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mario portanova

I professionisti dell’anti-antimafia

Bravissimo Mario Portanova per Il Fatto Quotidiano:

I lettori, comunque, prendano atto che nulla vale più, in Italia, per far carriera di essere un professionista dell’anti-antimafia.

Ok, chiedo subito scusa per aver indegnamente rimaneggiato il celebre brano di Leonardo Sciascia, tratto dall’altrettanto celebre articolo I professionisti dell’antimafia, pubblicato esattamente trent’anni fa, il 10 gennaio 1987, sul Corriere della Sera. Resta il fatto che i professionisti dell’anti-antimafia, in questi tre decenni, si sono sempre visti garantire direzioni di giornali – magari foraggiati da contributi statali o da mecenati interessati -, programmi televisivi, rubriche, ospitate ai talk show nonché seggi parlamentari e posti da ministro. Anche più dei professionisti dell’antimafia evocati in quell’articolo.

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Chi sono i professionisti dell’anti-antimafia? Sono quelli che per mestiereattaccano sistematicamente i magistrati, che stanno sempre dalla parte dei politici accusati di collusione, anche dopo la sempre invocata “condanna definitiva” (Dell’Utri, Cuffaro…). Sono gli spacciatori di garantismo per l’uso personale di amici e amici degli amici. Sono quelli che fanno paginoni sugli antimafiosi caduti in disgrazia o sulle polemiche giudiziarie (ormai non solo palermitane), ma mai che gli scappi mezza riga sulle vittime di Cosa nostra, della ‘ndrangheta, della camorra: i piccoli commercianti taglieggiati, gli imprenditori usurati, i contribuenti saccheggiati quando gli appalti e i finanziamenti pubblici finiscono alle aziende dei boss con la complicità di una vasta “area grigia”.

Ieri il Corriere della Sera, a firma di Felice Cavallaro, ha celebrato la “profetica lungimiranza” dell’articolo di Sciascia, collegandolo ai tanti guai che oggi colpiscono personaggi e sigle a vario titolo impegnati – o autoproclamatisi tali – nella lotta alle cosche: il giudice Silvana Saguto, l’ex presidente di Confcommercio Palermo Roberto Helg, il presidente di Confindustria Sicilia Antonello Montante, il giornalista Pino Maniaci, fino alle polemiche interne a Libera (per chi vuole approfondire, tutte vicende che ilfattoquotidiano.it ha ampiamente raccontato). Eccoli i “professionisti dell’antimafia” che il grande scrittore siciliano additò addirittura con trent’anni di anticipo. Ma le cose stanno davvero così? Andiamo a rileggere l’articolo originale.

Innanzitutto, Sciascia non usa mai il termine “professionisti dell’antimafia”, che è farina del sacco del titolista del Corriere. E neppure accenna a truffe e malversazioni in nome dell’antimafia. Il brano centrale – in un lungo articolo che prende spunto da un saggio inglese su regime fascista e Cosa nostra – è questo: “I lettori, comunque, prendano atto che nulla vale più, in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso”. Un solo giudice è citato, e in negativo. Si chiama Paolo Borsellino. La sua carriera antimafia finirà cinque anni più tardi, sappiamo come. Cavallaro racconta che poi lo scrittore e il magistrato si incontrarono e si spiegarono, e che Borsellino “non era il bersaglio” dell’articolo.

Anche in questo caso, ognuno può rileggerselo e valutare se il celebrato (oggi, allora non molto) eroe dell’antimafia ne uscisse bene o male. Trent’anni dopo, Nando dalla Chiesa resta convinto che il bersaglio fosse proprio lui, come rimarca oggi su Il Fatto Quotidiano. Aggiungendo che Borsellino, prima di essere assassinato con la sua scorta, “fece in tempo a dichiarare nell’ultimo discorso pubblico, ricordando Falcone, che ‘Giovanni ha incominciato a morire con quell’articolo sui professionisti dell’antimafia’”.

L’altro bersaglio, non citato per nome, è l’allora sindaco di Palermo Leoluca Orlando. Descritto nell’esempio di “un sindaco che per sentimento o per calcolo cominci ad esibirsi – in interviste televisive e scolastiche, in convegni, conferenze e cortei – come antimafioso”. Orlando può piacere o meno, ma ruppe con la Dcstoricamente complice di Cosa nostra in Sicilia (CianciminoLimaAndreotti… il boss-grande elettore Giuseppe di Cristina. Avevano fatto carriera lo stesso, anche più di Orlando). E oggi, trent’anni più tardi, nonostante la “lungimirante profezia” che lo vedeva occuparsi più di “convegni” che di “acquedotti”, i cittadini di Palermo conservano Orlando sulla stessa poltrona, dopo aver sperimentato altri sindaci che certo dell’antimafia non facevano né una professione né una passione. Piuttosto erano politicamente imparentati con Silvio Berlusconi, quello che il mafioso – sotto forma di stalliere – se lo teneva in casa.

