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Le lacrime di Carl Gustav Jung

Perché, nella modesta casa canonica a Kleinhüningen, dove suo marito è pastore, Emilie Preiswerk, sposata Jung, volga improvvisamente lo sguardo altrove dai suoi ricami e scoppi a piangere a dirotto, in un qualsiasi martedì pomeriggio del 1880, non è chiaro; anzi, al suo bimbo di cinque anni, Carl Gustav – che è l’unico in tutto il cosmo ad accorgersi dello zampillo assurdo di quelle lacrime – si scatena un terrore dentro al cuore quando la vede. Il bambino guarda la madre intensamente, senza dire niente, indagando con i piccoli occhi chiari la stanza, per capire cosa sia successo, chi le abbia fatto così male. Ma non c’è nulla: nessuno. Non ha radice, quel dolore. C’è solo un vasto silenzio nell’aria, che detona in un’eco di ansie mute. Quando Emilie riconosce la paura negli occhi del figlio, si asciuga le lacrime con il grande fazzoletto rosa che tiene sempre in tasca e gli sorride, come a dirgli: “non è niente, mamma sta bene”. Anche Carl Gustav sorride, d’istinto, di rimando, ma il terrore provato gli resta dentro. Quel terrore che non capiva il soffrire della creatura che più amava. Torna ai suoi giochi solitari con un’angoscia nuova.

Anche se è un medico, un filosofo, impegnato a Burghozli in uno dei maggiori centri di cura psichiatrica svizzera, lo sguardo di Carl Gustav Jung, alla fine dell’estate del 1904, non è molto diverso quando una diciannovenne strillante, di nome Sabine Spielrein, varca le porte del sanatorio. Geme, ride, urla come se fosse penetrata da lame, si lamenta e dice cose apparentemente senza senso. Il dottor Jung la prende in cura.

Seduta nella stanza bianca, contorta da ondate di tic che le sfigurano il volto, il dottore la percepisce piena di un’energia che non comprende appieno. È come se le sue strilla provenissero da una camera di tortura chiusa dentro la sua mente, di cui si è perduta la chiave. Ora lui vuole ritrovare quella chiave.

Poche settimane prima, nel suo taccuino, Jung aveva scritto di un immaginario caso clinico denominato “Sabine S.”. Ed ora, eccola lì: Sabine Spielrein. Sembrerebbe una incredibile coincidenza. Ma il giovane dottore non crede nelle coincidenze. Crede che le cose accadano dispiegandosi dalla nostra anima, come segni di un libro che dobbiamo imparare a decifrare. Crede che tutto accada con significato. Se ora quella donna è lì, è perché il destino gli sta parlando: Carl Gustav Jung ne è certo. Lo dice anche a sua moglie Emma; e le confida che, stavolta, vuole abbandonare le cure inefficaci della psichiatria contemporanea, per sperimentare un nuovo metodo, creato da un suo collega viennese, un tipo che lui non ha mai visto, che alcuni considerano un genio, altri un ciarlatano. Un tipo di nome Sigmund Freud. Quello che Jung non racconta a sua moglie è il fremito alle gambe che sente quando Sabine lo guarda, nei suoi rari sprazzi di lucidità non assediata da incubi. La trova bellissima come una tempesta. In lei, intravede pianeti perduti della propria interiorità. Come se Sabine fosse venuta a lui, per indicargli chi potrebbe ancora essere. Come se lei, mentre lui la cura, lo stesse curando.

I risultati medici sono straordinari: nel 1911, Sabine Spielrein somiglia alla ginnasiale promettente che era stata. Sembra uscita dall’inferno in cui era piombata durante le sue crisi, sembra avere un’armatura nuova. Si laurea brillantemente in medicina, vuole diventare psicanalista. Jung l’ha curata. L’ha curata con il metodo di Freud.

