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migrazione

Fratoianni a TPI: “Governissimo con Berlusconi? Non con noi. Ci sono interessi economici dietro”

Il rifinanziamento della Guardia Costiera libica ha spaccato il governo. Sono in molti a lamentare un cambio di rotta sull’immigrazione. Ne abbiamo parlato con il deputato Nicola Fratoianni di Leu, per TPI.it.

Fratoianni, ancora una volta l’Italia finanzia quelli che sono considerati quasi universalmente dei veri e propri aguzzini. Non le sembra che la gestione di questo Governo, in tema di immigrazione, non si discosti molto dalla gestione con Salvini al ministero dell’interno?
Per la verità non è cambiato molto nemmeno con quello che è successo con i governi precedenti al primo governo Conte: sono stati loro ad avviare la collaborazione con le autorità libiche. Piuttosto la votazione di ieri, con i voti contrari di 14 senatori e 23 parlamentari, indica che i numeri di chi si oppone a questa politica in campo migratorio sono decisamente più alti. Il rifinanziamento è passato con un voto trasversale che ha coinvolto anche i partiti all’opposizione.

E intanto rimangono lì anche i decreti sicurezza…
La discussione sui decreti sicurezza si sta svolgendo con un altro tratto e alla luce del lavoro che stiamo facendo mi sento di dare un giudizio prudentemente positivo perché da quel che vedo credo sia possibile ottenere un risultato assai significativo rispetto all’obiettivo che ci eravamo dati, ossia cancellare gli aspetti più regressivi che quei decreti avevano introdotto in materia di immigrazione.

Cosa ha pensato quando ha letto la notizia di quel cadavere rimasto per 15 giorni in acqua, avvistato ben 4 volte e con nessuna autorità che si è mossa?
Ho pensato che che il comportamento dell’Europa di fronte alla vicenda migratoria che ormai da troppi anni investe il Mediterraneo centrale resta un comportamento ipocrita e troppo spesso indifferente. Io sono stato in quel mare più di una volta, su diverse navi, e so che significa stare su una barca, in condizioni precarie, quando si ha l’impressione che non ci sia nessuna possibilità di arrivare sull’altra sponda.

Possiamo però dire che gli elettori che hanno a cuore la solidarietà possono essere ben poco soddisfatti di questo governo?
Certo non possono essere soddisfatti fino in fondo perché io credo che affrontare in modo radicalmente diverso le politiche migratorie sia la strada migliore per sconfiggere la destra peggiore di questo Paese. Serve un’alternativa radicale molto maggiore di oggi. Nello stesso tempo non sono tra quelli che pensa che le politiche migratorie siano le stesse del governo precedente: non lo sono nelle scelte concrete, nel rapporto con le ONG e nella gestione di porti. E spero di poter dire ben presto, forse a settembre, che non lo sarà più neanche sul terreno della legislazione.

Prodi e De Benedetti invocano addirittura Berlusconi. Che ne pensa?
Il rientro di Berlusconi è una vecchia tentazione che torna in alcuni momenti della politica italiana, la tentazione della trasversalità dell’unità nazionale intesa però come trasversalità di interessi. Penso che sarebbe un errore strategico e per quanto mi riguarda incompatibile con la nostra presenza.

Leggi anche: Rifinanziamento Guardia costiera libica, 23 dissidenti Pd e LeU votano contro il governo; 2. [Retroscena] – Nel Pd è saltato l’asse Zingaretti-Franceschini: ora il governo rischia davvero (di Luca Telese)

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Tante promesse per nulla

Niente, gli è andata male anche questa: Salvini ci teneva così tanto a fare il martire per il suo processo che avrebbe dovuto cominciare il prossimo 4 luglio, quello che lo vede imputato per sequestro di persona per il cosiddetto “caso Gregoretti” quando 131 migranti rimasero per quattro giorni su una nave militare italiana prima dello sbarco ad Augusta il 31 luglio del 2019. Ci teneva moltissimo Salvini perché avrebbe potuto mettere in scena la trama del povero perseguitato che viene messo all’angolo dalla magistratura cercando un legame (che non c’è) con la vicenda delle orrende intercettazioni del magistrato Palamara. E invece niente. «C’è mezza Italia ferma però mi è arrivata una convocazione a Catania per il 4 luglio», aveva dichiarato il leader leghista e invece il presidente dell’ufficio del giudice dell’udienza preliminare Nunzio Sarpietro è stato costretto al rinvio: «I nostri ruoli sono stati travolti dallo stop per l’emergenza coronavirus, ci sono migliaia di processi rinviati che hanno precedenza e ho dovuto spostare l’inizio del processo che vede imputato il senatore Salvini ad ottobre», spiega. E anche sui dubbi di un processo ingiusto Sarpietro tranquillizza l’ex ministro: «Stia tranquillo il senatore Salvini, avrà un processo equo, giusto e imparziale come tutti i cittadini. Né io né nessun giudice che si è occupato di questo fascicolo abbiamo nulla a che spartire con Palamara. E sono d’accordo con lui: quelle intercettazioni tra magistrati sono una vergogna».

Tutto fermo, quindi e niente scontro giudiziario come quelli che piacciono così tanto al centrodestra eppure l’ombra di Salvini, al di là delle vicende processuali, continua a pesare su questo governo e a essere un macigno per questo centro sinistra che si ritrova alleato con gli stessi alleati che furono di Salvini, con lo stesso presidente del Consiglio che celebrò proprio i decreti sicurezza e con un’aria stagnante per quello che riguarda il futuro prossimo sul tema. “Discontinuità”, avevano promesso proprio all’inizio del Conte bis. In molti si ricordano che le due leggi estremamente restrittive sull’immigrazione furono ampiamente contestate da buona parte del Partito democratico, in molti si ricordano le promesse che furono fatte e poi ripetute e in molti si ricordano che furono proprio i maggiorenti democratici a dirci di stare tranquilli che sarebbe cambiato tutto e che si sarebbe cancellato presto quell’abominio. Niente di niente. I decreti sicurezza sono lì e dopo otto mesi non sono stati cambiati. Non sono nemmeno state apportate le modifiche che addirittura il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, aveva chiesto in una sua comunicazione ufficiale. E se è vero che il numero di persone che cercano di attraversare il Mediterraneo è diminuito in questi primi mesi dell’anno è altresì vero che dopo la pandemia sicuramente ci si ritroverà di fronte allo stesso identico problema, con le stesse identiche strumentalizzazioni di Salvini (e della ringalluzzita Meloni) e ancora una volta si assisterà al cortocircuito del governo che tiene insieme quelli che andavano a visitare le barche tenute alla deriva di Salvini e quegli stessi che con Salvini definivano «taxi del mare» le navi delle Ong. Sono diverse le proposte di modifica depositate nei mesi: la riduzione delle multe che i decreti prevedono per le navi Ong impegnate nei salvataggi in mare (su cui anche Mattarella aveva avuto da ridire), il ripristino di alcune forme di protezione internazionale per rendere più facile la regolarizzazione delle persone sbarcate nonché maggiori investimenti nel sistema di accoglienza diffusa, quella che ha sempre funzionato meglio coinvolgendo piccoli gruppi in piccole strutture sparse sul territorio italiano. Niente di niente. Rimane solo qualche parola delle poche interviste rilasciate dalla ministra dell’Interno Lamorgese, l’ultima all’inizio di questa settimana, che ha più volte ripetuto di non essere favorevole allo stravolgimento delle leggi. A posto così. Figuratevi, tra l’altro, se in un contesto del genere si possa anche solo lontanamente parlare di ius soli o di ius culturae che erano altri capisaldi di una certa sinistra progressista che urlava ad alto volume contro Salvini e che ora si è inabissata in un penoso silenzio.

