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occhi

19 anni dopo, i temi del G8 di Genova sono più attuali che mai

Chissà quando avremo gli occhi per rivederlo, quel G8 a Genova, quella manifestazione che certa retorica squadrista continua a raccontare come un’orrida sequela di tafferugli (dimenticandone chirurgicamente le responsabilità), raccontando di una città messa a ferro e a fuoco e proiettando un film che non rispetta la realtà. Andrebbe rivisto, quel G8, per raccontare come una grave sospensione della democrazia (parole usate dall’Onu e riprese da importanti organizzazioni internazionali) possa passare sotto traccia ed essere normalizzata negli anni successivi.

Ma, no, questo non vuole essere un pezzo sui picchiatori seriali ben ammaestrati in divisa e nemmeno sulle forze di pubblica sicurezza che fabbricano prove false per giustificare la propria violenza. Dico, ve li ricordate i temi di quel G8? C’erano qualcosa come 300mila persone (che non sono i like su Facebook) che avevano preso i mezzi da tutto il mondo per arrivare a Genova a evidenziare una serie di problemi che per loro sarebbero stati lo scacco matto del futuro del mondo.

A Genova si contestavano il neoliberismo furioso, la concessione di veri e propri paradisi fiscali, la vittoria della finanza sull’economia, l’aumento della disuguaglianza sociale e soprattutto dell’ingiustizia sociale, l’impoverimento irrefrenabile delle classi medie, la sbagliata e ingiusta distribuzione di ricchezze nel mondo, la visione privatistica del mondo al danno del pubblico, il consolidamento delle lobby di potere e delle grandi multinazionali come inquinamento delle decisioni politiche, la redditizia instabilità del mondo mediorientale. Si parlava dell’ambiente prostituito al profitto e delle enormi conseguenze che ci sarebbero state a livello planetario, si parlava dell’aumento della diffusione di xenofobia e di razzismo.

Avevamo ragione noi, a Genova. Aveva ragione quel documento finale del Social Forum di Porto Alegre (lo trovate qui) del 2002 che oggi risuona ancora come agenda assolutamente contemporanea del mondo in cui siamo. Sono passati quasi 20 anni e i mali del mondo sono ancora gli stessi.

Quei temi non sono stati sfondati dai manganelli (a differenza delle teste e dei denti) e dimostrano che, no, non era violenza sistematica per zittire qualche contestazione ma era un pugno di ferro contro un cambiamento di un mondo che non vuole cambiare e che continua a crollare ogni giorno dei medesimi mali. Avevamo ragione noi, a Genova, in piazza, e oggi i grandi del mondo parlano quella stessa lingua. Solo che qualcuno ci ha rimesso qualche osso.

Leggi anche: 1. In Italia 13mila infetti, ma gli “untori” sono i migranti: signori, gli sciacalli sono tornati (di G. Cavalli) / 2. Caro Conte, l’unica opera strategica per l’Italia è investire nella scuola. Che cade a pezzi (di G. Cavalli)

L’articolo proviene da TPI.it qui

A volte ritornano

Dove vuole arrivare Prodi quando strizza l’occhiolino al suo acerrimo nemico? Come mai il Pd non si scompone più di tanto di fronte all’ipotesi di una “alleanza” di governo con Berlusconi? Ecco perché le manfrine di Palazzo di queste settimane sono un (brutto) film già visto