(Un gran pezzo di Cesare Catà. Continua qui)

Radio Mafiopoli 26 – Pino Masciari testimone giustiziato

http://www.youtube.com/watch?v=c5IYnh5Y6BA
Vi racconto una favola. Una di quelle favole “al contrario”, alla Rodari. Quelle favole che non ci crede nessuno, nemmeno chi le racconta, perché sono talmente al rovescio che se le ascolti sul serio ti viene il torcicollo.
Prendiamo una città, un città qualsiasi, facciamo Mafiopoli. A Mafiopoli ci sono i buoni e i cattivi. Nelle favole ci sono sempre, e ben chiari, i buoni da una parte e i cattivi dall’altra. Ogni tanto si guardano negli occhi. Ma sono momenti di tensione e allora di solito nelle favole non si racconta mai del momento in cui un buono guarda in faccia un cattivo perché i momenti di tensione si vendono male nelle favole e poi magari rischi pure che ti rimane la cena sullo stomaco e non dormi tranquillo. Nella nostra favola c’è un buono (che è buono anche se la favola al contrario) che un giorno decide di uscire dai comandamenti delle favole e di guardare in faccia i cattivi (e fin qui … direte voi … beh, niente di che). Il fatto è che ad un certo punto il buono sale sulla macchina fatta di mollica di pane e va a raccontare degli occhi bavosi di chi ha guardato negli occhi e poi non contento fa i nomi e i cognomi. Mafiopoli è una favola strana, infatti i nomi e i cognomi poi ti tocca ripeterli 100 volte in 100 posti a 100 persone diverse tanto che ti perdi almeno metà capitoli del libro della tua vita ogni volta, con il coraggio in borsa, a farli e rifarli. Finisce che il buono diventa un nomaiolo professionista, ma mica perché lo vorrebbe fare di lavoro (che dico lui andrebbe benissimo a lavorare, a giocare con i pastelli insieme ai figli o a curare il soffritto con la moglie in cucina), diventa un nomaiolo professionista perché non ha tempo per fare altro, perché nella nostra favola al contrario se procuri momenti di tensione poi succede che la storia diventa urticante e non si vende più nelle librerie. E in più metteteci che il cattivo è mica cattivo per niente e quindi nel frattempo gli è girato il cappello e si è messo in testa di fargliela pagare.  A forza di fare nomi il buono ha perso il suo, e insieme la sua casa, la sua macchina, la sua famiglia. Perché è una favola al rovescio e non è mica come nella realtà che i buoni vanno custoditi e preservati. Alla fine il buono è così solo che per salvarsi dal morire allora comincia a uccidersi lui. (dico, tranquilli, è una favola, per di più al contrario). Perché li chiamano testimoni di giustizia, ma qui al rovescio, sono testimoni giustiziati. Una cosa da non crederci.

