tirano dall’altra parte, quelli che sono cretinamente convinti che tutto sia immutabile e che il conservatorismo sia l’unica cosa che li rassicuri e li consoli.

La Storia non è una statua ed è doveroso riconoscerla come discutibile, tutti i giorni, una materia in continua evoluzione. Sarebbe da parlare di questo, senza gli eccessi di chi venera e di chi sgretola che non sono la notizia di cui parlare. Anche ridurre il progresso a ordine pubblico, ora che ci penso bene, è piuttosto schifoso.

Leggi anche: 1. Black Lives Matter, a Bristol i manifestanti buttano giù la statua di uno schiavista | VIDEO / 2. La storia va studiata, non cancellata. Abbattere i monumenti è pericoloso

L’articolo proviene da TPI.it qui

Puttana, negra e clandestina: lo stupro perfetto (e un libro da leggere)

Il libro da leggere è “Le ragazze di Benin City“.

Sul perché leggerlo riporto un articolo di Laura Maragnani, una delle autrici. Non serve altro. No.

Diario del mese, anno VI n. 6, 20-10-2006

Il problema è solo questo, dice Isoke: da dove cominciare a raccontare. 

Da Judith, 14 anni appena, che alla sua prima sera di lavoro sui marciapiedi romani della Salaria è stata stuprata e picchiata dal primo cliente, e poi lasciata sull’asfalto più morta che viva? O da Joy, che era incinta, e che ha perso il bambino che aspettava? Da Gladys, a cui un cliente ha distrutto l’ano violentandola tre-quattro volte di fila? O da Rose, stuprata da chissà quanti e in chissà che modo, fino ad avere l’utero perforato; e che, pure, non osava nemmeno mettere piede in un ospedale per curarsi? 
Non sono le storie che mancano. Anzi, sono perfino troppe, quaggiù, sugli affollati marciapiedi d’Italia.

Gli stupri qui sono roba quotidiana; violenti, se non addirittura atroci; eppure assolutamente invisibili, e dunque assolutamente impuniti: «Perché le ragazze non denunciano mai. E nemmeno vanno al pronto soccorso, a meno di non essere moribonde», spiega Isoke. 
E la voce le trema. Le viene da piangere. 
Isoke ha 27 anni, è alta, mora, bella. Nigeriana. Di Benin City. È da Benin che provengono, a migliaia, le ragazze buttate dal racket sui marciapiedi italiani, 10-12 ore al giorno di macchine e di clienti, esposte in mutande e tacchi a spillo a ogni genere di violenze e di aggressioni. Lei, trafficata come le altre, è riuscita a uscirne e a salvarsi. Oggi vive ad Aosta, sta per sposare un italiano. 

E insieme, lei e io, stiamo scrivendo per l’editore Melampo un libro sulla tratta. Sulla sua esperienza di ieri e sul suo lavoro di oggi: uno, «dare voce a chi non ce l’ha», ossia alle ragazze che ogni sera scendono in strada senza sapere se mai ritorneranno, perché sono «almeno duecento, stando alle cronache dei giornali, quelle che negli ultimi anni sono state accoltellate, strangolate, uccise a furia di botte o di iniezioni di veleno agricolo», senza contare quelle torturate e stuprate e massacrate, ma che in qualche modo sono tornate a casa vive, e dunque non fanno assolutamente notizia; due, «cercare di creare una rete, di trovare insieme un percorso d’uscita, un’alternativa alla strada»; tre, «mettere in piedi una casa-alloggio per le ragazze che non ne possono più». 
Aprirà tra poche settimane, ad Aosta. E si chiamerà, ovviamente, la Casa di Isoke. Sottoscrivete. L’indirizzo è rbc_isoke@yahoo.it . 
Allora, dice Isoke. Questa storia degli stupri etnici. Le ragazze la vivono tutti i giorni, ogni volta che vanno al lavoro. Ogni sera escono di casa con due pensieri in testa: forse questa è la sera che incontro il cliente che mi aiuta, che magari mi risolve un po’ il problema del debito. 
Trenta, cinquanta, sessantamila euro. Il costo che le ragazze pagano per arrivare in Italia, con la promessa di un lavoro che le salverà dalla miseria di Benin City. Arrivano qui, dice, e scoprono che il lavoro è poi sempre uno e uno soltanto, il marciapiede. E sul marciapiede succede di tutto; ma voi non lo sapete. E dunque il secondo pensiero che le ragazze, ogni sera, hanno in testa è questo: speriamo che non mi succeda niente. Ma a una o all’altra qualcosa succede. Sempre. Gli stupri sono la regola. Tutti i giorni, dice Isoke. Tutti i giorni gliene segnalano uno.