Lo sapete cosa accade quando partiti hanno il terrore mettersi davanti allo specchio degli elettori, quando hanno paura di dover cominciare considerare i possibili effetti di un possibile voto e quando soprattutto cominciano a sentire che il governo in carica ha problemi di tenuta nella percezione popolare? Iniziano a frugare dentro, tra gli anfratti dello scacchiere parlamentare, si lanciano in merletti e alambicchi di strategia che da fuori appaiono come spericolate ipotesi senza capo e senza coda e tengono in mano la calcolatrice per immaginare altre pericolanti maggioranze che restino in piedi giusto il tempo di riorganizzarsi di nuovo. Una burocrazia di maggioranze che ottiene di solito l’effetto di disgustare ancora di più gli elettori (di qualsiasi parte politica) che per anni sono stati scagliati contro i giochi di palazzo e che fa schizzare i populisti nei sondaggi. Poi, quando accade, quando ci si mette tutti insieme in un’accozzaglia di partiti che hanno come unico punto quello della loro autopreservazione, insistono nel dirci che l’hanno fatto per senso di responsabilità, di solito mettono come presidente del Consiglio quello che si definisce un tecnico e di solito danno vita a tutte le misure impopolari che hanno succhiato la vitalità del Paese (il governo Monti, per dirne una facile facile, ve lo ricordate?).

Ecco, quello che sta accadendo in Italia in questi giorni convulsi in cui si torna a parlare di un possibile ingresso nel governo di Silvio Berlusconi corrisponde esattamente alla fase iniziale di un momento del genere, con parte del Partito democratico che non riesce proprio a trattenersi da un filo-destrismo che non riesce proprio a scrollarsi di dosso; con i renziani di Italia Viva che invece Silvio Berlusconi (o meglio: i moderati di destra) lo corteggiano da un bel po’ (quindi niente di nuovo sotto al sole) e con il Movimento 5 stelle che ancora una volta prova le vertigini che procura la sensazione di perdere il potere. Tutto parte da Romano Prodi, icona di un centrosinistra che ha bisogno di idoli in mancanza di classe dirigente, che nel suo ruolo di souvenir del centrosinistra che c’era ci fa sapere che non sarebbe «un tabù l’ingresso di Forza Italia». Dicendolo come ci ha abituato a dire le cose Romano Prodi, a lato di qualche altro evento o mentre viene incrociato per caso da qualche giornalista durante la sua passeggiata mattutina. L’innesco funziona perfettamente: è tutto un profluvio di riabilitazioni politiche e di venute in soccorso verso il Cavaliere caduto in disgrazia con frasi che superano la semplice circostanza e che addirittura mostrano una sfrenata volontà di riabilitare in fretta quella classe dirigente che fu senza l’impiccio del Movimento 5 stelle e senza i populismi di Salvini e di Meloni: il sogno di un centrosinistra e di un centrodestra che rimangano soli nell’arco elettorale e che fingano di farsi la guerra lavorando sotto traccia per la pace è il desiderio recondito di molti dirigenti che ancora non hanno fatto pace con ciò che è successo in Italia negli ultimi dieci anni. In mancanza di un vocabolario per leggere e per scrivere il presente preferiscono rimettere in piedi quel passato in cui nuotavano così agilmente.

Ma, seriamente, cos’è tutto questo baccano sulla riabilitazione di Berlusconi? Proviamo a fare due conti, passo passo, analizzando le diverse situazioni dei personaggi in commedia. Prodi, innanzitutto, è quello che nemmeno troppo segretamente aspira alla presidenza della Repubblica e sa benissimo che per riuscirci ha bisogno dei voti di un centrodestra che in tutti questi anni l’ha demonizzato e l’ha indicato come la causa di tutti i mali europei: per assurdo…

L’articolo prosegue su Left in edicola dal 17 luglio

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In Italia 13mila infetti, ma gli “untori” sono i migranti: signori, gli sciacalli sono tornati

Seguitemi un secondo: in Italia in questo momento ci sono 13.179 persone ufficialmente positive al Covid-19. 13.179 persone che sono potenzialmente infettive e pericolose per la salute pubblica. In Lombardia, tanto per fare un esempio partendo dalla regione più colpita, sono 8.004 di cui ben 7.813 in isolamento domiciliare. Avete letto bene: in Lombardia 7.813 persone sono a casa propria (o in una struttura messa a disposizione) a convivere con il virus e si spera che tutte le 7.813 persone rispettino l’isolamento e non scorrazzino in giro, non mettano nemmeno il naso fuori dalla porta visto che è dal naso che il Coronavirus prolifica e si moltiplica.