Radio Mafiopoli 17 -Il boss Semola, topo di fogna

http://www.radiomafiopoli.org/?p=410

C’era una volta, tanto tanto tempo fa, in un paese lontano lontano, un piccolo topolino di nome Semola. Semola era un topolino molto birichino e tutti i suoi compagni gli raccomandavano di imparare presto la buona educazione.
–    Io non voglio essere un topolino educato! Io voglio diventare un topo boss!
Diceva Semola mentre continuava con i suoi scherzi in giro per il paese. E sparava con i suo baffi appuntiti e il suo muso da topo, rompeva i coglioni ai topi degli altri e soprattutto sognava… sognava con topo Cirillo, topo Letizia, topo Spagnuolo, sognava di diventare come i suoi eroi Sandokan Schiavone e Cicciotto ‘e mezzanotte Bidognetti, i due topi boss che da buoni topi rosicchiano intorno al frutto della dignità finché non ci si accorge che è rimasto solo il torsolo. Sono una razza strana i topi di Gomorra: cominciano da ragazzini come tutti i topi a giocare a flipper all’azione cattolica ma poi si fanno prendere troppo la mano dalle gare di guardie e ladri. E scavalcano a martellate i propri limiti da topo sulla pelle degli altri.
–    Topo Semola, fai attenzione, gli amici seduti sulle pistole durano solo finché non si scaricano.
Gli diceva Topo Saggio.
–    Non è vero! Io sono il capo! E i miei amici hanno bisogno di un capo!
Ma nel mondo dei topi di Gomorra i capi sono vuoti a rendere e in giro c’è sempre qualche Topo Monezzaro che per un soldo di cacio ti insabbia sotto qualche orto. Semola già una volta l’avevano preso al gioco  del giro perché aveva barato e si era preso la penalità della galera, come a Monopoli. A forza di toccarsi mentre si guardava a fare il boss però aveva finito di far vedere che era diventato quasi cieco, anche se i bene informati dicono che non gli sia caduto il pisellino. Quasi cieco ma pisellato era scappato e tornato di nuovo in gara. Il tipico caso di svista, quando a Mafiopoli si chiude un occhio.
–    Ha barato! Non vale! Non può rientrare nel gioco!
–    Sì che vale! Sono Topo Semola e arriverò sempre più in alto, lì dove merito di stare!
Ma l’amicizia tra i topi di Gomorra dura il tempo di uno sparo e piano piano anche i topamici più fidati cominciavano a stancarsi perché non servono troppi capi in un gioco dove non ci sono regole. E l’amicizia scende appena dopo a quando scende la cocaina.
Un giorno topo Semola era stiracchiato nel suo covo con una fetta di formaggio con i buchi e da lontano si sente che bussa la polizia.
–    Ma non vale! Non era arimo? Chiede Semola
–    Arimo sta cippa! Disse l’unico amico che gli era rimasto a dividere il covo con Semola e la moglie, ma non la moglie.
Cominciarono a correre che sembravano dei topi a reazione e scesero giù per il tombino sotto il letto che gli aveva costruito su misura l’Istrice Ficcabuchi.
Corrono, corrono e arrivano nelle fogne di Mafiopoli: Semola, il suo ultimo amico e intorno tutta la pupù. Ma non la moglie, che per spegnere il fuoco sotto la caponata si era fatta arrestare.
–    Che schifo! Andiamo subito via di qui! Non possiamo stare nella fogna! Sono un topo civilizzato.
Ma qui Semola sbagliava. Caro Semola ogni cosa al suo posto, come diceva Topo Saggio, e non è normale che un topo si metta a sognare di continuare a scavalcare senza ricordare che un gioco sleale finisce con lo sciacquone. E così la favola di topo Semola finisce proprio male, una favola nel cesso, una favola anormale, come Via col Vento che finisce che s’infischia o peggio ancora i Promessi Sposi che per il catering sono costretti a rimandare il rituale. E la morale? Cum grano salis.

RADIO MAFIOPOLI 7 – L’onore è mobile!

IL TESTO:

Parlavano dell’onore. A Mafiopoli sono anni che sciacquano le bocche con l’onore. L’onore che premia, l’onore che salverà anche il più  mafiopolitano dei mafiopolitani davanti a dio. L’onore delle donne che si stracciano le sottane invocando dio, che se non l’avessero venduto dio a mafiopoli per  un terreno edificabile, se potesse sentirle dalla cella del carcere duro, sarebbero muffa, le donne che si stracciano le vesti difendendo i mariti giurando di non aver sentito il loro odore di caccia, sangue e pistola mentre si infilano nel letto. Le donne di mafiopoli sono la muffa dell’onore che sbava. Le donne di Mafiopoli, le donne quelle vere come la donna del capoclan Valentino Gionta che hanno fresca fresca arrestato giù a Gomorra. Una vergogna si dice a Mafiopoli. Arrestare una femmina così. Senza nemmeno che fosse cotto il bollito. Arrestata perché ci sbagliava a farci il sugo – dicono i benigni. Arrestata perché ci ama tanto il suo Gionta del circo Gionta che gli curava i pizzi giù dei negozietti di Torre Annunziata. Come le donne per bene di Mafiopoli. Come la santa Giuseppina Nappa, la moglie del divo Sandrocàn Schiavone grande capo dei capalesi. Che si fa piangere in diretta sui rotocalchi dei suoi divi da terza elementare e invoca da nuova vedova il diritto di Mafiopoli. E il giorno dopo viene arrestata alla stessa ora sullo stesso canale del telecomando. Villipendio alla scaletta televisiva! – urlano i maligni. E Pina Nappa, nonostante la cacofonia del nome, va a raggiungere il marito nel carcere duro delle donne fiere di mafiopoli. Dove avrà più tempo per scrivere, lei donna d’onore e moglie dell’onore di Sandrocàn, avrà tempo per scrivere nel carcere d’onore i suoi biglietti di auguri e morte per la giornalista Rosaria Capacchione. Perché le donne di Mafiopoli sono donne che hanno imparato bene ad avvisare con la penna prima di togliere la sicura alla pistola: sono donne civilizzate. Civili e civilizzate e artiste. Artiste serie. Artiste della sceneggiata in eurovisione anche con il fondotinta sporco di sugo. Donne d’onore, donne d’odore, donne di rumore da show di prima serata. Come le veline del maxiprocesso, che gli si stringeva il culo per i mariti disonorati che parlavano troppo ai magistrati e allora ci hanno fatto uno stacchetto che a Mafiopoli tutti fieri se lo ricordano e l’hanno aggiunto ai libri di scuola.

