Vai al contenuto

michele ainis

«La paura e la democrazia diffida del potere»

(di Michele Ainis un pezzo che vale la pena leggere e ritagliare)

LE ISTITUZIONI sono come il corpo umano: per animarle, serve uno spirito che ci soffi dentro. Ma lo Zeitgeist, lo spiritello che governa il nostro tempo, ha il fiato grosso, l’alito cattivo. Succede, quando ti monta in gola la paura. Quando il presente ti sgomenta, il futuro ti spaventa. E quando gli altri, tutti gli altri, t’appaiono come una minaccia, un esercito invasore.

Da qui Brexit, Trump, nonché gli altri sconquassi che si profilano sul nostro orizzonte collettivo. Ma da qui inoltre una domanda, che investe i destini stessi della democrazia. Quali istituzioni nell’epoca dell’insicurezza? E c’è ancora spazio per libertà e diritti mentre prevale la paura?

Non che la democrazia sia una creatura ingenua, senza sospetti né timori. Al contrario: diffida degli uomini, e perciò diffida del potere. Sa che è inevitabile, giacché in ogni società c’è sempre stato chi governa e chi viene governato. Ma al tempo stesso sa che i governanti abuserebbero della propria autorità, se non avessero redini sul collo. L’uomo è un diavolo, non un santo. Sicché occorre una regola che imbrachi il potere, che gli tagli le unghie, che gli impedisca di farci troppo male.
La democrazia nacque così, nella Grecia di 25 secoli fa. Nacque con il sorteggio e con il voto popolare, con la rotazione delle cariche, con i limiti alla loro durata. E nel Settecento fu poi rinverdita dalla teoria di Montesquieu: «che il potere arresti il potere», altrimenti nessuno potrà mai dirsi libero. Come affermava, nel modo più solenne, l’articolo 16 della Déclaration, vergata dai rivoluzionari francesi nel 1789: «Ogni società nella quale la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri determinata, non ha Costituzione».

Insomma, la democrazia si fonda su una promessa di diritti. E i diritti, a loro volta, hanno una doppia vocazione. Sono indivisibili, nel senso che spettano a ciascun individuo, perché in caso contrario si trasformerebbero in altrettanti privilegi. Sono universali, nel senso che tendono a superare le frontiere, come mostrano le innumerevoli Carte dei diritti siglate in ambito internazionale. Da qui il tratto forse più essenziale dei sistemi democratici: l’accettazione dell’altro, l’apertura verso lo straniero. Secondo l’antico rituale greco della xenia, l’accoglienza tributata agli ospiti.

Ma adesso questa prospettiva viene revocata in dubbio, spesso rovesciata nel suo opposto. Le istituzioni modellate dai nuovi sentimenti di paura si ripiegano in se stesse, si rinchiudono in atteggiamenti puramente difensivi. Alzano muri, come in Ungheria e in Bulgaria. Erigono barriere alla circolazione delle persone e delle merci, come ha auspicato Donald Trump durante la sua campagna elettorale, rispetto all’immigrazione messicana e ai trattati commerciali con la Cina o con l’Europa. Sono nazionaliste, isolazioniste, xenofobe. Hanno in sospetto il pluralismo delle identità culturali e religiose. Odiano le procedure cui la democrazia affidava la tutela dei diritti, perché quando ti senti minacciato vuoi dal governo una reazione rapida, efficace. E vuoi un governo forte, senza troppi contrappesi. Come negli Usa: Trump ha dalla sua tutto il Congresso, non succedeva ai repubblicani dal 1928.

Tuttavia c’è un paradosso in questa nuova condizione. Perché la democrazia della paura si regge anch’essa su un’attesa di diritti, pur negando diritti agli stranieri. Dice, in sostanza: sono stati loro a toglierci il lavoro, la prosperità, la sicurezza. Dunque ricacciamoli indietro, respingiamoli al di là delle nostre frontiere, se necessario con le maniere spicce; dopo di che ci impadroniremo dei nostri vecchi diritti. Ma allora la domanda è un’altra: può esistere un’entità politica antidemocratica verso l’esterno, che si conservi democratica al suo interno? La storia non ci offre precedenti. Abbiamo conosciuto invece, e molte volte, l’esperienza inversa: per esempio nell’Atene del V secolo, dopo la sconfitta militare nella guerra del Peloponneso.

Ma dopotutto è la democrazia medesima a costituire un’eccezione, una scheggia della storia. A osservare la corsa dei millenni, i regimi teocratici e dispotici esprimono di gran lunga la regola, come la guerra rispetto al tempo di pace. Forse non si tratta che di questo, forse la regola sta riconquistando il suo primato sull’eccezione.

(La Repubblica, 11 novembre 2016)

Essere affidabili

E’ quello che manca, oggi. E si finisce per parlare di antipolitica quando si tratta semplicemente di un crollo di fiducia. E in un Paese sfiduciato ancora ci si ostina a pensare che un rimpasto (di manovre, di uomini o di coalizioni) possa bastare quando l’unico ingrediente è il cambiamento. Quello vero. Michele Ainis lo scrive per il Corriere: almeno oggi l’abbiamo fatta franca. Domani, chi lo sa: la nostra via è piena di trappole, ci vuol poco a mettere un piede in fallo. Ma sono trappole di Stato, inganni tessuti da Sua Maestà la Legge. Come l’idea di revocare il riscatto della laurea e del servizio di leva ai fini pensionistici, con buona pace dei 665 mila italiani che ci avevano creduto, sborsando anche fior di quattrini. O come la trovata speculare del Pd, che ha proposto una tassa aggiuntiva del 15% per chi aveva profittato dello scudo fiscale del 2009, confidando nella garanzia di pagare non più del 5% sui capitali rientrati dall’estero. Insomma di volta in volta cambiano le vittime, non l’abitudine di stracciare i patti stipulati con l’una o l’altra categoria di cittadini. Eppure quest’abitudine inocula un veleno nella nostra convivenza, perché ci insegna a diffidare delle istituzioni, e a disprezzare in ultimo tutto ciò che è pubblico, di tutti.