Vai al contenuto

Mediocrazia

Siamo seppelliti dalla “mediocrazia”

(Anais Ginori intervista il filosofo Alain Deneault. Ed è tutta da leggere. Fonte: il Venerdì di Repubblica)

«Non c’ è stata nessuna presa della Bastiglia, niente di paragonabile all’incendio del Reichstag, e l’incrociatore Aurora non ha ancora sparato un solo colpo di cannone. Eppure di fatto l’assalto è avvenuto, ed è stato coronato dal successo: i mediocri hanno preso il potere».

Il filosofo canadese Alain Deneault non pensava di avere così tanto successo quando ha pubblicato il suo saggio sulla rivoluzione silenziosa che ci ha fatto precipitare nel regno del conformismo. Il suo La Mediocrazia, pubblicato ora anche in Italia, ha provocato una presa di coscienza tra molti lettori. «Evidentemente ho captato qualcosa, un malessere, che era nell’aria» commenta Deneault seduto in un caffè dal design retrò. «Nell’ America del Nord persino i caffé sono tutti così omologati» confessa il filosofo cinquantenne che insegna sia a Montreal che a Parigi ed ha già pubblicato numerosi studi sui paradisi fiscali.

In quale momento storico ha inizio la Mediocrazia?

«È interessante vedere quando nasce la parola. Una prima descrizione degli esseri mediocri è fatta da Jean de La Bruyère nel Settecento. Nella sua galleria di caratteri descrive Celso, un uomo che ha scarsi meriti e non possiede abilità particolari ma riesce a farsi strada tra i potenti grazie alla conoscenza di intrighi e pettegolezzi.

Nell’Ottocento il mediocre ha nuove pretese: non è solo in cerca di favoritismi e compiacenze, ma tenta di essere protagonista nel mondo politico, culturale, scientifico. È in quel momento che appare il termine mediocrazia. Ne parla ad esempio il poeta Louis Bouilhet citato da Gustave Flaubert, denunciando la “cancrena” della società».

Il mediocre è un uomo senza qualità?

«Non per forza. Mediocre è chi tende alla media, vuole uniformarsi a uno standard sociale. In breve: è il conformismo. Robert Musil diceva: “Se la stupidità non somigliasse così tanto al progresso, al talento, alla speranza o al miglioramento, nessuno vorrebbe essere stupido”. Esistono mediocri di talento. Un tecnico delle luci di una tv commerciale può essere bravo e dedito quanto uno del Piccolo di Milano. Anzi, spesso serve ancor più impegno, dedizione. La Mediocrazia riconosce alcuni meriti, ma solo alcuni».

È un golpe invisibile, senza dover sparare un colpo.

«L’ingranaggio sociale si è attivato con la prima rivoluzione industriale. Karl Marx l’aveva intuito. Il capitale ha reso i lavoratori insensibili al contenuto stesso del lavoro. La mediocrazia è l’ordine in funzione del quale i mestieri cedono il posto a una serie di funzioni, le pratiche a precise tecniche, la competenza all’esecuzione pura e semplice. Il lavoro diventa solo un mezzo di sostentamento, con una progressiva perdita di soggettività. Una situazione che provoca malessere sociale».

Negli anni Ottanta la fine ideologie e il trionfo del neoliberismo segnano una nuova svolta: è così?

«Già prima, nel Dopoguerra, si sviluppa il concetto di governance con la comparsa di grande aziende e multinazionali, poi mutuato da alcuni leader politici come Margaret Thatcher e Ronald Reagan. Nella governance la misura dell’ efficacia è la salute del settore economico e finanziario. Così muore la politica, cancellata dai diktat manageriali. Basta osservare il linguaggio nel dibattito pubblico.

Non parliamo più di popolo ma di società civile, i cittadini diventano partner, riprendendo appunto un lessico del settore privato anche nella politica e le relazioni sociali. E oggi vediamo Emmanuel Macron che si vanta di essere pragmatico, sentiamo parlare di realismo da parte di Manuel Valls. Nel 2012 François Hollande si è fatto addirittura eleggere con lo slogan di “Presidente normale”».

Perché ha deciso di scrivere un libro su questo tema?

«Abbiamo davanti problemi troppo gravi: il riscaldamento climatico, l’inquinamento atmosferico, il crollo delle istituzioni pubbliche. Ci sono tante e tali minacce che non possiamo accontentarci di affidare il potere a capetti senza visione e senza convinzioni. Siamo a una svolta, un momento in cui la gente soffre nel doversi piegare a norme sbagliate.