Mai le donne! Sussurrano a Mafiopoli abbarbicati nella medievale casupola di campo pronti per combinare il prossimo. Mai toccare e guardare le donne! Giurano con la borsetta di Mary Poppins a giocare ai pirati e il corredo di ramo d’arancio amaro, la santina e la goccia di sangue. Come si conviene alle persone serie. Alle persone combinate. Alle persone d’onore che da cacciottari giocano a fare i boss. E sopra i quattro assessori alla mafia che li tengono da conto, ne ridono al bar e li disconoscono in tribunale. Mafiopoli è il parco dei divertimenti dell’onore. Onore ai combinati! – urlò il principe Cacchiavellico all’inaugurazione del ponte da Messina a Katmandù. Onore ai combinati e rispetto per le donne! Rispetto per l’onore. Per l’onore combinato. 

Niente donne e niente bambini! Ordina il Raccuglia dei Caccuglia nuovo boss da copertina giù a Partinico in provincia del policentro mentre aspetta che si riorganizzano quei vitali dei Ditale della stirpe dei Vitale della nobile casata di Fardazza. Niente donne e niente bambini! Urlano felici i delfini di Matteo Messina Denaro detto Soldino per gli amici e Soldo di Cacio dai nemici. E intanto studia il suo sbarco su Palermo.  È un onore tascabile quello che si sfoggia giù a Mafiopoli. Un onore snack e primitivo come si conviene ai picciotti sottosviluppati. Non toccate i bambini! – urlano i boss incorniciati tra le ricotte e le latitanze da guardie e ladri. Le donne ce le siamo giocate ma siamo uomini d’onore (poco e sputtanato) e non tocchiamo i bambini. L’aveva anche citocomunicato quell’anima pia e piena di bontà di Giovanni Bontade. Che dal cognome si evince uomo d’onore buono. Alla panna e cioccolato.

[comunicato Bontade al maxiprocesso]

 È un onore risvoltabile quello che si sfoggia giù a Mafiopoli. È un onore che smignotta cinque minuti dopo essere stato puncicato. In nome della bava e della muffa dei boss da cartoni animati. E allora dov’era l’onore, chiede lo scemo del villaggio con il cappello per l’elemosina, dov’era l’onore mentre scioglievate Giuseppe Di Matteo inzuppandolo nell’acido con un paio di mani da uomini da niente? E Brusca con quella faccia d’onore del forte con i picciriddi come i peggiori sfigati della classe? – chiede lo scemo del villaggio. Sarà stato un errore, un errore di onore, rispondono in coro dalle residenze di latitanza i quattro capetti vestiti in maschera da padrino. E allora perchè – insiste lo scemo con l’insistenza quella scema degli scemi che non credono all’onore – perchè a Casteldaccia nel pieno della provincia di Palermo cocapitale di Mafiopoli Ignazio Di Paola calpesta l’onore da pagliaccio di Cosa Nostra e manda il nipotino di otto anni a smerciare droga? Su quella domanda a Mafiopoli, scese il silenzio, il silenzio tipico di Mafiopoli quando uno scemo qualsiasi si accorge che l’onorata famiglia puzza, quando si accorge che la mafia è una montagna di merda. Donne e bambini! Recita il rosario dei boss da fumetto. Donne e bambini si sono giocati gli uomini dell’onore tascabile. E allora dov’è? Se lo sarà mangiato Binnu infarcendolo di ricotta? Lo avranno usato i Riina come bomboniera al matrimonio? L’avrà messo incinta come al solito Raccuglia? Bah…. intanto giù a Gomorra i fessi dei gomorristi per dimostrare che nella scemenza ci devono sempre primeggiare per meritarci almeno un altro romanzo dopo il gioco della sparo al negro giocano coi ragazzini allo sparo davanti alla sala giochi. E vincono il mongolino d’oro della settimana.

