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Nicola Femia

‘Ndrangheta, parla il pentito: “I servizi segreti ci mangiavano con i sequestri di persona”

(Lucio Musolino per Il Fatto Quotidiano)

 

Con la stagione dei sequestri di persona gestiti dalla ‘ndrangheta, ci mangiavano tutti: le cosche calabresi ma anche pezzi delle istituzioni che con le famiglie mafiose più potenti della provincia di Reggio non avrebbero esitato a sedersi allo stesso tavolo. Servizi segreti, poliziotti e mediatori che, in un modo o nell’altro, si sono spesi per dare un’immagine di uno Stato che reagisce all’Anonima sequestri. Anche a costo di entrare nelle sanguinarie dinamiche dell’Aspromonte non esitando a scarcerare boss della ‘ndrangheta come Vincenzo Mazzaferro e a far circolare, per tutta la Locride, una valigetta con dentro 500 milioni di vecchie lire. Erano i soldi che lo Stato ha pagato per la liberazione diRoberta Ghidini, sequestrata il 15 novembre 1991 a Centenaro di Lonato, in provincia di Brescia, e liberata in Calabria dopo 29 giorni. Un sequestro per il quale è stato condannato il boss Vittorio Jerinò al termine di un processo nelle cui pieghe, forse, ancora si nasconde il resto di una storia che, se confermata, dimostrerebbe come lo Stato non ha trattato solo con Cosa nostra per fermare le stragi del 1993. Lo ha fatto ancora prima, in Calabria, avventurandosi tra i sentieri dell’Aspromonte con i boss della ‘ndrangheta.

L’archiviazione della Procura di Brescia
“Dottori, queste sono cose delicate perché questi sono uomini di legge…”. Interrogato dal procuratore aggiunto di Reggio Calabria Gaetano Paci e dai sostituti della Dda Stefano Musolino e Simona Ferraiuolo, il collaboratore di giustizia Nicola Femia sa che le sue dichiarazioni rischiano di riaprire storie vecchie e mai del tutto chiarite, nonostante i rapporti tra uomini in divisa e clan siano stati oggetto di un’indagine poi archiviata dalla Procura di Brescia per la quale – riportava un’Ansa del 1996 – “restano semplici sospetti insufficienti a sostenere delle accuse davanti a un tribunale”.

Quei sospetti, oggi, sono confermati dal boss Femia arrestato nell’inchiesta “Black monkey” sugli affari delle cosche calabresi in Emilia Romagna. Condannato in primo grado, Femia ha deciso di pentirsi. Ai magistrati della Procura di Reggio ha raccontato di non essere mai “stato affiliato alla ‘ndrangheta. Io praticamente ero un uomo ‘riservato’ di Vincenzo Mazzaferro”. I pm lo interrogano a giugno e il verbale finisce nel fascicolo del processo “Gotha” che vede alla sbarra la componente “riservata” della ‘ndrangheta, tra cui gli avvocati Paolo Romeo e Giorgio De Stefano. Non è un caso che nei capi di imputazione contestati nel processo ci sia anche il riferimento alla famiglia mafiosa dei Mazzaferro di Marina di Gioiosa Jonica.

Ai magistrati, Femia descrive gli anni in cui viveva in Calabria, sempre al fianco del boss Vincenzo Mazzaferro. Racconta di quando lo accompagnava a casa di don Paolino De Stefano e della famiglia Tegano, delle rapine commesse in gioventù e per le quali avrebbe dato una parte a un maresciallo dei carabinieri. Parla dei miliardi portati a Milano e in Vaticano: “Sono andato dentro le mura praticamente. – dice -Portavo i soldi a lui e c’era un garage, in una specie di alberghetto… portavo la macchina là e se la vedeva tutto lui”. Lui era un “certo Antonio” che aveva il compito di andare in Colombia dove i miliardi delle cosche si trasformavano in tonnellate di droga.