Ma è rimasto tutto fermo? No, no, è andata addirittura peggio di così: all’inizio di aprile il governo ha stabilito che i porti italiani non possono più essere definiti “porti sicuri” per le persone soccorse in mare e di nazionalità diversa da quella italiana, di fatto impedendo l’accesso delle navi delle Ong, riuscendo nel capolavoro di fare ciò che nemmeno Salvini era riuscito a fare con tutte le carte a posto. Nonostante la sanatoria approvata dal Consiglio dei ministri per rimpinzare di braccia i campi dell’ortofrutticolo e per garantire l’ingrasso della grande distribuzione il governo non ha nemmeno trovato il tempo di rivedere la legge Bossi-Fini del 2002 che di fatto rende impossibile trovare lavoro regolare per qualsiasi straniero extra comunitario. A metà dello scorso aprile dodici persone sono morte per sete e per annegamento (mentre altre cinquantuno sono state riportate nei lager libici) e anche l’indignazione per i morti sembra ormai essersi rarefatta. Il giornalista Francesco Cundari il 18 aprile ha colto perfettamente il punto: «Il governo ha abbandonato anche quel minimo di ipocrisia che ancora consentiva di accreditare una qualche differenza, almeno di principio, tra le parole d’ordine di Matteo Salvini e la linea della nuova maggioranza in tema di immigrazione, sicurezza e diritti umani», ha scritto per Linkiesta. Ed è proprio così: ormai la sinistra non finge nemmeno più di essere sinistra e spera solo che non si sollevi troppa polemica. Tutto si trascina in un desolante silenzio spezzato solo dalle inascoltate parole di qualche associazione umanitaria e dalla interrogazione parlamentare di Rossella Muroni sui respingimenti illegali, di cui leggerete nell’inchiesta di Leonardo Filippi che apre questo numero. Mentre in Parlamento ci si inginocchia in memoria di George Floyd qui ci si dimentica di quelli che senza ginocchio si riempiono i polmoni d’acqua per i criminali accordi che l’Italia continua a sostenere con la Libia e ci si dimentica di quelli che muoiono nelle baracche di qualche borgo di fortuna per schiavi.

Poi, in tutto questo, vedrete che arriverà il tempo in cui Salvini tornerà a fare il Salvini e tutti si mostreranno stupiti, ci diranno che vogliono fare tutto e che vogliono farlo presto e intanto sarà troppo tardi, intanto la gente muore, intanto gli elettori si allontanano e si ricomincia di nuovo daccapo.

L’editoriale è tratto da Left in edicola dal 19 giugno

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Cecilia Strada a TPI: “Vendere armi all’Egitto vuol dire sostenere torture e uccisioni come quella di Regeni”

Cecilia Strada a TPI: “Vendere armi all’Egitto vuol dire sostenere torture e uccisioni come quella di Regeni”

Cecilia Strada è una filantropa e saggista italiana, ex presidente di Emergency e figlia dei fondatori Teresa Sarti Strada e Gino Strada. La guerra la conosce perché l’ha vissuta da sempre in prima persona. L’abbiamo intervistata per TPI.
Cecilia Strada, alla fine l’Italia ha deciso di vendere armi all’Egitto. Come la vede?
Molto molto molto molto male. Sposo in toto la richiesta di Amnesty e di Rete Disarmo che chiedono almeno che se ne parli in parlamento. È una cosa contraria agli interessi dei cittadini italiani, qui si tratta di essere furbi non semplicemente disarmisti. C’è la legge 185/90 che dice che non si vendono armi a chi ha interessi contrari all’Italia e questo è il caso dell’Egitto, poiché in Libia non sostengono la stessa parte in causa: è una cosa poco furba oltre che poco etica. Vendere armi significa sostenere quello che l’Egitto sta facendo al suo interno (torture, ragazzi scomparsi, ammazzati, studenti come Regeni e Zaky). La legge dice che non potresti vendergli armi salvo diversa delibera del Consiglio dei ministri sentite le Camere, quantomeno che se ne parli in parlamento, è la legge, non è un sogno da pacifista. Gli interessi dell’Italia sono maggiori degli interessi delle fabbriche d’armi.

Di Maio ha definito l’Egitto un “partner imprescindibile”…
Partner imprescindibile su cosa? E poi bisogna decidere quali sono gli standard, chiediamo ai nostri partner il rispetto dei diritti umani? C’è un ragazzo italiano morto, le autorità hanno ostacolato le indagini, ridurre tutto al fattore economico è miope, non si fa l’interesse del proprio Paese.
Il pacifismo è sparito dall’agenda politica?
Il pacifismo non occupa spazio se non quando viene usato per dare del sognatore a qualcun altro. Il pacifismo è la non violenza, è riflettere sul modo in cui stiamo insieme, cercare il modo di evitare i conflitti, immaginare delle società alternative. Questo non c’è mai stato ed è un peccato. Sono comunque soldi, si dice, servono per l’economia italiana, ma se si investe nel civile il ritorno è maggiore rispetto al militare: se l’obbiettivo è creare posti di lavoro allora si investano fondi nel civile, come nelle energie alternative, l’investimento dà più posti di lavoro dell’industria bellica.