Stavamo scrivendo la storia di Osas, arrivata a Torino dopo due anni (due anni? «Sì, due anni interi») di viaggio attraverso l’Africa, su su dalla Nigeria fino al deserto del Sahara. In 60 stipati su un camion, senz’acqua né cibo, e quelli che erano di troppo venivano lasciati giù. Così. A morire. Mentre il camion proseguiva verso il nord del Marocco su una pista punteggiata di ossa e di cadaveri freschi. Arrivata a Torino, Osas è stata buttata sulla strada. Caricata da un cliente. 
Dove andiamo? ha chiesto lui. «Posto tranquillo» ha detto lei; era una delle poche frasi che le avevano insegnato le compagne di lavoro. Solo che il posto tranquillo di lui era una cascina semidiroccata nell’hinterland torinese, spersa nella nebbia e nel freddo. E arrivati lì lui le ha puntato un coltello alla gola. L’ha violentata, picchiata, rapinata. Lei ha urlato e urlato. Da un’abitazione vicina una voce ha gridato: «Ma basta, ma finitela. State zitti». 
E solo dopo che l’uomo se n’è andato qualcuno ha osato mettere il naso fuori. Un ragazzo con un cane. Che vuoi, ha chiesto mentre il cane le ringhiava contro; che cosa è successo. Poi l’ha caricata in macchina e l’ha riportata a Torino. «È stato uno degli uomini più gentili che ho incontrato in Italia» dice Osas adesso. Bene. 
Stavamo scrivendo di Osas quando a Isoke è arrivato un messaggio dalle ragazze di Verona. È sparita Prudence. Arrivata una settimana fa dalla Nigeria. Vent’anni. Analfabeta. Non una parola che sia una di italiano. Prudence non tornava a casa da due giorni. A casa aveva lasciato i suoi vestiti e le sue poche cose. Le compagne di strada la stavano cercando dappertutto. Ospedali, questure. Niente. Fino a che è ricomparsa. Irriconoscibile. Sfigurata dalle botte. Quasi non riusciva a camminare. Che cosa è successo, le ha chiesto Isoke in dialetto ebo. «Mi hanno bucato l’utero, mi hanno bucato l’utero». Prudence riusciva a dire solo questo, ossessivamente. A fatica abbiamo saputo che un cliente l’aveva caricata al suo joint, che è lo spicchio di marciapiede che ogni ragazza ha in dotazione e per cui paga a chi di dovere un affitto mensile che va dai 150 ai 250-300 euro. L’aveva caricata e portata chissà dove. E violentata. E riviolentata. E picchiata. Massacrata. Derubata. Scaricata in un bosco, a chilometri dalla stanzetta che Prudence considerava casa sua. Prudence è rimasta in quel bosco tutta la notte, tutto il giorno dopo. Senza mangiare né bere. Sconciata. Sanguinante. A fatica s’è poi trascinata fino a un campeggio, c’era gente che faceva vacanza, che l’ha riportata a Verona. Lì è finalmente riuscita a orientarsi. È tornata a casa. «Mi hanno bucato l’utero, mi hanno bucato l’utero». 
In ospedale non ci è voluta andare, per paura che la polizia la rimandasse a casa. Rimpatrio forzato. Così com’era, in mutande. A marcire in una prigione di Benin City dove le altre detenute ti violentano con una bottiglia, ridendo e dicendo: cosa è meglio, dicci, questa bottiglia o quello che sei andata a goderti in Italia. Di Prudence non abbiamo saputo più niente. È diffìcile per una donna italiana ascoltare storie del genere. 
Ascoltare Isoke che dice: ogni africana stuprata è un’italiana salvata. È difficile. È orribile. Ma vero. I nostri uomini, gli italiani. Stupratori a pagamento, li chiamano le ragazze sulla strada. Quelli che perché pagano i 25 euro della tariffa standard si sentono in diritto di esigere qualunque cosa. Cazzo ti lamenti, bastarda. I soldi li hai avuti. Succhia. Girati. Apri il culo. E giù botte. Hanno l’ossessione del culo, gli italiani che vanno a puttane.
«Dicono: voglio fare quello che con mia moglie non faccio mai», spiega Isoke. «Scene da film porno. Tutto quello che hanno visto nei film porno e con la moglie non hanno il coraggio o il permesso di fare». Ho pagato, è la frase chiave dello stupratore da 25 euro. E giù botte, se solo dici di no. Gladys non riesce quasi più a camminare. Un cliente le ha sfondato l’ano. Era «come una bestia» dice, l’ha costretta a subire una, due, tre, quattro violenze, a un certo punto Gladys ha sentito «come un distacco, nel profondo». Da quella lacerazione non è più guarita. Ospedale? Cure? Denunce? Ha una paura terribile, Gladys. Non ne vuole sapere. Si trascina sul marciapiede a fatica, ogni sera. Ormai zoppica. E non c’è verso di convincerla ad andare da un medico. Dice: «Se la polizia lo viene a sapere mi rimanda a casa». È la regola. 
Dice Isoke: «A volte le ragazze ridotte molto male finiscono al pronto soccorso. Ma devono veramente essere ridotte molto, ma molto male. Incoscienti. In coma». Al pronto soccorso non è che le trattino coi guanti. Dovrebbe essere rispettata la privacy, certo. Ma chi mai dice che la legge valga anche per le puttane negre clandestine? A volte infermieri e medici sono cattivi, a volte addirittura strafottenti. Chiamano la polizia. 
La polizia prende svogliatamente la denuncia; poi ti da il foglio di via. Sei la vittima di uno stupro. Ma sei anche quella che ne paga le conseguenze. Così le ragazze, appena possono, girano alla larga dalla polizia e dagli ospedali. Tornano a casa più morte che vive. Traumatizzate. Distrutte.