C’è bisogno di rifarci l’immagine agli allori e agli onori delle bande di Mafiopoli. C’è bisogno di una cura di televendite e telegiornalisti mafiopilotati per riverniciare questi boss oramai stinti. Quelli che sapevano scrivere e parlare sono finiti in pirlamento, gli altri se la fanno sotto. Svenuratielli.

[testimonianza pentito “sventuratiello”]

Servono eroi. Servono sempre gli eroi alle città con poca anima. Servono sempre gli eroi che facciano il bidet delle onorate società tutte le mattine e poi metterlo in esposizione in piazza. Eroi con un sfighina penale da far invidia, per abbeverare il popolo, per distrarre il popolo, per spopolare il popolo, per onorare il popolo. Alla Cacchiavellica.

[Mangano è un eroe]

RADIO MAFIOPOLI – Terza puntata: Questa Cosa (Nostra) non è un albergo

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Comunicato sindacale della redazione di Radiomafiopoli: a seguito di recenti informazioni pervenute presso la nostra redazione da Partinico circa le presunta fuitina non protetta di un nipote Fardazza, episodio che va ad aggiungersi ad altri paventati congiungimenti carnali avvenuti negli ultimi giorni, il comitato dei giornalai di Radiomafiopoli chiede con forza a tutti gli amici degli amici e in particolare ai rappresentanti dei sindacati della Cipielle, Cifl, Cosa Nostra, Camorra e gli aiutanti di Babbo Natale di porgere maggiore attenzione al palinsesto delle trasmissioni per un miglior coordinamento. Già in una nostra puntata precedente ci eravamo dedicati al mistero sacro della perpetuazione della specie ed eventuali spargimenti di seme fuori tempo rischiano di minare la nostra credibilità. Raccomandiamo quindi ai nostri protagonisti di inviarci mezzo fax o posta elettronica i programmi futuri evitando possibilmente segni di difficile interpretazione sui muri. Certi di una vostra risposta e di un’eventuale lettera ai Corinzi continuiamo ad essere disposti ed esposti a quella solita omertà che tiene orgogliosamente alto il nome di Mafiopoli nel mondo. Grazie. Ora proseguiamo con le nostre trasmissioni. Riassunto delle puntate precedenti: Mafiopoli è una ridente cittadine sulle rive del ponte dei sogni. I cittadini sono tutti felici. La mafia non esiste e tutto il resto è noia.
RADIOMAFIOPOLI PUNTATA NUMERO 3: QUESTA COSA (NOSTRA) NON E’ UN ALBERGO
C’è un’aria elettrica oggi a Mafiopoli per la manifestazione annuale delle mogli dei mafiosi mafiopolitani contro il rincaro della benzina e dei latticini, che pesano enormemente sul bilancio della famiglia (quella minuscola e quella maiuscola) per tutto questo via vai dei zampettanti latitanti da una casupola all’altra. Giù a Mafiopoli è pieno di casupole in mezzo ai campi, in mezzo ai campi di tabacco, in campi di finocchietto, in campi di riso, in periferia, in centro, nei montecitori e quando vengono quelle belle piogge monsoniche perfino nei palazzi di giustizia. Sono la particolarità del posto, come i nuraghi in Sardegna, i craponi all’isola di pasqua e gli ingressi dal retro delle banche popolari di lodi in Lombardia. E le donne a casa a soffiare sul focolare domestico s’intristiscono, con la tristezza tipica dell’arancino con il riso scotto, perché i mariti braccati e bracconieri non hanno più orari, casupolano di baracca in baracca, hanno la gotta da ricotta e corteggiano capre. Una vita d’inferno, quella delle mogli del latitante che non è ancora stato eletto in Pirlamento. I mariti escono a comprare le sigarette e tornano tra trent’anni e loro, femmine dolci e sevizievoli, ci tocca da sole controllare la posta (tra bollette, raccomandate, pizzini sputati e teste di cavallo), allevare i figli (con il fondo mutualistico del Mafinps), mandarli a scuola e fare tutte le settimane le prove di punciuta per il saggio di fine anno.  