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Massimo Mantellini

Buona guarigione, Briatore

L’imprenditore piemontese ha insistito nel negare la pericolosità del virus. Forse, una volta guarito dal Covid, dovrà delle spiegazioni a chi ha messo in pericolo: dipendenti e ospiti del suo locale che si è rivelato un pericoloso focolaio

Giusto qualche giorno fa proprio su queste pagine mi è capitato di contestare Flavio Briatore per le sue idee e per la superficialità con cui ha affrontato il tema dei rischi Covid e la superficialità con cui ha invocato il liberi tutti in nome del fatturato del suo locale che proprio in questi giorni si è rivelato un pericoloso focolaio con ben 63 positivi su 90 tamponi fatti.

Flavio Briatore è ricoverato all’ospedale San Raffaele di Milano (tra l’altro in un reparto che non è attrezzato per il Covid e dove, pagando, ha deciso di stare) perché anche lui è positivo e intorno, ovviamente, si sono avventati un po’ tutti, anche chi con un certo sprezzo del senso di umanità sta augurando all’imprenditore la peggior sorte in nome di una giustizia vendicativa che dovrebbe servirgli da lezione. Beh, qui si augura a Briatore di guarire presto (del resto le notizie dicono che le sue condizioni siano stabili e buone, niente di preoccupante al momento, così dice il comunicato ufficiale del suo staff) però alcune considerazioni meritano di essere fatte.

Come scrive giustamente Massimo Mantellini: «Immaginare di sterilizzare la discussione che lo stesso Briatore ha scatenato, ora che è malato della stessa malattia che negava, e questo in nome dell’umana pietà che dobbiamo riservare a tutti, è semplicemente ridicolo». Briatore, come molti altri, ha insistito nel negare il pericolo e negare la pericolosità del virus (e con lui lo stesso primario Zangrillo che ora se lo ritrova in reparto) e forse, una volta guarito, in quanto personaggio pubblico (e usato spesso dalla politica come profeta, sui social della Lega sono state rilanciate di gran voga le sue dichiarazioni) dovrà spiegare questa sua superficialità, ci dovrà spiegare come sia successo che la sua discoteca abbia numeri di contagio che sono ben superiori a quelle delle altre discoteche e dovrà delle spiegazioni a chi ha messo in pericolo, a tanti dei suoi dipendenti e dei suoi ospiti. Perché, come dice spesso lo stesso Briatore, «le parole stanno a zero e contano i fatti». E infiammare gli animi finisce sempre per rivoltarsi contro, sempre.

Per quanto riguarda i complottisti invece non c’è speranza: comincia già a girare la fake news che Briatore sia stato “infettato dal sistema”. Pensate un po’.

Buona guarigione.

Buon mercoledì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

L’arte di raccontare crescita. Che non c’è.

ottimismoPer fortuna Massimo Mantellini (che di internet se ne intende e ci lavora) mi conforta sull’opinione che anche Riccardo Luna si sia un (bel) po’ incagliato nella retorica del vedere crescita a tutti i costi. Lo spiega bene qui.

Nell’eterno scontro tra ottimisti per servitù e presunti gufi (innescato paninaramente da Renzi e i suoi) alla fine si perde il senso di ciò che è vero e quello che non lo è. E questa non mi sembra una grande notizia. E mi sembra una pessima modernità. Esattamente uguale ai vecchi. Eh.

Gli imbecilli della rete

Illuminante Mantellini:

Il linguaggio d’odio quello no. L’hate speech è un tema rilevante che va affrontato con intelligenza. Non perché io creda che le parole d’odio in rete siano un problema rilevantissimo (non lo sono troppo, tranne che in alcuni casi molto particolari) ma perché le parole d’odio oltre ad essere codarde e oltraggiose saranno una scusa per fare altro domani. Da questo punto di vista credo che il contenzioso legale in rete al riguardo sia in Italia ancora troppo modesto e incentrarlo nella discussione pubblica su singoli fatti personali contribuisce a creare un cortocircuito pericoloso. Invece che portare il diffamatore davanti ad un giudice (ma ancora prima più banalmente all’attenzione di Facebook che gli chiuderà il profilo), si preferisce occuparsi del tema in senso generale con editti del tipo: ehi voi, guardate, mi hanno offeso on line. Dobbiamo fare qualcosa! (Laura Boldrini docet). Una quota di imbecilli che scrive “devi morire” in rete rimarrà sempre, ma la parte più rilevante della discussione sulle parole d’odio riguarda altre persone, la maggioranza, e meccanismi basici di controllo dell’interfaccia. Fino a quando questi verranno ignorati ci saranno due tipi di imbecilli nei commenti su Internet. Gli imbecilli imbecilli e gli imbecilli che se avessero avuto idea della propria imbecillità avrebbero fatto in modo di recuperarla prima che fosse troppo tardi.