La maman dice: ma di cosa ti lamenti, a me è successo tante volte. E il giorno dopo le rimanda sulla strada, coi lividi e i tagli e i segni dei morsi e delle cinghiate e delle bruciature di sigaretta in bella vista. I clienti a volte si impietosiscono, dice Isoke. Ti danno i soldi, dicono: vai a casa e curati. Allora la maman dice: vedi, anche ridotta così sei in grado di guadagnare. Di cosa mai ti lamenti. Sei scema. Gli stupri di gruppo. Capitano spesso. Tre-quattro per volta, arrivano, ti caricano a forza. Sei fortunata a uscirne viva. A volte gli uomini dicono delle cose, mentre ti stuprano. Cose come: brutta negra. Cazzo vieni a fare qui. Così impari. Startene in mutande a casa tua. Ti faccio vedere io. Schifosa puttana. Chi ti ha mai detto divenire qui. Tornatene nella foresta, insieme alle scimmie. Si sentono in qualche modo dei giustizieri, dice Isoke. Ce l’hanno con te perché sei donna. E nera. E puttana. E debole. Non so perché ma i più violenti, quelli più grandi e grossi, si scelgono sempre le ragazze più leggere e più fragili. Quelle così magre e sottili che sembrano una foglia di mais.
 Se ci provano i ragazzini, 16 anni, 18, bé, dice Isoke, gli molli un pugno da tramortirli e scappi via. I più pericolosi sono quelli dai 25 anni in su. Ottanta-novanta chili. Trent’anni. Quaranta. Quelli che a prima vista non diresti mai che sono stupratori. Che non hanno niente nel vestire che ti allarmi, nulla nell’approccio che ti metta in guardia. Sono quelli che poi dicono: ho pagato. Che magari hanno l’Aids ma non vogliono usare il preservativo, per sfregio, e poi ti mettono incinta. Che dicono negra di merda, adesso ti sistemo io. Che tirano fuori il coltello o la pistola. Che ti bruciano con le sigarette, ti riempiono di pugni, ti portano via la borsetta, i soldi, il cellulare. Che ti lasciano a decine di chilometri da casa tua, nel buio o nella neve. E queste sono soltanto alcune delle cose che ti posso raccontare. Solo ascoltare è mostruoso. E ascoltare non finisce mai. 

Ci sono le mille altre storie della strada, le mille vicine di marciapiede delle ragazze di Benin City: le trans sudamericane, vittima preferita dei nordafricani. Stupro omosessuale, lo chiama pudicamente Isoke. C’è la bambina brasiliana di dieci anni. Ci sono le albanesi violentate coi bastoni e con le bottiglie dai loro magnaccia, per convincerle ad andare sulla strada. C’è un campionario osceno di bestialità maschile, senza filtri e ma e se. E, soprattutto, c’è la paura delle ragazze. Perenne.