Intanto rimane in piedi la questione libica e continuano gli sbarchi…
Il Covid faceva paura e non c’era bisogno di inventarsi il nemico, Ong o migrante. Però gli sbarchi sono continuati, in numeri piccoli – poco più di 3mila persone da gennaio a oggi – ma ci sono stati, come anche le segnalazioni di naufragi difficilissimi da verificare perché non ci sono navi in mare che possano testimoniare, ci sono diversi casi di omissione di soccorso e almeno una strage a Pasquetta di una nave lasciata alla deriva con 12 persone morte dopo 5 giorni che chiedevano aiuto. Altri casi di cui non si saprà niente. Ora Mediterranea è tornata in mare, Sea Watch è ripartita poche ore prima con imponenti misure di sicurezza.
L’immigrazione tornerà a essere tema di scontro politico?
Dipende da quanto i politici sentiranno il bisogno di strumentalizzare facendo politica sulla pelle della gente. Io sto ancora aspettando la discontinuità promessa da questo governo, io ero in mezzo al mare sulla Mare Jonio di Mediterranea quando si insediò questo governo. I decreti sicurezza sono ancora lì. Non permetteremmo mai che dei bambini bianchi rimanessero su una nave dopo essere stati torturati, violentati e tenuti prigionieri. Discontinuità vuol dire stracciare gli accordi con la Libia: c’è una gravissima violazione dei diritti fondamentali dell’uomo, delle leggi, della Costituzione. I lager andrebbero evacuati e il sistema smantellato e bisognerebbe aprire canali d’accesso sicuri e legali sconfiggere il traffico di uomini. Tra l’altro non va bene che il soccorso in mare non venga fatto dagli Stati ma dalle Ong, non è normale.

Però in Parlamento alcuni si sono inginocchiati
Su questo ci penso da qualche giorno. I nostri parlamentari sanno chi è George Floyd, benissimo. Ma cosa sanno di Soumayla Sacko? Cosa sanno delle vittime del razzismo qui? Le vittime del nostro razzismo sistemico qualcuno le conosce? Possiamo interessarci a questo? Se sentiamo questo problema sollevato negli Usa allora dobbiamo guardarci intorno: i neri sono quelli nel Mediterraneo e quelli schiavi delle mafie nei campi a disposizione della grande distribuzione. Altrimenti inginocchiarsi servirà a poco.

Leggi anche: 1. L’Egitto acquista 2 navi militari italiane e tappa la bocca all’Italia sul caso Regeni /2. Regeni, Di Maio risponde alle accuse: “La vendita delle armi all’Egitto non è conclusa” /3. Patrick Zaky, gli affari con l’Egitto possono diventare un’arma per l’Italia

4. “Il problema degli Usa sono 400 anni di schiavitù, ma qui in Italia non siamo messi meglio”: parla Igiaba Scego /5. Torino, aggredita a 15 anni sul bus perché nera: “Il razzismo c’è anche in Italia”

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“Il problema degli Usa sono 400 anni di schiavitù, ma qui in Italia non siamo messi meglio”: parla Igiaba Scego

Igiaba Scego è una scrittrice di origini somale che vive a Roma. Da sempre si occupa di stranieri, di integrazione e di diritti. Il suo ultimo libro è “La linea del colore” edito da Bompiani che ha come protagonista una donna afroamericana dell’ottocento che scopre l’Italia. L’abbiamo intervistata per TPI.

Negli USA è in atto una vera e propria rivoluzione culturale. Lei si occupa da anni di questi temi, come vede la narrazione di ciò che accade?
Due tipi di narrazione. Quella dei media mainstream che non hanno capito niente di quello che sta succedendo: stanno osservando questi movimenti con delle lenti molto vecchie e anche sbagliate. Quando mi tolgo gli occhiali io che sono miope vedo tutto sfocato e molti media mi hanno dato questa stessa sensazione, tranne alcune eccezioni come la giornalista de Il Manifesto Marina Catucci, veramente puntuale, Arianna Farinelli, Martino Mazzonis. Questo mi ha meravigliato perché l’immaginario statunitense è molto popolare, si pensa “almeno li conosciamo” e invece no. Noto la stessa nebulosità che scorgo quando si parla di Africa. Poi per fortuna c’è quella che arriva da giornali e esperti in lingua originale. E devo dire che è quello che mi ha aiutato ad orientarmi. Per esempio non mi perdo mai i commenti della professoressa Ruth Ben Ghiat che da anni ci spiega i meccanismi dello stato americano.

Quale distorsione nota più delle altre?
Questo parlare di saccheggi piuttosto che parlare del cuore del movimento. Molti giornali non hanno raccontato ai lettori cosa c’era prima, quei 400 anni di oppressione. Mancano ponti tra qui e lì. Io sono scrittrice e la stessa cosa la vedo nell’editoria: l’editoria italiana ha pubblicato negli ultimi anni moltissimi afroamericani ma non c’è stato quel passaggio necessario da editoria ai giornali e media in genere che aprisse un sano dibattito su questi libri e permettesse una loro diffusione anche scolastica.

Quindi si è perso ciò che è avvenuto negli anni precedenti, non ci sono stati ambasciatori e ponti. Si arriva così a non capire perché questa lotta è così lunga, non si riflette sulla genesi della schiavitù, questo è un grosso gap scolastico che non ha permesso a molti italiani di capire fenomeni come schiavitù, segregazioni negli USA e perfino lotte per i diritti civili. Pochi hanno letto Toni Morrison, anche tra i professionisti dell’informazione. E quindi mi ha colpito questo indugiare su aspetti marginali senza andare al cuore del problema. Manca una preparazione all’America, io ho visto “molta ignoranza”. Molto non sapere. Quello che si conosce è solo superficiale.

Negli USA il dibattito si è aperto non solo sulla violenza che ha portato per ultimo alla morte di Floyd, ma anche sulla profilazione razziale delle Forze dell’Ordine. C’è un razzismo insito anche nella gestione italiana secondo lei?
Sulla polizia non saprei dirti. Posso dirti che loro, negli USA, hanno questa storia di schiavitù ma da loro anche chi è contro i neri sa cosa è successo mentre in Italia quello che c’è dietro di noi, come il colonialismo, non è molto conosciuto, c’è una rimozione totale e non ci fa capire che quegli stereotipi continuano a agire sui corpi del presente. A me ha sempre colpito come per esempio le leggi italiane sull’immigrazione si basino quasi sempre su un modello astratto, su questo cosidetto altro che non è un potenziale cittadino ma un potenziale suddito coloniale, il modello è quello del sudditto somalo, eritreo o libico dei tempi del colonialismo italiano. si continua cos’ a perpetuare l’idea dello straniero nella legislazione come suddito, una persona senza diritti.

Non è un caso che la Bossi-Fini e i Decreti Sicurezza più la mancata riforma sulla cittadinanza siano delle costanti nella politica italiana, perché vale lo ius sanguinis e non lo ius soli o lo ius culturae, un Paese trincerato nel suo sangue che poi se lo andiamo a “analizzare” storicamente questo famigerato sangue risulta essere è quello più meticcio del mondo. Questo mi sconvolge, questa storia passata mai discussa che si ripresenta in forma di legge e ci incasina il presente, il modello è ancora quello coloniale sarebbe interessantissimo che i giuristi ci lavorassero su questo, su come decolonizzare le leggi perché sono troppo pieni di passato.