Ancora un paio di cose. Dieci mesi dopo l’articolo di Sciascia, il 17 dicembre, lo stesso Corriere della Sera, a firma di Alfio Caruso, commentava così la sentenza di primo grado del maxiprocesso di Palermo, oggi unanimemente riconosciuta come il primo grande colpo dello Stato contro Cosa nostra (che infatti reagirà con le stragi): “Ieri sera, in un punto imprecisato degli Stati Uniti, Tommaso Buscetta è tornato a far parte della mafia vincente”, si leggeva sul quotidiano milanese. “Glielo hanno permesso i giudici che a Palermo, accogliendo le sue confessioni, hanno punito le grandi famiglie dell’onorata società, gli uomini che avevano decretato lutti e terrori per amici e consanguinei del boss dei due mondi”. Più avanti, un cenno “agli inguaribili ottimisti che parlano di sentenza storica”.

Chi aveva istruito quel processo? Borsellino e Falcone (giudice a latere l’attuale presidente del Senato Piero Grasso). Anni più tardi, su Repubblica del 29 ottobre 1993, lo scrittore Corrado Stajano, storica firma delle pagine culturali del Corriere, descriverà così il clima di quegli anni in via Solferino: “Per tutti gli anni Ottanta non mi è stato permesso di scrivere di mafia. Eppure ero tra i pochi a conoscere i fatti e ad avere letto tra l’altro le 8mila pagine dell’ordinanza-sentenza del maxiprocesso”. Un’esclusione che si spiegava “forse perché stavo dalla parte del pool antimafia”, ricordava Stajano, in un’epoca in cui “le direzioni dei giornali esercitavano un controllo micragnoso, assillante” su qualunque notizia potesse “nuocere o spiacere ai governanti”. Questo per dire il contesto, tanto per restare in tema sciasciano. C’era un potere politico che storicamente intrallazzava con la mafia, e per non turbarlo era meglio recintare per bene le cronache palermitane, compresi gli atti vergati dai futuri eroi nazionali Falcone e Borsellino.

Vale poi la pena di aggiungere che altre intuizioni dello scrittore di Racalmuto non hanno avuto alcuna fortuna presso i professionisti dell’anti-antimafia che solo per quelle poche righe mostrano di idolatrarlo. Per esempio l’intervista del 1970 a Giampaolo Pansa – quella sì davvero profetica – sulla “linea della palma”, cioè la mafia, che si spostava progressivamente dalla Sicilia verso il Nord Italia, cosa puntualmente accaduta nell’indifferenza pressoché generale, almeno fino ad anni recenti. Oppure, tanto per dire, la descrizione di un comizio della Democrazia cristiana in Le parrocchie di Regalpetra (1956), dove “la mafia ha qua e là paracadutato i suoi elementi più suggestivi”.

Detto questo, l’articolo di Sciascia lasciò – e lascia ancora, a trent’anni di distanza – il segno fra i variegati antimafiosi che non di rado hanno tutte le sue opere ben allineate nella libreria di casa. Uno di loro, Lillo Garlisi, racalmutese e sciasciano di ferro, oggi editore a Milano con Melampo, all’epoca lo condannò con forza. Ieri, in una discussione fra amici su WhatsApp, ha scritto: “Allora sbagliammo a non cercare di ricucire con Sciascia. La zona grigia trovò l’ideologia che le mancava. Lo regalammo al nemico”.