Poi è normale che quando i nostri pendolari tra casupole e riformatori residenziali tornano a casa, si apre un meraviglioso pantagruelico abbraccio delle donne pazienti. Per il prossimo 15 ottobre all’apertura delle gabbie per Michele Ditale, ad esempio,  è stata prenotata una torta di panna e alici a forma di bombola a gas, e il comitato di benvenuto (coordinato dalla Fardazza Eventi SPA) ha noleggiato quattro ballerine nane, quindici clown e l’almanacco del buon mafiopolitano, e i filmini pistoleri e un po’ spinti di quel maialino di Leoluca Barbarella. Ogni volta che un mafiopolitano torna a casa è un’esplosione di gioie e di colori, di sentimenti e di un paio di auto e i fuochi di artificio sfrizzano felici per le vie di Mafiopoli. Per questo tira e molla dell’amicizia e dell’onore. Totò o ‘curtu tornerà anche lui finalmente a casa tra 177 anni finito il castigo e a Corleone gli stanno preparando una festa che se la scriveranno sui calendari: una bella urna tutta diamanti e cannoli della pasticceria Vasa Vasa. Ma il fuoriclasse del vado e torno era stato il portafortuna di Mafiopoli Andrea Otti, l’elfo gobbetto e occhialuto che portava fortuna a tutti. Che gli lisciavi la gobba e improvvisamente tutto andava bene e meglio e ti si apriva una corrente democricchiana in famiglia. Andrea Otti era per mafiopoli quello che Babbo Natale è stato per la Coca Cola, quello che l’uva è per il vino, come l’acqua per la terra: Andrea Otti era la statua della libertà sul lungomare di Mafiopoli. Dove camminava crescevano petali di rosa, dove parlava non c’era mai un testimone, dove passava tutti i picciotti in festa canticchiavano come nel Mago di Oz. Un tripudio. Poi un giorno arrivò la sagra con tutti i santi in colonna e tutti i mafiopolitani sapevano che Andrea Otti con quella sua gobba avrebbe portato una fortuna perenne alla città e a tutti i suoi cittadini con quella sua gobba di fata. Perché Andrea Otti era eterno, ce l’aveva scritto sulla scadenza dell’etichetta pinzata agli occhiali e infatti era indistruttibile come il guscio Meliconi.
Ma un giorno (un giorno triste che era nato subito dopo cattivi auspici dopo che Pippadauro aveva azzeccato un congiuntivo) Andrea Otti girò i tacchi, si svitò la gobba e se ne partì. Senza dire niente. Senza neanche uno di quei suoi bei baci bavosi che dava per sbaglio. Neanche una telefonata agli amici più cari. E a Mafiopoli scese la tristezza più cupa. E tutti soffrivano, anche il suo amico Salvo soffriva come un cane. Che l’avevano dovuto abbattere.
“tornerà, tornerà!” gridava il Principe Chiaccavellico durante l’inaugurazione del nuovo ponte da Messina a Bogotà. “tornerà! Come tutti i mafiopolitani seri e certificati! State tranquilli! È solo un momento di mestruazione, un secondo di prescrizione e poi tornerà bello gobbo e funereo come prima!”
Ma Andrea Otti non tornava, e la città si faceva sempre più trista. Le mamme lo ricordavano raccontando le favole ai figli, e le raccontano così bene la favola di Andrea Otti che ancora adesso c’è chi non ci crede. Le raccontavano loro e tutta la tivù di stato: Mafiopoli 1, 2, 3 e Beghe 4 e Banale 5. Un kolossal di proporzioni proporzionali e con un pizzico di maggioritario, senza la preferenza unica.
Ma Mafiopoli non va mai in prescrizione e le leggi della natura non si spengono: se Andrea Otti non è tornato, forse è perché non è mai andato via. Noi mafiopolitani stàmo, magnàmo enon pagàmo, alla Romana.