In Piemonte quelli in isolamento domiciliare riconosciuti positivi sono 859, in Emilia Romagna sono 1.077 e, per andare sulle regioni meno colpite, in Campania sono 233, in Sicilia 118, in Abruzzo 128 e in Calabria 53. Tutti numeri di cui la politica nazionale e la stampa parla poco o quasi niente: in effetti sono numeri risibili rispetto a quello che abbiamo passato nei mesi peggiori e del resto si spera che i controlli e il senso di responsabilità prevalgano, sempre. È bastato vedere quanto si sia arrabbiato il presidente della Regione Veneto Luca Zaia quando un suo cittadino, con i sintomi Covid, ha deciso allegramente di partecipare a feste, compleanni e funerali fregandosene di tutto e di tutti e mettendo a rischio decine di persone.

La situazione è molto delicata e anche un’equilibrata narrazione (da parte dell’informazione e della politica) può evitare allarmismi e troppa leggerezza, tenendo quel sottile equilibrio che permette di non trasmettere fobie ma allo stesso tempo di tenere alta la guardia sui pericoli della pandemia.

Bene, ora andiamo a Roccella Jonica, Calabria, dove tra alcuni migranti sbarcati sono stati trovati 28 positivi al Covid che proprio in queste ore sono stati distribuiti sul territorio. Anche questa è una soluzione delicata: bisogna garantire sicurezza ai cittadini e bisogna organizzare un isolamento che garantisca sicurezza a tutti. Ora provate ad ascoltare come questi 28 (paragonati ai numeri generali) siano raccontati da certa stampa e da certa politica. Ricordatevi anche che in Italia, purtroppo, è iniziata la pandemia occidentale e ricordatevi per quante settimane siamo stati noi gli untori agli occhi del mondo. È il solito caos strumentale su alcune situazioni particolari che non tiene conto della situazione generale. È il solito sciacallaggio che riformula la realtà per un pugno di voti. E ancora una volta ci ricadiamo.

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Amate smisuratamente

Cosa ci colpisce e ci affonda dei bambini quando si buttano in tutto quello che fanno, quando stritolano per il volere bene il collo di qualcuno, quando si incaponiscono su inezie che non si riescono a pesare, quando gioiscono come se soffiassero da tutti i pori, quando si lamentano con lamenti lamentosi che sembrano la fine del mondo? È il loro senso della dismisura, quel vivere ogni sensazione senza paracadute, senza nient’altro tutto intorno.

Ogni tanto mi viene da pensare che poi, con gli anni, tutti noi a quell’essere a dismisura ci aggiungiamo il controllo e la patina della paura di tutte le botte che abbiamo preso, delle ferite che ci sono rimaste addosso, dell’incriocchiarsi dei sentimenti come se dovessero essere tenuti a bada e della buona educazione che ci viene imposta come limitazione di ciò che sentiamo e di ciò che siamo in nome di una rotondità sentimentale sociale che è quasi un annilichimento.

Pensate agli adulti con la dismisura dei bambini che difendono i diritti, che lottano per ciò che è giusto, che non lesinano energie per ciò in cui credono e che non accettano la realtà smussata di chi ci racconta che le cose vadano così perché devono andare così perché non c’è alternativa di come potrebbero andare. Pensate all’amare a dismisura le ingiustizie, quelle piccole e quelle grandi, e battersi smisuratamente per curarle e smisurata,ente prendersi cura di quelli che abbiamo vicino e che abbiamo lontano.

Perché poi in fondo tutti gli eroi sono smisurati: è smisurato il modo in cui ci hanno creduto, è smisurato il modo in cui hanno tenacemente tenuto la posizione quando non conveniva e è smisurato il modo in cui poi vengono seguiti dopo essere stati derisi.

Ecco, se ci fosse un augurio da farci per questa estate che percorriamo sulle macerie e sui muri sfranti che ci ritroveremo a percorrere, l’augurio che ci farei è quello di amare smisuratamente, di scrollarci dalle spalle questa misura che è un fardello e cominciare a pensare che ci siano motivi validi per essere smisurati. E fa niente quello che ci dicono intorno.