Una trattativa Stato-‘ndrangheta per liberare l’ostaggio
Ma è la seconda parte del verbale, quella dedicata ai sequestri di persona degli anni 80 e 90, che ha spinto il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo (nella foto) e il pm Stefano Musolino a inserire numerosi “omissis” per coprire i nomi pronunciati da Femia sulla trattativa Stato-‘ndrangheta per la liberazione di Roberta Ghidini. Fascicoli che, adesso, la Dda sta rispolverando per incrociarli con le dichiarazioni di Femia secondo cui quel sequestro “lo aveva fatto Vittorio Jerinò”. Per convincere quest’ultimo a rilasciare l’ostaggio, entrano in gioco i servizi segreti che – ricorda Femia – “si muovono con i soldi”. Ma i soldi non bastano: servono anche contatti, numeri di telefono, persone disposte a stare nel mezzo. In una parola, mediatori capaci di entrare in contatto con Jerinò. “E hanno trovato Vincenzo Mazzaferro” che però, in quel momento, era detenuto e doveva “uscire dal carcere”. Detto fatto: “I soldi tramite loro (i servizi, ndr) sono arrivati, so che si sono mossi ed è uscito Vincenzo Mazzaferro dal carcere. Era detenuto a Regina Coeli, a Roma, ed è uscito”. Quando la ‘ndrangheta prende un impegno, non ci sono dubbi che lo porti a termine: il boss parla con Vittorio Jerinò e gli dà i soldi che gli deve dare, liberano l’ostaggio e tutti amici.

“Vincenzo Mazzaferro ritorna in carcere? – domanda il procuratore aggiunto Paci – Cioè come esce?”. “No, che ritorna. Esce. Femia ricorda tutto quello che gli ha confidato Mazzaferro ma non ha le risposte a ogni domanda: “Farete le indagini voi per vedere che cosa è successo, io non vi posso dire niente perché sono fatti di Stato”.

Fatti di Stato e ‘ndrangheta. Servizi segreti e cosche che, almeno per quanto riguarda Mazzaferro, si parlavano attraverso un confidente, un informatore del quale Nicola Femia fa anche il nome: “Isidoro Macrì. Basta che vi informate alla questura di Reggio Calabria. Era l’autista… l’autista perché Vincenzo Mazzaferro era strano… questo Isidoro portava l’imbasciata avanti e indietro, faceva pure la persona normale… perché lui lo mandava… i rapporti con i marescialli glieli faceva tenere direttamente a lui e non a persone che magari erano di fiducia per non sputtanarsi”. A un certo punto, le cose cambiano. La ‘ndrangheta lascia stare i sequestri e il suo core-business diventa il traffico internazionale di droga.

Così la ‘ndrangheta decise di chiudere con i sequestri
“Hanno fatto in modo che non si dovevano fare più sequestri”. Per il pentito Femia è stato un vero e proprio accordo tra le famiglie della Locride: “All’epoca – dice – erano iniziati i traffici con la droga e calcolate che a Mazzaferro gli arrivavano 1000 chili di droga, 2000 chili di droga ogni tre mesi. Lui la pagava un milione e ottocentomila lire. La dava a tutte le famiglie a 10 milioni al chilo”. Con i sequestrati in Aspromonte e i controlli della polizia non si poteva trafficare in droga. Ecco perché ci fu un summit di ‘ndrangheta in cui si decise di chiudere con la stagione dei sequestri. Una strategia voluta dai boss Peppe Nirta, Vincenzo Mazzaferro e Pepé Cataldo, tutti morti ammazzati da lì a qualche anno e tutti in periodi in cui le loro famiglie non erano coinvolte in faide: “Di smettere con i sequestri. – fa mettere a verbale Femia – non gli è stato bene a qualcuno… a personaggi che lavorano con i servizi, non lo so a chi”.

 

Il pentito: “I servizi ci mangiavano con i sequestri”
Il collaboratore ha paura, il pm Musolino lo capisce e lo tranquillizza: “Non sia timoroso”. Femia continua e lascia intendere che dietro quegli omicidi potrebbero esserci moventi diversi da quelli esclusivamente mafiosi: “Chi lo doveva ammazzare Vincenzo Mazzaferro? – si domanda – Aveva la macchina blindata e non la prendeva più, con gli Aquino (clan rivale, ndr) aveva fatto la pace, chi lo doveva toccare?”. Le risposte il pentito non ce l’ha. Sa solo che “i servizi ci mangiavano con i sequestri. Se arrivavano cinque miliardi, due miliardi se li prendevano i servizi”.