Vede dei casi di razzismo endemici in Italia, anche da parte di quelli che non sono consapevolmente razzisti?
Il razzismo in Italia non è solo anti nero ma è anche anti meridionale. Ad esempio due ore fa stavo andando al supermercato, dove due persone stavano litigando e un signore ha detto a una signora “sporca calabrese”. Qui c’è una questione meridionale che è la mamma di tutti i razzismi italiani, quello che è stato fatto al Sud è lo stesso trattamento riservato alle colonie. Quando avevo 25 anni avevo fatto un colloquio di lavoro vestita come sono sempre vestita e la persona che avevo davanti mi ha detto “lei è musulmana, si vede” io gli ho detto “deve farmi colloquio di lavoro” e lui “ma voi volete pause di preghiera e ramadan”: sono uscita e ho pianto, è un razzismo altrettanto umiliante. Ho smesso perché ai tempi mi vedevano e mi dicevano sempre no. Lo vedi dallo sguardo e poi c’è stato tanto razzismo biologico, dalle elementari mi chiamavano sporca negra e mi hanno buttato un barattolo di coleotteri in testa “perché sono neri come te”. Oppure odiavo negli anni ’90, ero ancora adolescente, quando si fermavano le macchine mentre stavo alla fermata ad aspettare il bus e ti facevano vedere i soldi chiedendo sesso orale, perché nera significava prostituta.

Io ho imparato a schivarli anche. Ho imparato a reagire. Mia madre dice che il razzismo non lo combatti urlando, ma lo combatti con la riflessione e la conoscenza anche quando sei nel mezzo del disastro, lei mi ha sempre detto di uscirne con una frase arguta, è l’unico modo. Mia madre, James Baldwin e Malcom X sono stati i miei maestri nell’usare la riflessione, le parole, per questo scrivo. Volevo capire come mai mi succedevano una serie di cose e volevo capire qual era la radice, sempre storica. In tutto questo ho trovato molti alleati, penso alla mia professoressa di italiano alle superiori, ai professori universitari che mi hanno dato strumenti che mi hanno cambiato la prospettiva. Sandro Portelli mi ha insegnato molte cose della vita, con l’Italia che ha tutte l sue complicazioni. Ho applicato la strumentazione che loro hanno applicato alla loro lotta e alla loro riflessione teorica.

Come le sembra il dibattito politico italiano sul tema?
Qui non c’è dibattito. Qui il dibattito è finito con il tradimento sulla legge sulla cittadinanza. Poi si è riesumato un discorso sulle regolarizzazioni molto mercantile. Io ho questa sensazione di tante lotte fatte anche collettive: afrodiscendenti, albanesi, arabi, sudamericani, i loro figli nati qui italiani senza diritti e poi anche moltissimi italiani bianchi… Ecco tutti noi ci siamo ritrovati dal 2005 fino al governo Renzi a lottare in piazza, cambiavano le piazze, c’erano tanti bambini e tecnicamente con le scuole abbiamo lavorato moltissimo (penso a due scuole di Roma in particolare la Pisacane e la Di Donato i cui professori si sono spesi tantissimo per far avere diritti ai loro studenti) , però poi questa lotta è stata tradita da tutto l’arco costituzionale: la destra ha fatto ostruzionismo ma gli altri l’hanno reso possibile ed è una cicatrice che mi fa molto male.

Poi c’è stata la raccolta firme dei Radicali e quella era una buona iniziativa ma poi a causa degli eventi caduta nel vuoto e adesso il dibattito è stato sulle regolarizzazioni perché servivano braccia per l’ortofrutta e basta. Queste persone cadono in irregolarità per un meccanismo della Bossi-Fini, sono ricattabili in situazione di pandemia, dovremmo avere più persone regolari possibili ma così è stato un mercato degli schiavi. Io capisco gli sforzi di chi ha chiesto la regolarizzazione ma il risultato è stato misero. Servirebbe più coraggio: l’Italia non può pensare che sia un tema possibile da scacciare in eterno, il Paese è già cambiato, io alla manifestazione per George Floyd a Roma ero con i miei 46 anni vecchia in confronto a chi è sceso in piazza. Tu vedi che hai seconde e terze generazioni, più di 50 anni di popolazione transculturale che ha varie origini. Ma ancora tutto questo non si trasforma in quotidianità. E come se ci fossero enormi barriere. Così non vedi maestri, autisti dell’autobus, professori con altra origine: alcuni luoghi del lavoro non sono al passo con i tempi. Anche nell’editoria.

Lei è fiduciosa che la lezione che arriva dagli USA possa avere un impatto importante anche qui?
Secondo me quella americana è una grande rivoluzione culturale perché gli afrodiscendenti sono legati tra loro, è una rete, per noi sono un modello e quello che sta succedendo negli Usa è clamoroso, è una rivoluzione culturale, non è solo rabbia per Floyd ma è un momento che è stato preparato negli ultimi 20 anni. Da loro la cultura è sempre stata forte, nella musica nella letteratura, i premi Pulitzer quest’anno molti erano neri e penso al disco di Beyoncè di alcuni anni fa tutto sull’identità nera. Questo forse spingerà pure noi qui ad avere una riflessione più ampia e profonda, probabilmente ci spingerà a produrre più libri, più musica, più film, più lotte sociali e non solo afrodiscendenti, perché l’Italia ha una migrazione a mosaico, complessa, fatta di tante diversità che vanno dall’Est Europa al Sudamerica.

Già vedo dei talenti per esempio del giornalismo come Angelo Boccato e Adil Mauro che non parlano solo di immigrazione o della loro identità, ma usano il loro sguardo per riflettere sui nodi della società. Adil e Angelo mi fanno ben sperare per il futuro. Ma ecco tutto deve partire da una riflessione anche storica che attraversa il dolore che abbiamo provato, In Italia nel 1979 un uomo somalo, Ahmed Ali Giama, in piazza della Pace a Roma è stato bruciato viva e Giacomo Valent nel 1985 è stato ucciso con 63 coltellate, era il fratello della prima eurodeputata nera Dacia Valent, ho scritto per Feltrinelli su questo (“Politica della violenza”, Feltrinelli Editore). In Brasile c’è stata Marielle Franco e ognuno sta producendo cultura e rivendicazioni partendo dalle proprie ferite, dai propri martiri e chiaramente questo momento rimarrà a lungo e potrà provocare cambiamenti perché i cambiamenti sono sempre prima culturali e poi sociali.