Amate smisuratamente, vi darà nuove misure.

Buon venerdì.

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Decidere di non decidere

Sul ponte di Genova si consuma un errore politico che abbiamo vissuto più volte e che tutte le volte sembra che ci dimentichiamo con facilità: promettere, parlare, dire e ridire, accusare e poi non fare

Blocchiamo subito tutti quelli che ci dicono che con quegli altri (Salvini e compagnia cantante) sarebbe stato molto peggio: lo sappiamo, lo sappiamo benissimo ma non ci basta per stare zitti e non vogliamo stare zitti. Sul ponte di Genova si consuma un errore politico che abbiamo vissuto più volte e che tutte le volte sembra che ci dimentichiamo con facilità e ci incagliamo di nuovo: promettere, parlare, dire e ridire, accusare e poi non fare.

Decidere di non decidere è comodissimo, mica solo in politica, proprio nella vita: c’è gente che decide di non decidere, di rompere amicizie che andrebbero rotte e se le trascina per anni e ogni volta che accade qualcosa ritira fuori dal cilindro tutte le colpe degli anni precedenti. Accade anche nei rapporti di coppia. È il metodo perfetto per incancrenire le relazioni e per distruggere chirurgicamente tutto quello che è stato. Non si decide di prendersi le proprie responsabilità ma si rimane comodamente nella posizione di chi può in qualsiasi momento recriminare. Bello comodo, eh?

Sul decidere di non decidere poi, se ci pensate, si gioca anche la vita di molti incompiuti: sono quelli che per non fare accadere le cose, perché non ne hanno il fegato, fanno in modo che le facciano accadere gli altri. In pratica: non faccio succedere qualcosa ma faccio di tutto perché succeda ma non se ne possa dare a me la responsabilità.

Sul ponte di Genova è accaduto lo stesso: mentre quelli costruivano il ponte si diceva che i Benetton erano sporchi e cattivi ma nel frattempo nessuno si dedicava a sistemare le carte e le regole perché le cose cambiassero.

Così ci ritroviamo qui: il ponte di Genova, il nuovo ponte, è finito e i concessionari sono ancora gli stessi ritenuti colpevoli del disastro. Sappiano i nostri politici che possono fare tutto il chiasso che vogliono ma qui da fuori tutto risulta goffo, inutile e piuttosto ridicolo.

Buon giovedì.

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Bisognerebbe avere avuto fame

È una questione di cui sembra non occuparsi nessuno eppure è uno dei mali endemici di questo tempo: l’incapacità di provare empatia permette il proliferare del razzismo, del bigottismo, del perbenismo, del cattivismo e di molti altri -ismi che continuano a infestare il nostro presente.

Così viene facile portare avanti il modello dell’italiano medio che si infastidisce per il povero o per l’affamato e che crede addirittura di difendere il proprio Paese. Il problema non è solo l’odio per gli stranieri, no, non è solo quello: a molti fa schifo la povertà, l’indigenza, ne hanno un terrore atavico e la allontanano perché sono terrorizzati solo dall’idea di incrociarla per strada. Come i bambini che strizzano gli occhi per scappare da un momento che faticano a sopportare questi non vogliono vedere, non vogliono sapere e così riescono addirittura a trovare maleducato e sconveniente avere fame, essere schiavi e essere poveri.

È tutta mancanza di esperienza e di empatia. È una società che ancora si illude di poter essere nata tra i “non poveri” e di non rischiare mai di finirci. Eppure sarebbe così diversa la politica, il giornalismo, la socialità, lo stare insieme se riuscissimo a immaginare cosa significhi avere avuto fame, non avere i soldi per pensare al giorno successivo, non avere un futuro di sicurezza e di libertà.

Qualcuno potrebbe pensare che dovremmo viverlo per potercene rendere conto eppure augurare una carestia per poter diventare un popolo migliore non sembra una via fattibile e nemmeno troppo responsabile.