Forse in quell’articolo di trent’anni fa una parte profetica ci fu davvero. Ha poco a che fare con Borsellino e molto con l’antimafia di oggi. Scriveva Sciascia che, nel momento in cui qualcuno “si esibisce” come antimafioso, difficilmente qualcun altro oserà criticarlo o attaccarlo, anche con ragioni fondate, perché correrebbe “il rischio di essere marchiato come mafioso, e con lui tutti quelli che lo seguiranno”. E’ il tema centrale individuato da Francesco Forgione, già presidente della Commissione parlamentare oggi guidata da Rosy Bindi, fautore di un contrasto culturale ai clan più sociale e meno legato a icone e santini, nel suo recente libro I tragediatori. La fine dell’antimafia e il crollo dei suoi miti (Rubbettino 2016). “Per troppo tempo”, scrive Forgione, “l’antimafia non ha discusso di se stessa, della sua vita, del suo modo d’essere”. Lasciando così correre le aberrazioni, quando non il malaffare, anche quando qualche segnale poteva essere colto e qualche allarme lanciato. Non ha discusso, argomenta Forgione, proprio per la ragione indicata da Sciascia. Perché mettere in discussione l’operato di certe figure significava “incorrere nell’accusa di sovraesporle al rischio di diventare vittime dei killer mafiosi”. Così ai professionisti dell’anti-antimafia si è lasciato l’intero campo da gioco.

Lettere che mi rendono felice

12122542_868262876576517_1348074369069251953_nContinuiamo a correre. Ed è un bene. Continuo ad incrociare librerie, librai e lettori che sembrano il presepe del paese raccontato in televisione e non credo che siano questi ad essere in cattività. A Napoli mentre presentavo ‘Mio padre in una scatola da scarpe’ avevo di fronte, in prima fili, fissi sul petto gli occhi dei figli di Michele Landa e il pubblico stralunato ha visto un libro a forma di famiglia e una famiglia a forma di libro, tutti e due insieme. Mentre mi faccio portare in giro dal mio libro respiro con quegli slanci tutti polmoni come quando ero ancora capace di meravigliarmi. Sono diventato terribilmente bambino. O meravigliosamente vecchio. Dentro la scatola da scarpe ci ho trovato anche qualche pezzo di me che per noncuranza avevo lasciato in giro.

Ma soprattutto ci sono le voci di chi l’ha letto che mi mostrano angoli nemmeno immaginati: Mario Portanova (che è sempre un onore avere di fianco per la sua pulizia intellettuale, oltre che la preparazione) ha detto che Michele, il protagonista del libro, è un “profugo stanziale” cioè uno che vive da straniero nel suo paese perché non ne accetta le dinamiche bieche. Una lettrice forte mi ha insegnato che dentro il libro c’è il coraggio di raccontare coloro che “fanno ciò che possono” ed ha ragione: forse davvero abbiamo scambiato i fragili per vigliacchi, tutti presi da questa muscolosità politica.

Poi mi è arrivata una lettera. Inaspettata perché disinteressata come si riesce ad essere disinteressati di fronte ad un libro che non vuole insegnare niente, solo raccontare. Me l’ha scritta Stefano e ha il colore delle lettere scritte di fretta, senza mediazioni. Dice:

 

“…ebbene sì, caro Giulio, scusa se mi permetto di essere diretto, ho letto il tuo ultimo libro e sento la necessità di ringraziarti.
Dopo cinque minuti, da che l’avevo chiuso già l’avevo passato a mio padre con cui condividiamo la passione per la lettura, vorrei sentire il suo parere…ma soprattutto vorrei che anche lui, come me, conosca Michele e Rosalba,
per respirare la polvere di Mondragone, apprezzare la semplice bellezza delle loro vite e della verità.
Spero che non mi deluda, che mi confermi  ciò che penso e cioè che chiunque legge “Mio padre in una scatola da scarpe” deve donarlo a chi ama con la promessa che egli faccia lo stesso.
Perchè poi, quando ne avrà bisogno ritroverà comunque ogni riga, ogni emozione scolpita in modo indelebile sul proprio cuore.
Spero che mi confermi ciò che penso…tu hai scritto un Capolavoro, grazie  alla vita di Michele che è una testimonianza rara di amore e verità.

Non preoccuparti comunque.. lo consiglierò a chiunque.. ne regalerò una coppia a tutti.. anche a chi non conosco.

ti abbraccio e, appunto, ti ringrazio dal profondo del mio cuore, della mia anima.

Stefano”

Quando l’ho letta ho pensato che non è mica indirizzata a me, piuttosto ai figli di quel Michele Landa che ha lasciato dei figli veri, mica solo dentro un libro. E quando Angela Landa l’ha letta mi ha scritto una risposta che è un fulmine:

“la mia felicità è che da una storia di dolore è nata una storia di amore”

Vedi quanto sono forti i libri. E i buoni.