Leggi anche: 1. Quanti contagi possono causare le proteste in Usa? Un virologo ha provato a calcolarlo / 2. Si sposano in mezzo alla protesta per George Floyd a Philadelphia: “È stato ancora più memorabile” /3.  George Floyd, Minneapolis smantella il dipartimento di polizia: “Vogliamo un nuovo modello di sicurezza” /4. Banksy e l’omaggio a George Floyd: “Il razzismo è un problema dei bianchi”

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Fake news? Il servizio sull’immigrazione dalla Tunisia di Rai 2, ad esempio, è tutta una bufala

Vanessia Tomassini per Notizie Geopolitiche, puntualissima e precisa:

 

Nel momento in cui in Italia si continua a parlare di Fakenews, sul fronte transnazionale dopo quelle sulla Libia arrivano le informazioni farlocche dalla Tunisia. D’altro canto in una guerra di record e di ascolti, giornalisti e produttori sono pronti a tutto. Lo definisce “low-cost journalism”, ossia giornalismo a basso prezzo, Souhail Bayoudh, il tunisino scelto dalla Rai come “fixer”, accompagnatore della troupe di Nemo – Nessuno Escluso per la realizzazione del servizio “Il traffico di migranti e la rotta tunisina”. Il reportage è andato in onda sul canale della Tv di stato lo scorso 23 novembre. “Volevano filmare a tutti i costi il percorso dei migranti che partono dalla Tunisia per arrivare in Europa. Sono stati qui solo tre giorni e pretendevano di realizzare un’esclusiva. Erano pronti a mettere addosso ad un ragazzo una telecamera nascosta per registrare tutti i passaggi: dal contatto con gli intermediari che assicurano il viaggio, il tragitto, fino all’arrivo in Italia; promettendo tutto l’aiuto necessario una volta giunto sulle coste italiane per proseguire il viaggio in Europa. Senza interessarsi tuttavia delle sorti di questo malcapitato che sarebbe andato incontro a morte certa”. Il nostro amico tunisino, ingaggiato dalla Rai per accompagnare i giornalisti Matteo Keffer, David Cherchini e Valentina Petrine, come si legge dall’autorizzazione rilasciata dal governo Tunisino che Notizie Geopoliticheha potuto visionare. “Non avrei mai permesso di mandare a morire un giovane ragazzo per un servizio televisivo, così ho chiamato il fotografo della mia associazione culturale a fingersi come attore per interpretare il ruolo di Sami. Il suo vero nome è Salem e la troupe lo aveva capito benissimo poiché in loro presenza tutti lo chiamavano col suo vero nome, ma hanno continuato a filmare, senza nulla fosse” aggiunge Souhail, proseguendo: “non so come funzioni in Italia, ma ogni giornalista teoricamente dovrebbe controllare le fonti, chiedere i documenti, accertarsi sull’identità di chi ha davanti. Ecco, tutto questo i suoi colleghi non lo hanno fatto e hanno mandato in onda un servizio falso. Nessuno sa da dove partono le imbarcazioni dal nostro Paese, è difficilissimo trovare un intermediario, per fare un servizio del genere è necessario entrare nella giusta rete, prendere i contatti giusti. Non è possibile farlo in tre giorni” . Noi crediamo che i colleghi abbiano agito in buona fede e forse si è trattata soltanto di leggerezza, visto che l’accompagnatore ci dice che loro non erano al corrente che Sal, nel video Sami, era un attore. Tuttavia la domanda che Souhail ci pone è: “se questo servizio era una bufala, cosa non vi fa pensare che lo siano anche i precedenti e i futuri? ” . Il dubbio, in questi casi, corrode più della certezza, ovviamente restiamo a disposizione di chiunque volesse replicare.

Quando l’italofobia era l’isteria collettiva

Fa bene ricordare, allenare la memoria. Per questo torna utile l’articolo di Giovanna Nuvoletti per La Rivista Intelligente:

Per decenni gli americani bianchi, i discendenti dei coloni, hanno odiato gli italiani in maniera feroce e sistematica. Dalla fine del XIX secolo agli anni ’30 del XX siamo stati probabilmente i più detestati e temuti.
Sbarcati a milioni, alla lettera, ci chiudevamo nelle nostre comunità, spesso ostaggi di connazionali che ci vendevano come schiavi di fatto. Non imparavamo la lingua, non mandavamo i bambini a scuola (ma a lavorare o a mendicare), rifiutavamo le nuove usanze e coltivavamo le nostre incomprensibili tradizioni.
Intorno al 1920 a New York arrivavano così tante navi da intasare il porto. Intercettate al largo, le imbarcazioni provenienti dall’Italia venivano dirottate verso Boston.
Eravamo classificati come “negroidi”: troppo vicini all’Africa, si diceva, per non avere “sangue negro” nelle vene. Prova ne fosse il colorito olivastro che TUTTI avremmo avuto.
Venivamo considerati un pericolo subdolo: a differenza di neri, asiatici e ispanici, gli italiani dalla carnagione più chiara potevano essere scambiati per bianchi, a un esame superficiale, quindi per noi era più facile “contaminare la razza bianca”.
Un italiano che intrattenesse una relazione con una donna bianca rischiava il linciaggio, come i neri.
Il Ku Klux Klan ci equiparava in tutto e per tutto ai neri: da impiccare al minimo pretesto, così prima o poi avremmo capito di restare a casa nostra.
Negli stati del sud ancora oggi perdura la convinzione che siamo non-bianchi, al pari degli ispanici.
[Nel 1973 Nixon, poco prima di essere spazzato via dallo scandalo Watergate, disse che eravamo diversi da loro, ci vestivamo in modo strano, puzzavamo di aglio ed era impossibile trovarne uno onesto.]