E quindi come si empatizza? Studiando, studiando, studiando, leggendo, rimanendo curiosi, vedendo gli altri, ascoltando gli altri, smettendo di vedere il mondo dalla nostra unica personale lente d’osservazione. E sarebbe bello che qualcuno, anche della classe dirigente, avesse il coraggio di dirlo forte e chiaro, piuttosto che cincischiare per continuare a lisciare i perbenisti.

Buon giovedì.

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E se la smettessimo con i fallocrati?

Per lo psichiatra Raffaele Morelli «se una donna esce di casa e gli uomini non le mettono gli occhi addosso deve preoccuparsi». È ora che opinioni del genere non abbiano più spazio sui media

Della storia probabilmente avete già letto e sentito parlare comunque vale la pena ripeterla per bene: lo psichiatra Raffaele Morelli è uno di quelli che imperversano un po’ dappertutto, sui giornali e per radio e per televisioni, a spiegarci cosa sia l’amore e cosa siamo noi. Niente di male se non fosse che le sue tesi (o addirittura ipotesi) ogni tanto possono non piacere ai suoi ascoltatori.

In particolare Morelli ha spiegato che «se una donna esce di casa e gli uomini non le mettono gli occhi addosso deve preoccuparsi», secondo il vecchio schema per cui le donne esistono solo in funzione degli uomini e per cui le donne debbano continuamente cercare nell’approvazione degli uomini la propria realizzazione. Per carità, niente di nuovo sotto al sole e niente di terribilmente più grave del tanto maschilismo e del tanto patriarcato che siamo abituati a vedere.

Il fatto è che le donne, forse Morelli non lo sa, ascoltano e decidono di dire la loro così accade che il celebre psichiatra (celebre per esposizione mediatica) venga incalzato da Michela Murgia, ospite della trasmissione Tg Zero di Radio Capital e dopo averci detto che le bambine devono giocare con le bambole per conservare la loro “radice femminile” (frase che potrebbe dire un maschilista ignorante medio, senza bisogno di nessuna laurea) si è incazzato con Michela Murgia (guarda caso, una donna) con un bel «zitta e ascolta!» prima di interrompere la telefonata!

Uno psichiatra che perde le staffe fa già ridere così, come intristisce un clown che non riesce a fare ridere, ma la riflessione più ampia è che non si capisce come questa gente finisca in televisione, questi che non hanno un pensiero più alto di uno scambio di battute da bar, e continuino a essere intervistati in ogni dove.

Ora, in tutto questo, ciò che esce osservato e raccontato a tutti è ciò a cui Morelli tiene più di tutti: il suo piccolo ego. Chissà che non abbia bisogno di un buon psicologo, un po’ più moderno di lui, per provare a elaborare la sua fallocrazia.

Buon venerdì.

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Gli stra-ordinari pazienti di Gallera

Il magico mondo della Sanità privata visto con gli occhi dell’assessore al Welfare con delega alla Sanità della regione più devastata dalla pandemia

«Gli ospedali sono stati sommersi da pazienti Covid e il privato ha aperto le sale di terapie intensive e le loro stanze lussuose a pazienti ordinari che venivano trasferiti dal pubblico. Il nostro compito è mantenere questo equilibrio». Sono le parole dell’assessore al Welfare della Regione Lombardia Giulio Gallera, uno che ogni volta che parla riesce a mostrarsi perfettamente per quello che è e per quello che pensa. In fondo è una fortuna avere politici così: non c’è nemmeno bisogno di grattare la superficie per trovarci già tutto bell’e pronto.

Nella frase c’è tutto, basta avere voglia di analizzare con calma.