Le nostre società sono piene di persone che finiscono in depressione, vanno avanti con gli psicofarmaci. Ci sentiamo oppressi da strutture sociali vessatorie, alienanti. Siamo sottoposti a una dittatura soft della norma, dello standard unico. E se non ci adeguiamo veniamo rigettati, espulsi. In sintesi: la governance è la teoria, la mediocrazia è la modalità. E l’estremo centro è l’ideologia».

L’estremo centro? Che intende?

«La mediocrazia fa sì che non ci sia più molta differenza tra Donald Trump e Alexis Tsipras. In ogni caso si applica un solo programma: sempre più capitali per le multinazionali e i paradisi fiscali, meno diritti per i lavoratori, meno soldi per il servizio pubblico. Queste scelte vengono presentate come ineluttabili e soprattutto come ragionevoli.

Chi non si vuole allineare viene trattato da irragionevole, pericoloso, non realista. L’estremo centro cancella la distinzione tra destra e sinistra, si presenta come visione unica ed esclusiva, esprimendo intolleranza per tutto ciò che tenta di rappresentare un’alternativa. E non può essere messo in discussione anche se è distruttore dal punto di vista ambientale, socialmente iniquo e intellettualmente imperialista».

Non esiste nessuna alternativa, come diceva Thatcher?

«L’alternativa che si profila in questo momento all’estremo centro è il ritorno a metodi di governo violenti, brutali, una sorta di ritorno alle origini dello Stato primitivo. E quello che vediamo con i vari Trump, Le Pen. È una differenza di tono, di immagine. In Canada abbiamo avuto come premier Stephen Harper, che era più a destra di certi Repubblicani americani, e ora abbiamo il giovane liberal Justin Trudeau. Ma è un cambio apparente. Uno è arrabbiato, l’ altro sorride sempre. Alla fine il programma, e gli interessi rappresentati, sono gli stessi».

Lei denuncia l’ascesa degli “esperti” nel mondo accademico e nei media. Cosa rimprovera loro esattamente?

«L’esperto è una figura centrale della mediocrazia: si sottomette alle logiche della governance, sta al gioco, non provoca mai scandalo, insegue obiettivi. È la morte dell’intellettuale, come lo descrive Edward Saïd in un saggio, Dire la verità. Intellettuali e potere. Si tratta di un sofista contemporaneo, retribuito per pensare in una certa maniera, che lavora per consolidare poteri accademici, scientifici, culturali.

 

I veri intellettuali seguono interessi propri, curiosità non dettate a comando, possono uscire dal gioco. Un giovane ricercatore universitario ha davanti a sé un bivio. Se vuole essere semplicemente un esperto ha buone possibilità di fare carriera, ottenere una cattedra, finanziamenti.

Se ha il coraggio di restare un intellettuale puro avrà un futuro molto più incerto. Magari non finirà assassinato come Rosa Luxembourg o incarcerato come Antonio Gramsci, ma non è più certo di poter diventare un professore come Saïd o Noam Chomsky. Ha buone chances di restare precario tutta la vita».

Quali sono le reazioni possibili per combattere la mediocrazia?

«Nel libro ho elencato almeno cinque modi. C’è chi rifiuta le facezie e le aberrazioni della società contemporanea e si mette in disparte: è l’uomo che dorme, come diceva Georges Perec. Esiste il mediocre per difetto, che subisce tutte le menzogne, soffre in silenzio ma si consola quando vince la sua squadra del cuore o può progettare una vacanza al mare.

La vera piaga è il mediocre zelante, maestro del compromesso: il presente gli somiglia, il futuro gli appartiene. Poi c’è il mediocre per necessità, consapevole della situazione ma che tiene famiglia, non può permettersi il lusso di uscire dai ranghi. E infine ci sono i fustigatori della mediocrazia: sono pochi, ma possono tentare di allearsi con i mediocri in disparte e quelli per necessità. La loro unione può portare alla nascita di movimenti come Occupy o le Primavere arabe.

Nonostante mille difetti queste insurrezioni tentano di sovvertire le fondamenta delle istituzioni mediocratiche. E magari altri mediocri, fiutando il vento, potrebbero allora decidere di unirsi a loro per conformismo. È già successo. L’abbiamo visto negli anni Sessanta e Settanta, quando molte persone sono diventate fintamente di sinistra»

(il libro si può acquistare nella nostra Bottega dei Mestieri Letterari qui)

Un mondo dominato dai mediocri

image

(Un bell’articolo di Gianna Fregonara per il Corriere della Sera)

Curiosità, coraggio, talento? No, per essere cooptati, nelle imprese come nelle organizzazioni e nei posti decisionali, vince il conformismo, denuncia in un saggio il filosofo canadese Alain Deneault.