Un Paese senza opinione pubblica

Lo scrive Mantellini e c’è da esserci d’accordo:

Come è evidente a chiunque si allontani un istante dal proprio oggetto d’amore (l’Italia sole-amore-fratellanza, il paese piu’ bello del mondo, la culla di mille civiltà e blablabla) l’opinione pubblica, quella specie di contrappeso democratico che garantisce gli equilibri fra le varie parti della società, in Italia non esiste. Non dico che non conti, non esiste proprio, se non nel fantoccio comunicativo utile alle forze in campo per legittimare sé stesse.

Accreditarsi con un libro

La seconda cosa che Luca dimentica nel suo post è che in moltissimi casi scrivere un libro, un saggio qualsiasi, qualcosa che a malapena arriverà negli scaffali e che venderà forse qualche centinaia di copie per scomparire dopo pochi mesi, è una forma di accreditamento indispensabile in un numero molto ampio di ambienti culturali e professionali. Moltissimi oggi scrivono libri con questo unico pensiero e tutto sommato fanno benissimo a farlo. C’è un provincialismo formidabile in questo, non tanto dello scrittore in sé ma dei moltissimi che ti accreditano in società in quanto scrittore pubblicato. Con un tomo. Di carta. Nessuna pagina digitale, nessun ebook anche magnifico ti darà accesso ai piani bassi (e talvolta a quelli medi e perfino in qualche caso a quelli alti) del palcoscenico culturale nostrano. Se poi sei uno di quei pazzi che si autopubblicano in formato digitale allora passi direttamente nel girone degli sfigati per definizione. La targhetta scrittore (anche se il tuo libro non l’ha mai letto nessuno), quella di una volta, la mano che regge il mento nella terza di copertina e lo sguardo pensoso, sono il bagaglio minimo per essere accettato in società. Forse anche questo non durerà per molto ma per ora di sicuro un po’ funziona.

Mantellini in un suo post dimostra di essere avanti in un argomento che l’editoria non ha ancora intravisto.

L’ingenua prova contraria

bersani-crimi-lombardi-620x350Scriveva anni fa Stefano Rodotà (che forse Bersani avrebbe anche potuto ogni tanto consultare) che l’uomo di di vetro è una metafora totalitaria. Lo riscrivo: l’uomo di vetro – l’idea stessa che il cittadino che non ha nulla da nascondere debba poter essere interamente esplorato – è una metafora totalitaria. Vale per l’ultimo di noi ma vale, almeno in parte, anche per i nostri rappresentati in Parlamento. E non è un caso che Beppe Grillo inneggi ad una sua personalissima idea di trasparenza a corrente alternata, dove l’unanimità dei parlamentari grillini è ottenuta in segreto e diventa comunicazione fiduciaria (perché come ha sostenuto la povera Lombardi oggi senza nemmeno accorgersi delle enormità che le uscivano di bocca loro sonocredibili) mentre il punto di vista di chiunque altro (tutti gli altri sono invece per definizione gli “incredibili”) resta il risultato di un commercio sottobanco fino a prova contraria. E la prova contraria, l’ingenua prova contraria nella mente dei semplici è la presenza della telecamera.

(Massimo Mantellini via manteblog)

Il caso Sallusti oltre Sallusti

Ho fatto un sogno. Niente di rivoluzionario, per carità, ma qualcosa di utile: provare a cogliere le opportunità oltre che crogiolarsi nelle piccole soddisfacenti vendette. E provare a cogliere nel recente caso Sallusti (almeno per la dimensione mediatica che sta suscitando) un quadro generale di tutela non tanto per chi ha fatto della diffamazione e l’aizzamento a mezzo stampa un marchio di fabbrica (verrebbe da dire che a Sallusti stia capitando un banale contrappasso, del resto) ma per i molti giornalisti precari che non hanno casse di risonanza.

Come scrive Matteo su ValigiaBlu:

La difesa del diritto all’informazione non può essere subordinata allo scalpore provocato dal caso di turno, o allo status del giornalista coinvolto. Non deve diventare, implicitamente, una questione di classe riguardante i giornalisti di serie A. Spesso è proprio il giornalista che lavora nella piccola redazione locale  a subire le pressioni più forti, a essere più esposto a ogni tipo di censura, anche solo antropologica. Perché quando esce dalla redazione, e va in piazza o al bar, si trova gomito a gomito con quei personaggi di cui ha indagato e denunciato le malefatte. Lì trova il sindaco, l’assessore, l’amministratore delegato. Lì vede in faccia chi potrebbe, il giorno dopo, rivolgersi a un avvocato per zittirlo a suon di milioni, una volta letta la cronaca locale. In questi casi il rischio di querela è come avere una parte del cervello chiusa in un carcere le cui pareti sono fatte di paura, ansia, frustrazione e incertezza. Diventa dunque vitale, per poter svolgere al meglio la professione, essere tutelati.

Vale la pena di leggere il suo post e la sua intervista a Stefano Santachiara.