Immigrazione senza controllo
Immigrazione senza controllo

Anche gli altri immigrati ci odiavano. Accettavamo salari e condizioni di lavoro che ormai irlandesi, olandesi e francesi rifiutavano. Avevamo sostituito i neri nelle piantagioni, mandavamo all’aria le prime contrattazioni sindacali.
I meridionali soprattutto erano considerati “inadatti a imparare o mantenere qualsiasi lavoro, inclini per natura alla violenza”, incompatibili con lo stile di vita americano. Per un certo periodo siciliano o napoletano è stato sinonimo di “feroce bandito”.
Peccato che, per i loro esperti, il meridione cominciasse a Padova. Sotto Padova, tutti mafiosi; sopra Padova, invece, biologicamente stupidi, mentalmente inferiori al resto d’Europa.
Contro nessun altro si è scatenata una simile campagna di odio. Si arrivò a una vera e propria italofobia. Il principale veicolo di diffusione fu la stampa, sia quella ufficiale che quella clandestina, creata apposta per perseguitarci. Contro nessun altro è stata adoperata una tale mole di articoli denigratori, vignette insultanti, perfino canzoncine.
Ci rubano il lavoro, stuprano le nostre donne, non si vogliono integrare, corrompono il nostro spirito, si diceva. Chiudiamo le frontiere, bombardiamo le navi al largo, lasciamoli marcire nei porti, non facciamogli toccare terra, scrivevano i giornali.
Professano una strana religione, si insisteva, che niente ha a che fare con i nostri valori. Un misto di paganesimo e superstizione, impossibile da sradicare.
Eravamo raffigurati come orrendi sorci che nuotavano verso la riva con il coltello tra i denti. Venivano mostrati gli “argomenti” migliori per trattare con noi: gabbie, randelli, corda e sapone.
Giravano saporite barzellette: sapete quando un italiano vede il sapone per la prima volta? Quando lo impiccano

Tampa 1910 - Costanzo Ficarotta e Angelo Albano linciati
Tampa 1910 – Costanzo Ficarotta e Angelo Albano linciati

Ammazzare un italiano era di fatto tollerato. Bastava dire: “Mi ha aggredito lui” e la legittima difesa era scontata. Nemmeno si arrivava al processo. Caso chiuso.
Se vittima e assassino erano entrambi italiani, il disinteresse era quasi totale: finché ci ammazzavamo tra di noi andava bene.

(continua qui)

Se aprissimo tutte le frontiere del mondo?

Un articolo che sembrerebbe una provocazione ma non lo è. Da The Economist.

 

Per terra c’è un biglietto da cento dollari. Un economista cammina e non se ne cura. Un amico gli chiede: “Non hai visto i soldi?”. L’economista risponde: “Mi è sembrato di aver visto qualcosa, ma ho pensato di averlo immaginato. Se ci fosse stato un biglietto da cento dollari per terra qualcuno lo avrebbe raccolto”.

Se una cosa sembra troppo bella per essere vera, probabilmente non è vera. A volte, però, lo è. Michael Clemens, economista del Centre for global development, un centro studi sulla povertà di Washington, è convinto che ci siano “banconote da mille miliardi di dollari per terra” e che una politica apparentemente molto semplice potrebbe raddoppiare la ricchezza del mondo: aprire i confini delle nazioni.

I lavoratori sono molto più produttivi quando si spostano da un paese povero a uno ricco. Improvvisamente possono entrare in un mercato del lavoro con un grande capitale, aziende efficienti e un sistema legale non arbitrario. Le persone abituate a guadagnarsi da vivere zappando la terra cominciano a guidare i trattori. Quelli che fabbricavano mattoni di fango a mano cominciano a lavorare con gru e scavatrici. Quelli che sanno tagliare i capelli trovano clienti più ricchi che pagano meglio.

Esaminare l’ipotesi dell’apertura
“La manodopera è la risorsa più preziosa del mondo, eppure a causa delle regole sull’immigrazione gran parte di questa risorsa viene sprecata”, spiegano Bryan Caplan e Vipul Naik in A radical case for open borders (Una tesi radicale in favore dei confini aperti). I lavoratori messicani che emigrano negli Stati Uniti guadagnano in media il 150 per cento in più. I nigeriani non qualificati guadagnano il 1.000 per cento in più. “Costringere i nigeriani a restare in Nigeria è una scelta economicamente insensata come lo sarebbe costringere gli agricoltori a coltivare l’Antartide”, scrivono Caplan e Naik. Anche i benefici non economici sono evidenti. Negli Stati Uniti un nigeriano non può essere schiavizzato dagli islamisti di Boko haram.

I potenziali vantaggi dei confini aperti fanno impallidire quelli di un mercato libero e naturalmente anche quelli degli aiuti internazionali. Eppure l’idea viene generalmente considerata irrealizzabile. Nella maggior parte dei paesi del mondo la percentuale delle persone favorevoli non supera il 10 per cento. Nell’epoca della Brexit e di Donald Trump, proporla sarebbe un suicidio politico. Ciononostante vale la pena chiedersi cosa potrebbe accadere se i confini venissero effettivamente aperti.

Per chiarire, “confini aperti” significa che le persone sarebbero libere di spostarsi per cercare lavoro. Non significa “abolire i confini” o “abolire lo stato-nazione”. Al contrario, il motivo per cui la migrazione è così allettante è proprio che alcuni paesi sono gestiti nettamente meglio di altri.

Per abbandonare il proprio paese servono coraggio e resistenza

I lavoratori dei paesi ricchi guadagnano più di quelli dei paesi poveri perché sono più istruiti, ma soprattutto perché vivono all’interno di società che nel corso degli anni hanno sviluppato istituzioni che favoriscono la prosperità e la pace. È difficile replicare le istituzioni canadesi in Cambogia, ma è molto facile per una famiglia cambogiana trasferirsi in Canada. Il modo più rapido per eliminare la povertà assoluta sarebbe permettere alle persone di lasciare i luoghi dove questa povertà sopravvive. La loro povertà diventerebbe più visibile per i cittadini del mondo ricco – che vedrebbero molti più liberiani o bengalesi servire ai tavoli delle loro città – ma anche molto meno grave.

Quante persone deciderebbero di partire se i confini fossero aperti? L’istituto di sondaggi Gallup ha rilevato che 700 milioni di persone – il 14 per cento della popolazione mondiale – sceglierebbero l’emigrazione permanente se potessero, e un numero ancora maggiore sceglierebbe l’emigrazione temporanea. Circa 147 milioni di persone sceglierebbero di trasferirsi negli Stati Uniti, 35 milioni nel Regno Unito e 25 milioni in Arabia Saudita.

In realtà i numeri di Gallup potrebbero essere sovrastimati. Non sempre le persone fanno quello che dicono di voler fare. Per abbandonare il proprio paese servono coraggio e resistenza. I migranti devono dire addio ad amici e parenti, alle tradizioni familiari e alla cucina della nonna. Molti preferirebbero non fare questo sacrificio, anche rinunciando a una grossa ricompensa materiale.

In Germania gli stipendi sono il doppio rispetto alla Grecia e in base alle regole dell’Unione europea i greci sono liberi di trasferirsi in Germania, ma solo in 150mila lo hanno fatto dall’inizio della crisi economica, su una popolazione di undici milioni di persone. A Francoforte il clima è orribile e nessuno parla greco. Disparità ancora maggiori, abbinate alla libertà di varcare i confini, non hanno portato ad alcun esodo. Dal 1986 i cittadini della Micronesia possono vivere e lavorare senza un visto negli Stati Uniti, dove il reddito pro capite è venti volte più alto rispetto al loro paese. Due terzi scelgono di restare in Micronesia.