Il primo allarme era venuto dagli Stati Uniti: le prestigiose università della Ivy League, quelle da cinquantamila dollari l’ anno (retta più vitto e alloggio) sfornano «pecoroni di eccellenza», un gregge di conformisti, un’ élite – ci mancherebbe – preparata e competente ma incapace di «curiosità, ribellione, coraggio morale, stravaganza appassionata», aveva tuonato poco più di un anno fa in un polemicissimo pamphlet William Deresiewicz, professore scartato sì da Yale, ma appassionatamente informato di quel che succede lì.

Adesso a puntare il dito contro il conformismo vincente è un altro autore sempre dal continente americano. Il filosofo canadese Alain Deneault ha da poco pubblicato un saggio (non ancora tradotto in Italia) dal titolo eloquente: La Médiocratie (La Mediocrazia, edizioni Lux). Dov’ è finito il genio? Il talento e il pensiero critico e scomodo sono scomparsi? Le idee luminose ma per questo anche fastidiose non sono più apprezzate.

L’ audacia delle scoperte sgradita, schiacciata dall’«estremismo del centro», della normalità. Se Deneault ha ragione saremmo già sprofondati in un nuovo modello socio-economico fondato sul predominio sociale e culturale dei «mediocri». O, forse sarebbe meglio chiamarli, i «mediani», nel senso di persone che sono mediamente competenti, mediamente informate e mediamente esperte. In altre parole normali. Ma proprio per questo assimilate, pigre, sbiadite.

Cooptate, nelle imprese come nelle organizzazioni e nei posti decisionali, non tanto per le loro doti ma perché leali e affidabili, certamente esperte ma noiose, che fanno funzionare gli ingranaggi meglio di colleghi magari talentuosi ma fuori dagli schemi e dunque inaccettabili.

È una rivisitazione del principio di Peter (in una gerarchia ognuno arriva svolgere il lavoro per cui è incompetente) adattata al nuovo millennio quella contenuta nel Médiocratie di Deneault, un modello che porta secondo l’ autore alla corruzione e alla disintegrazione della società?

Una visione poco meno catastrofica di altra letteratura sull’ argomento, che va da Flaubert a Marinetti fino al filone fantascientifico con il racconto «Null-P» di William Tenn, dell’ inizio degli anni Cinquanta, che comincia con l’ individuazione del modello dell’ uomo medio e finisce con l’ estinzione – nell’ indifferenza dell’ Universo – dell’ umanità.

Nel caso di Deresiewicz e di Deneault il dito è puntato innanzitutto contro il sistema educativo, le Università in primis che tendono, a loro avviso, a sfornare esperti di problem solving «disposti a compromessi pur di essere invitati al tavolo d’ onore», fornitori di legittimità scientifica a chi li paga.

Un tema che non è estraneo al dibattito nell’ Università italiana e che spazia dalla critica ai sistemi rigidi di valutazione, come dimostra anche l’ ultima ricerca pubblicata da Vincenzo Nesi della Sapienza, alla discussione sullo scopo stesso degli studi universitari.
Ma neppure alla politica come si legge nel saggio di Andrea Mattozzi dell’ European University Institute di Firenze e Antonio Merlo della Rice University di Houston: hanno dimostrato che i partiti possono scientemente scegliere di non ingaggiare i politici migliori per vincere le elezioni.

Giudizi, questi sulla mediocrazia, invece un po’ troppo generici e tranchant secondo Massimiano Bucchi, professore di sociologia della scienza a Trento e autore del saggio «Per un pugno di idee, storie di innovazioni che hanno cambiato la nostra vita» (Bompiani): «È vero che oggi le istituzioni specialmente quelle scientifiche sono diventate sistemi molto grandi e complessi e devono poter funzionare a prescindere da chi c’ è in quel momento.

Ma non dobbiamo sottovalutare il fatto che siamo passati da una comunità scientifica di pochi scienziati a una professione, quella della ricerca scientifica, che riguarda ormai milioni di persone.

E dunque io sono più d’ accordo con Robert Merton quando sostiene che certe scoperte scientifiche sono inevitabili in un dato momento storico, che il genio che le interpreta è sì un acceleratore necessario ma il progresso ha uno sviluppo di sistema». Senza Albert Einstein la teoria della relatività si sarebbe scoperta lo stesso? «Probabilmente se la relatività non l’ avesse scoperta Einstein l’ avrebbe ricavata qualcun altro qualche anno dopo».