‘Ndrangheta, si pente Nicola Femia, il boss delle slot in Emilia

Ne scrive Andreina Baccaro per il Corriere:

Il boss Nicola Femia ha affidato ai magistrati dell’Antimafia di Bologna le sue confessioni sugli affari della ‘ndrangheta in Emilia-Romagna e non solo. Il padrino del processo Black Monkey, che ha sgominato un enorme giro di slot machine truccate tra Bologna e la Romagna, ha intrapreso la strada della collaborazione con la giustizia e lo ha fatto consegnando al pm della Dda bolognese Francesco Caleca quello che sa sui traffici illeciti della ‘ndrangheta, di cui lui è stato personaggio di spicco, con affari dal traffico di droga al gioco d’azzardo.

Per questo le sue rivelazioni, iniziate qualche mese fa, potrebbero far tremare i polsi a imprenditori e politici dall’Emilia- Romagna alla Calabria: Femia sa e conosce molto bene come girano i soldi in molte realtà. Sia per lui che per i suoi familiari sono già scattate le misure di protezione per i collaboratori di giustizia. È iniziato tutto poco prima della sentenza di condanna a 26 anni di reclusione nel processo Black Monkey, pronunciata a febbraio dal Tribunale di Bologna.

In quei giorni, Femia ha maturato la scelta di pentirsi e ha chiesto di poter parlare in carcere con il pm Caleca, che in quel processo ha sostenuto l’accusa, dopo un’indagine complessa che ha incontrato anche ostacoli sul suo cammino, a partire dal reato di associazione mafiosa in un primo momento escluso dal Riesame, ma poi riconosciuto dai giudici di primo grado. A quel primo traguardo per la Dda di Bologna, si aggiungono ora le rivelazioni del boss, che potrebbero aprire altri filoni d’indagine. «Femia ha fatto indicazioni utili — spiega il procuratore Giuseppe Amato — sia a noi che ad altre Procure. Abbiamo inviato a Catanzaro e alla Direzione nazionale Antimafia a Roma i verbali che possono aiutare a far luce su vicende di competenza di quegli uffici».

Contemporaneamente la Dda bolognese sta passando al setaccio le rivelazioni che riguardano l’Emilia-Romagna: dopo le inchieste Black Monkey ed Aemilia, che hanno squarciato il velo su una realtà politicoeconomica che si era sempre considerata immune alle infiltrazioni, presto la Dda potrebbe svelare nuovi affari milionari della mafia in regione. Femia, che a 56 anni ha sul groppone oltre alla condanna per Black Monkey un’altra per traffico di droga a 23 anni e altri processi in Calabria, sa che è destinato a trascorrere il resto della sua vita in prigione.

Il blitz del Gico della Guardia di Finanza di Bologna scattò nel 2013 per lui e altre 29 persone, tra cui i figli e il genero: furono sequestrate 1.500 slot machine truccate che avevano permesso all’associazione di macinare profitti milionari. Nelle carte di quell’inchiesta ci sono le intercettazioni delle telefonate in cui il boss minacciava il giornalista Giovanni Tizian, che per primo parlò degli affari del boss. Adesso è lui stesso a parlare dei suoi affari con i magistrati, ma prima di guadagnarsi la fiducia dei giudici dovrà fornire indicazioni utili e circostanziate.

Caro Femia, ti è tornato in bocca lo sparo per Giovanni Tizian

Ieri il tribunale di Bologna ha condannato a 26 anni e 10 mesi Nicola Femia, il boss che con il business del gioco d’azzardo ha impiantato pezzi di ‘ndrangheta in Emilia Romagna. Pene pesanti anche per i suoi figli, Rocco (15 anni, contro i 19 e sei mesi chiesti dall’accusa), e Guendalina (10 anni e tre mesi, la procura ne chiedeva 14), per il genero Giannalberto Campagna (12 anni e due mesi, a fronte di una richiesta di 15 anni). Nove anni a testa, inoltre, per Rosario Romeo e Guido Torello per concorso esterno in associazione mafiosa.

Nicola Femia tra le altre cose è anche quel vigliacco che disse senza sapere di essere intercettato che bisognava “sparare in bocca” a Giovanni Tizian, allora giornalista della Gazzetta di Modena…

(continua su Left)