Dipende dai percorsi
Nonostante queste precisazioni, però, è molto probabile che i confini aperti alimenterebbero un forte flusso di migranti. La differenza tra i paesi ricchi e quelli poveri al livello globale è molto più grande rispetto a quella tra i paesi ricchi e quelli poveri in Europa, e i paradisi nel Pacifico come la Micronesia non abbondano. Molti paesi poveri sono anche violenti o caratterizzati da governi oppressivi.

Inoltre la migrazione è, in linguaggio tecnico, “dipendente dai percorsi”. Comincia sempre al rallentatore: di solito la prima persona a spostarsi dal paese A al paese B arriva in un luogo dove nessuno parla la sua lingua o sa cucinare i noodles come si deve. Ma il secondo migrante – magari fratello o cugino del primo – avrà qualcuno che potrà fargli fare un giro e farlo ambientare un po’. Mentre si sparge la voce che il paese B è un bel posto in cui vivere, un numero sempre maggiore di persone parte dal paese A. Quando arriva, il millesimo migrante trova un intero quartiere di compatrioti.

In questo senso le cifre di Gallup potrebbero anche essere sottostimate. Oggi al mondo vivono 1,4 miliardi di persone nei paesi ricchi e sei miliardi nei paesi non ricchi. Non è difficile immaginare che nel giro di qualche decennio, un miliardo (almeno) di queste persone possa emigrare se non ci saranno ostacoli legali al movimento. Evidentemente una migrazione di questa portata trasformerebbe i paesi ricchi in un modo imprevedibile.

Una fiera del lavoro per rifugiati a Berlino, l’8 giugno 2017.  - Sean Gallup, Getty Images

Una fiera del lavoro per rifugiati a Berlino, l’8 giugno 2017. (Sean Gallup, Getty Images)

Di solito gli elettori dei paesi di destinazione non si preoccupano troppo per un po’ di immigrazione, ma temono che l’apertura dei confini porterebbe “un’invasione di stranieri” che peggiorerebbe la loro vita e magari minaccerebbe il sistema politico che ha reso appetibile il loro paese. Hanno paura che la migrazione di massa porti un aumento dei crimini e del terrorismo, stipendi più bassi per i locali, un peso insostenibile per lo stato sociale, uno sconvolgente sovraffollamento ed effetti culturali nefasti.

Se un numero enorme di persone migra dalla Siria sconvolta dalla guerra, dal Guatemala in mano ai criminali o dall’instabile Congo, porta il caos nei paesi di destinazione? È un timore comprensibile (e naturalmente sfruttato dai politici contrari all’immigrazione) ma a sostenerlo ci sono soltanto congetture e prove aneddotiche. Certo, alcuni immigrati commettono reati e sconvolgenti atti di terrorismo. Ma negli Stati Uniti i figli degli stranieri hanno un quinto delle possibilità di essere incarcerati rispetto agli altri. In alcuni paesi europei come la Svezia, i migranti hanno più probabilità dei locali di finire nei guai, ma solo perché è più probabile che siano giovani e maschi. Uno studio dei flussi migratori condotto tra il 1970 e il 2000 su 145 paesi dai ricercatori dell’università di Warwick ha stabilito che l’immigrazione tende più a ridurre il terrorismo che ad aumentarlo, soprattutto perché la migrazione incoraggia la crescita economica.

L’immigrazione su larga scala peggiorerebbe la situazione economica dei paesi di arrivo? Finora non è successo. Rispetto agli autoctoni, gli immigrati portano più spesso idee nuove e avviano un’attività commerciale, in molti casi assumendo anche personale del posto. In generale i migranti hanno meno possibilità di attingere alle finanze pubbliche, a meno che le leggi locali non gli impediscano di lavorare, come accade ai profughi che chiedono asilo nel Regno Unito. Un forte afflusso di lavoratori stranieri potrebbe ridurre leggermente gli stipendi locali con qualifiche simili, ma la maggior parte degli immigrati presenta capacità diverse. I medici e gli ingegneri stranieri risolvono il problema della carenza di alcune qualifiche. I migranti non qualificati si occupano dei bambini e degli anziani, permettendo agli abitanti del luogo di svolgere mansioni più redditizie.

L’apertura dei confini provocherebbe un sovraffollamento? In città come Londra, probabilmente sì. Ma la maggior parte delle città occidentali potrebbe costruire più in verticale di quanto faccia adesso, creando più spazio. Inoltre la migrazione di massa renderebbe il mondo meno affollato in generale, dato che il tasso di natalità dei migranti si riduce rapidamente avvicinandosi molto più alla media del paese ospite che a quella del paese di origine.

L’immigrazione di massa cambierebbe la cultura e la politica dei paesi ricchi? Senza dubbio. Pensate a come gli Stati Uniti sono cambiati (in meglio) passando dai cinque milioni di abitanti in prevalenza bianchi del 1800 ai 320 milioni di oggi, con etnie e culture diverse. Questo, però, non dimostra che le future ondate migratorie sarebbero sicuramente benigne. I nuovi arrivati provenienti da paesi illiberali potrebbero portare con sé tradizioni indesiderate, come la corruzione politica o l’intolleranza verso i gay. Se arrivassero in numero consistente, potrebbero votare un governo islamista o uno che aumenti le tasse per gli abitanti del posto favorendo i nuovi arrivati.

Un pensiero creativo
È innegabile che esistono rischi concreti se l’apertura dei confini fosse immediata e non accompagnata dalle politiche necessarie per assorbire il flusso. Ma un po’ di pensiero creativo potrebbe mitigare quasi tutti i rischi e superare le obiezioni più comuni.

Se la preoccupazione è che gli immigrati possano sfruttare la possibilità di votare per imporre un governo non gradito agli abitanti locali, si potrebbe impedire agli immigrati di votare per cinque anni (o dieci, o addirittura per sempre). Potrebbe sembrare una presa di posizione dura, ma è comunque meglio che non lasciarli entrare. Se la preoccupazione è che i migranti del futuro non possano contribuire economicamente, perché non aumentare il prezzo del visto, o far pagare una tassa extra, o limitarne l’accesso allo stato sociale? Questi strumenti potrebbero essere usati per regolare il flusso di migranti, evitando ondate improvvise e sproporzionate.