Dice Isoke: il primo stupro è diffìcile da superare. Sei distrutta. Qualcosa in te si è rotto per sempre. Però ti consoli dicendoti: mi sono vista morta, eppure sono viva. Al secondo dici: capita. Al terzo dici: è normale. Dal quarto in poi non li conti più. È un rischio del mestiere. Di Prudence, dicevo, non abbiamo saputo più niente. Non è ancora andata in ospedale. Se l’infezione non si aggrava non ci andrà probabilmente mai. La curano le sue compagne di strada e di casa.
Una di queste è Eki, che ha avuto finalmente il coraggio di raccontare: è successo anche a me. Mi hanno stuprata e picchiata e torturata con le sigarette accese. Allora le sue compagne hanno detto: anch’io. Stanno mettendo in comune la paura, lassù a Verona. Stanno cominciando a pensare che forse bisogna trovare il coraggio di sfidare il racket e decidere di smettere. Non che sia facile, dice Isoke. Non lontano da Verona una ragazza che non voleva più saperne del marciapiede, Tessie, è stata costretta dai suoi magnaccia a bere acido muriatico. È finita al pronto soccorso. L’hanno salvata per un pelo. E adesso si ritrova sfigurata e handicappata e quasi muta. Una ragazza africana di villaggio, semplice semplice. Ignorante. Analfabeta. Che diavolo di futuro può trovare in Italia. Ditemelo voi. Poi ci sono le ragazzine. Tredici anni, quattordici. Vergini. Vendute agli italos dalle famiglie che vedono i vicini che fanno una bella vita grazie alle figlie che lavorano in Italia. Che si comprano il motorino. Il Mercedes coi sedili leopardati che quando passa nei villaggi solleva una gran polvere e tutti i ragazzini gli corrono dietro rapiti. 
Quando ‘ste ragazzine arrivano in Italia le maman si mettono le mani nei capelli. Che cosa devo fare con te, che non sai niente. Allora pagano tré-quattro ragazzoni africani, grandi bastardi, dice Isoke, che le violentano in tutti i modi finché non hanno capito e imparato quel che si deve fare sulla strada.
Ora. Vorrei potermi risparmiare almeno questa parte della storia, ma non si può. Gli extracomunitari che raccolgono i pomodori, l’uva, le mele. Dodici, quindici ore di lavoro per sette, dieci, dodici euro. Frustrazione e rabbia pura. 
Vi siete mai chiesti come la sfogano? Sulla Domiziana, dalle parti di Castelvolturno, terra senza dio né legge in provincia di Caserta, le ragazze vivono in catapecchie senz’acqua né luce. Guadagnano 5 o 10 euro a botta. Sono la vittima perfetta dei loro stessi compaesani. Che le schifano, «perché si vendono ai bianchi». 
E non hanno soldi e non le pagano e le rapinano nella certezza della totale impunità. Si vendicano della vita di merda che fanno. Con loro, le ragazze di Benin City. 
Isoke dice: però questo io non lo posso dire. Allora lo dico io. In certe zone la polizia chiude non un occhio ma due, e forse anche tre, avendoli, e pure anche quattro. Va bene che ci siano le ragazze di Benin City: sono uno sfogatoio perfetto, un matematico calmieratore di tensioni sociali ed etniche. Sono la vittima designata, l’agnello sacrificale. Perché ogni africana stuprata è un’italiana salvata. E l’africana stuprata tace. Ha troppa paura per parlare. È perfettamente invisibile e dunque non fa notizia né statistica. Nemmeno di questi tempi, ragazze mie. Pensatele ogni volta che uscite di casa a notte fonda, e soprattutto ogni volta che rientrate. Voi, bianche. Voi, sane e salve.

 

Sì, lo voglio

Lui avrà avuto forse trent’anni, quasi quaranta, sicuramente non più di quarantacinque. Portati male, comunque. Di troppo o troppo poco.

Stavano a Roma in un ristorante troppo imbucato per non essere scientificamente un ristorante costruito apposta con quella forma lì per inghiottirsi tutti i viaggiatori con una predisposizione all’imbuco. Tavolini fuori, sì, ma con siepi altissime, come un cubo di edera. Camerieri riservati da sembrare timidi da almeno un paio di secoli. Nessun orario di apertura o chiusura: se apri un ristorante così introvabile soffri l’orario dei mondi paralleli, degli alieni per salvarsi, dei non-luoghi senza bisogno di aerei o centri commerciali. Insomma un ristorante che esiste solo se si incrociano perfettamente gli appuntamenti: luogo, ora, imprevisti e tutto quel cumulo delle probabilità.

Lei deve essere stata accondiscendente tutto il pranzo. Lo scalino più irto era stata la scelta del vino. Cosa da poco. Hanno finto di metterci la testa per quell’abitudine alle complicazioni come una malattia.

Poi lei deve avere fatto una di quelle domande definitive. Perché lui si è guardato in giro. Per sbaglio ha incrociato anche uno dei riservatissimi camerieri dalla riservatissima postura. Che per poco non ha rischiato il lavoro per quell’errore di mira di sguardi.

Poi si è bloccato. Ha pagato il conto come se dovesse morire ogni secondo e lasciare le cose a posto. Lei ha sorriso prima. Poi si è indispettita. E alla fine si è alzata mentre il rumore di elettrocardiogramma sputava lo scontrino. Dietro l’angolo della strada si sono incrociati di nuovo. Ciechi a tutti. Un sciogliersi di ombre a forma di macchia sul marciapiede per quel sole così matematicamente verticale.

Sono giovani, mi ha detto un carabiniere. Non hanno ancora imparato a non pensare al domani. Un ‘sì, lo voglio’ come il rosario prima di andare a dormire.