Il Fatto Quotidiano scrive di “Mio padre in una scatola da scarpe”

Schermata del 2015-09-21 18:42:16

di Mario Portanova (fonte)

Parliamo tanto della mafia, ma poco delle sue vittime. Certo, non saltiamo un anniversario dei generali caduti sul campo, com’è giusto che sia, ma come in tutte le guerre muoiono anche i soldati, i civili che non c’entrano nulla. E poi ci sono i profughi. Quelli che sono costretti a lasciare la propria terra – non se la prenda ilpresidente Renzi, ma purtroppo succede – perché non vogliono sottostare a prepotenze e compromessi con i boss, e quelli che invece restano, seppellendosi però nella muta ribellione delle “brave persone” che per sopravvivere devono rendersi “invisibili”. Così descrive questi profughi stanziali Giulio Cavalli in “Mio padre in una scatola da scarpe“, appena pubblicato da Rizzoli (288 pagine, 19 euro).

Il libro romanza una storia vera e, appunto, dimenticatissima. Quella di Michele Landa, metronotte ucciso e bruciato aMondragone, in provincia di Caserta, la notte tra il 5 e il 6 settembre 2006 mentre montava la guardia a una grande antenna per i telefoni cellulari a Pescopagano, in una zona di prostitute e spaccio. Gli mancava una manciata di giorni alla pensione e al sogno modesto di dedicarsi all’orto e ai nipoti. Ancora oggi non abbiamo neppure lo straccio di un indiziato, ma non è questo il cuore del libro di Cavalli, autore ed attore teatrale, ex consigliere regionale in Lombardia e finito sotto scorta per le pesanti minacce ricevute in seguito ai suoi spettacoli di denuncia antimafia. Cavalli scrive un romanzo d’amore e d’omertà, un giallo all’incontrario dove il delitto arriva alla fine ma l’assassino si svela fin dalle prime pagine. Michele Landa è appunto un profugo nella sua terra, un orfano dalla vita difficile che fin da piccolo ha dovuto ingoiare l’insegnamento del nonno: sii sempre onesto ma fatti i fatti tuoi, stai lontano dai mafiosi ma non provare mai a ribellarti se ha davvero a cuore i tuoi cari. Precetti che Michele osserva facendo violenza su se stesso, e che per giunta alla fine non lo salveranno. Di lui alla fine restano poche ossa carbonizzate dentro la scatola da scarpe che dà il titolo al libro.

Non sappiamo chi è l’esecutore materiale, come si leggerebbe in un atto giudiziario, ma sappiamo tutto del contesto in cui quel delitto è maturato. Un paese dove nessuno sente vede parla, dove la famiglia di camorra (nel romanzo, i Torre) può tutto, perché in grado di somministrare la morte ma anche la vita, dato che controllando le principali attività economiche può dispensare “il posto fisso” che caccia il fantasma della disoccupazione senza uscita. E lo Stato? E’ rappresentato da carabinieri indolenti e complici, così lontani dai famosi reparti speciali che firmano le grandi operazioni antimafia che finiscono su tutti i giornali. Allora ha ragione il presidente Renzi, è “macchiettistico” dire che in Italia la criminalità organizzata controlla “intere regioni”. Diciamo più correttamente che controlla parte della Campania, parte della Calabria, parte della Sicilia, parte della Puglia. E poi – in proporzione minore – parte dell’hinterland di Milano, parte della Brianza, parte del torinese, parte di alcuni quartieri romani… e sempre nella capitale, parte del Settore appalti. Molti profughi di questa lunga e sanguinosa guerra attendono di essere soccorsi.

LA FRASE. “Questa è una terra che va abitata in punta di piedi, Michele, va abitata in silenzio, qui le brave persone per difendersi diventano invisibili, Michele, in-vi-si-bi-li”.

Domani a Opera (MI)

Con Mario Portanova, alle 21 presso la Biblioteca del centro polifunzionale di via Gramsci 21 a Opera-MI (mappa qui: http://goo.gl/maps/9TTGk ) per un incontro-dibattito promosso dall’UniTre (Università delle Tre Età) di Opera-MI su “Le infiltrazioni mafiose nel nord Italia: il caso Lombardia“.