Sembrano concetti terribilmente discriminatori, e lo sono. Ma per i migranti uno scenario simile sarebbe comunque meglio dello status quo in cui sono esclusi dal mercato del lavoro dei paesi ricchi a meno di pagare decine di migliaia di dollari ai trafficanti, per poi lavorare in nero e rischiare la deportazione. Oggi milioni di migranti lavorano nei paesi del golfo Persico, dove non hanno alcun diritto politico. Ciononostante continuano ad arrivare, nessuno li costringe.

“I confini aperti renderebbero gli stranieri molto più ricchi, di miliardi di dollari”, scrive Caplan. Un elettore consapevole, anche se disinteressato al benessere degli stranieri, non dovrebbe dire “e allora?”, ma “sul tavolo ci sono miliardi di dollari, cerchiamo di fare in modo che i miei concittadini possano accaparrarsene una fetta. I governi usano continuamente tasse e trasferimenti per ridistribuire le risorse dai giovani agli anziani e dai ricchi ai poveri. Perché non usare gli stessi strumenti politici per ridistribuirle dagli stranieri ai locali?”. Se un mondo caratterizzato dal libero movimento sarebbe più ricco di miliardi di dollari, i liberali dovrebbero essere pronti ad accettare grandi compromessi politici pur di realizzarlo.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

(fonte)

La prossima marcia dell’accoglienza va organizzata in Africa: anche l’Italia costruisce muri. Ma sottovoce.

Un post (terrificante) di Stefano Catone, che per Possibile da tempo studia i numeri piuttosto che rilanciare sensazioni:

Manderemo dei soldati in Africa con lo scopo di rafforzare il confine sud della Libia. Lo aveva anticipato Repubblica alcuni giorni fa, lo aveva smentito il ministero della Difesa (con una smentita che non smentisce, dato che parla di «normale attività addestrativa»), lo ha confermato il ministero dell’Interno, con tanto di foto a corredo dell’accordo raggiunto tra i governi italiano, della Libia (che non si capisce che poteri abbia), del Ciad e del Niger.

L’accordo si pone gli obiettivi di «assicurare la sicurezza dei confini, sostenere la formazione ed il rafforzamento delle guardie di frontiera, sostenere la costruzione in Niger e Ciad e sostenere la gestione in Libia dei centri di accoglienza per migranti irregolari, conformemente agli standard umanitari internazionali, promuovere lo sviluppo di una economia legale». Tradotto: manderemo militari con lo scopo di «sigillare la frontiera a sud della Libia, che significa sigillare la frontiera a sud dell’Europa», parole di Marco Minniti, ministro dell’Interno con la tessera del Partito Democratico in tasca.

Tradotto meglio: le persone devono restare nei luoghi dai quali vorrebbero scappare e, dato che l’accordo con la Libia si sta rivelando inefficace e inattuabile, spostiamo sempre un po’ più a sud i nostri confini. Siamo arrivati al Ciad e al Niger. Perché lo facciamo? Perché non possiamo respingere i migranti in mare, non possiamo sparare ai barconi, non possiamo costruire un muro sulle nostre coste: siamo persone civili, noi. Possiamo, però, delegare ad altri, lautamente finanziati, il tentativo di controllare gli oltre quattromila chilometri di confine terrestre della Libia. Fare un muro nel deserto di queste dimensioni non è semplice: è molto più semplice addestrare militari e costruire campi di accoglienza, dove concentrare i migranti.

Quando parliamo del Ciad parliamo di un paese in cui vige lo stato di emergenza a causa delle condizioni in cui versa l’omonimo lago, in cui è al potere la stessa persona dal 1990, in cui «a seguito di diverse manifestazioni di protesta, le forze dell’ordine sono intervenute con conseguenze a volte tragiche» e in cui è consigliabile «viaggiare in convoglio, tenere le porte chiuse a chiave e portare con se stessi carburante di riserva».

Quando parliamo del Niger, invece, parliamo di un paese in cui «il 3 marzo 2017 è stato proclamato lo stato di emergenza nella regioni di Diffa, Tillaberi e di Tahoua a causa dell’aumento degli attacchi terroristici nel Paese», in cui i terroristi assaltano i campi profughi, in cui la schiavitù è stata abolita nel 2003 (ma rimane un problema preoccupantee, inoltre, di un paese «soggetto ad instabilità politica, insicurezza alimentare cronica e crisi naturali, in particolare siccità, inondazioni e infestazioni di locuste».

Della Libia sia sufficiente ribadire che è un paese che non ha sottoscritto la Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati, e cioè la più importante convenzione internazionale in materia.

Quando ci indigniamo per il muro al confine tra Serbia e Ungheria, quando ci indigniamo per il muro di Trump e il Muslim Ban, quando ci indigniamo per i muri e quando invochiamo un mondo senza muri, dovremmo ricordarci che il governo italiano a guida Partito Democratico è uno dei principali sponsor e attuatori della strategia dei muri, che in questo caso non hanno natura fisica (solo perché la geografia non ce lo permette, penseranno i maligni), ma natura politica e diplomatica. Saranno altri a respingere, saranno altri a sparare, saranno altri a detenere i migranti. Lontani da questi luoghi migliaia di chilometri noi stiamo solamente armando gli aguzzini.

«Ma perché ci salvate, se non ci volete?»

Il quarto sgombero in poco più di un mese. Oggi, 7 novembre, come annunciato dai volontari, le tende in cui trovavano rifugio più di cento migranti transitanti da Roma sono state tolte con la forza.

«Ma perché ci salvate, se non ci volete? Perché ci salvate se pensate che la nostra vita non vale quanto la vostra?», scrive su facebook Myriam El Menyar dalla pagina di Baobab experience. Sotto la pioggia battente di queste ore, questa mattina, 70 migranti sono stati identificati, prelevati dalle forze dell’ordine e condotti all’ufficio stranieri di Via Patini. Tutti loro sono già in attesa di protezione internazionale e relocation europea.

«Non aiuteremo le forze dell’ordine e l’AMA a smantellare l’accampamento di fortuna», hanno continuato a ripetere i volontari, mentre sotto i litro occhi si preparava lo sgombero. «Non smonteremo le tende donate dai cittadini, già riparo insufficiente alle violente precipitazioni di questi giorni. Resisteremo, in modo pacifico ma fermo. Dalla parte giusta».

Intanto, più di cento migranti in transito dalla Capitale, restano per le strade di Roma, in cerca di riparo dalla pioggia battente di queste ore. Buonanotte Italia.

(Ne scrive Left, qui)

Italians in Belgium

Il Documentario “Italiani in Belgio” è stato realizzato da Marta Scocco nell’ambito del progetto ShareCulture Creative Mobility, realizzato da Perypezye Urbane con il sostegno di Regione Lombardia e Fondo Sociale Europeo e prodotto in collaborazione con SeaMedia Howest. E secondo me è un’opera rara. Eccolo qui:

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