 

 

Attenzione: la mafia è anche al sud

Mario Portanova per Il Fatto Quotidiano:

Attenti che la mafia è anche al sud. Paradossale vero? E’ il disturbo bipolare dell’informazione, l’illogico alternarsi di euforia e apatia. Un’informazione che per decenni ha taciuto sul radicamento della criminalità organizzata nel Nord Italia, anche se in Lombardia, tanto per dire, tra il 1993 e il 1996 ci sono stati circa tremila (tremila!) arresti per mafia. Poi, soprattutto dopo la grande operazione Crimine Infinito del 13 luglio 2010, ha inondato l’opinione pubblica di inchieste, libri, documentari e trasmissioni televisive sulle attività dei boss trapiantati in Lombardia, Piemonte, Liguria, Emilia-Romagna…

Come evitare di ricascarci in futuro, a tutto vantaggio delle mafie che nelle fasi di silenzio più facilmente prosperano, al Sud come al Nord? Forse dovremmo abituarci a considerare Cosa nostra, ‘ndrangheta e camorra come questioni nazionali – e internazionali – senza troppe distinzioni, dalla Valle d’Aosta alla Valle dei Templi.

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Girovagando per l’Italia: dove siamo questa settimana

Oggi (che è lunedì) iniziamo alle 10.30 con una visita all’OPG (su cui vi consiglio di informarvi qui) di Castiglione delle Stiviere (MN) con il nostro candidato sindaco Franco Tiana. Poi alle 21 a Bollate (MI) per la serata sulle “mafie al nord” con Gianuigi Fontana (procuratore generale presso Tribunale Milano) Francesca Barra e Mario Portanova in Sala Consiliare, piazza Aldo Moro.

Martedì in Consiglio Regionale poi, alla sera, alle 20.45 con il libro “L’innocenza di Giulio” alla biblioteca comunale di Cologno al Serio (BG), piazza Garibaldi n.5.

Mercoledì sera, a Lodi,  “Il modello Formigoni non è salutare” sulla sanità poco sana di Regione Lombardia, con Roberta Morosini, coordinatrice SEL Lodi e Michele Galbiati, responsabile forum salute SEL Lodi, Alberto Villa, segretario FP CGIL Lombardia responsabile comparto sanità e Mauro Tresoldi, segretario FP CISL Lodi.

Giovedì alle 18 a Bergamo presento il libro “L’innocenza di Giulio” , Libreria Melbookstore, ore 18:00 via XX Settembre, 78/80.

Venerdì dalle 10 a Roma, Sede di Giurisprudenza della Luiss Guido Carli Viale Parenzo 11 Roma con Nicolò D’Angelo, Questore di Perugia, Gabriella De Martino, DNA, Ciro Corona, Associazione anti Camorra. Tutte le info le trovate qui.

Sabato sera a Como, in scena con NOMI, COGNOMI E INFAMI (Aula Magna del Politecnico Via Castelnuovo nr.7) per sostenere il candidato sindaco Mario Lucini.

Sappiamo dove incrociarci, insomma.

Dove sono questa settimana

La “settimana del quorum”:

domani martedì 14 a Cesate, ore 21 (Biblioteca in via Piave) per parlare di mafie e partecipazione

mercoledì 15 (ci tengo) h21.30 Giulio Cavalli (cioè io) e Massimo Bubola in “Si sono presi il nostro cuore” Carroponte via Granelli 1 Sesto San Giovanni (MI)

giovedì 16 al PREMIO ILARIA ALPI Villa Mussolini, Palacongressi Via Milano 31 Riccione (RN) 18.00Silenzio, c’è la mafia al nord! con me c’è Gianluigi Nuzzi, giornalista di Libero e scrittore, Mario Portanova, giornalista e collaboratore de L’Espresso, Piergiorgio Morosini, magistrato presso il Tribunale di Palermo e segretario di Magistratura Democratica, Marco Nebiolo, redattore di Narcomafie. Modera Antonella Mascali, giornalista de Il Fatto Quotidiano

domenica 19 a Milano per la FESTA DI NAZIONE INDIANA, ore 18 “Sapessi com’è strano, la ‘ndrangheta a Milano” Con Eleonora Bianchini, Giuseppe Catozzella, Giulio Cavalli, Marco Rovelli, Evelina Santangelo, Gianni Biondillo
“La Mafia non appartiene alla tradizione di questa città” ha detto una volta l’ormai ex-sindaco Letizia Moratti. Subito dopo, degna del proverbiale struzzo, ha ricacciato la testa sotto la sabbia. La stessa dei cantieri edili e dei movimenti terra gestiti da decenni dalle cosche della ‘Ndrangheta, che a Milano da sempre vivono un legame a doppio filo con l’affarismo e la politica. E la Lega che fa, finge di non sapere? È ora che Milano apra gli occhi, e che impari da chi, come a Palermo, fa dell’antimafia una autentica battaglia di civiltà.
circolo Arci BellezzaVia Giovanni Bellezza 16 Milano