Ci sono i lussuosi ospedali privati. Gente che riesce con soldi pubblici a puntare all’esclusività come caratteristica. Ora alzi la mano chi si sente rassicurato dall’abitare in una regione in cui la sua eventuale malattia ha la possibilità di svolgersi nel lusso, come se gli ospedali siano resort da giudicare per i servizi annessi e connessi in un Paese (e in una regione) in cui ci si mette mesi a accedere a esami specialistiche con lunghissime liste d’attesa. Eccola la sanità lombarda, il modello di cui tutti ci parlano da decenni: ospedali lussuosi pagati con soldi pubblici che tolgono denaro e energie agli ospedali pubblici che annaspano. Glorificare un ospedale perché lussuoso è un po’ come magnificare un salame perché è veloce oppure lodare un architetto perché cucina ottimi tortellini. Una cosa così.

Poi ci sono i pazienti ordinari. E siccome l’italiano non è un’opinione quella frase ci dice che ci sono anche pazienti straordinari, inevitabilmente. Non si sfugge. Che esistano pazienti di serie a e di serie b in una regione che ha trasformato la cura in un business è cosa risaputa. Non si tratta solo di chi può permettersi la sanità (così come la scuola) privata alla faccia di chi deve affidarsi al servizio pubblico che ogni tanto non c’è: si tratta di avere l’accidente giusto, in sostanza avere la fortuna che la propria malattia possa interessare a livello di fatturato e quindi si diventa improvvisamente ottimi clienti. Perché è tutto un enorme supermercato dei malati, pagato con i soldi di tutti, in cui guadagnano in pochi.

Complimenti per la sincerità, Gallera.

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Il suono delle ambulanze

Se mi chiedono cos’è stata Lodi nel pieno della pandemia c’è una cosa su tutte che mi fischia ancora nel cervello: il suono delle ambulanze. Un suono incessante, giorno e notte, senza sosta in nessun orario, una sirena che era diventata perforante nel silenzio della città e che si ripeteva con una costanza mortifera. Forse niente come il suono delle ambulanze rende la grammatura di una tragedia, è qualcosa che ti perfora i sentimenti come il lento gocciolare che rende pazzi o come una luce che ti picchia nell’occhio anche di notte.

Mi è venuto da pensare, in quei giorni lì, che non avrei mai dimenticato il sottofondo che il Covid aveva suonato per settimane intorno a me, intorno a tutte quelle case vuote anche se strapiene, intorno a quelle vie che sembravano tutte rotolare tra le fauci del pronto soccorso come se la città fosse stata ridisegnata per finire tutta, da qualsiasi lato la percorrevi, solo lì.

Il suono di quelle ambulanze era accarezzato dal dolore e dal silenzio. A Lodi il Covid non è mai stato una notizia, a Lodi il Covid sono i morti che ti capita di segnare perché sono famigliari tuoi o famigliari di persone vicine. Ci sono città d’Italia, chiedete dalle parti di Bergamo, in cui la malattia ha cambiato la geografia degli affetti di tutta la comunità.

Mi ero promesso, mentre in molti scrivevano che ne saremmo usciti migliori, che almeno avrei provato a uscirne con quella sensazione di pori drammaticamente aperti in cui entrava il vento, che davvero non avremmo potuto dimenticarci quanto ci siamo sentiti fragili, quanto in quelle settimane abbiamo avuto contezza, toccandola con mano, che le priorità, anche quelle del dibattito pubblico, erano drammaticamente stonate, confuse, sbagliate. Quel suono delle sirene era anche la colonna sonora degli occhi umidi di chi sapeva che non ce l’avrebbe fatta a ripartire, di chi ha dovuto allungare una mano per farsi fare una spesa, di chi ha avuto la vita capovolta per un colpo che non è riuscito a sostenere.

Mi ero augurato anche che quel suono delle ambulanze fosse una lezione per occuparci del dopo, per riuscire a dare una forma ai numeri, per leggere ad esempio che il 21 giugno è stato il giorno peggiore della pandemia mondiale con un +183.020 casi, che in Australia e Nuova Zelanda (che pensavano di avere sconfitto il virus) sono tornate le restrizioni, che in India siamo nel pieno del picco, che in Cina sembra in atto la seconda ondata, che in Calabria è stata istituita una zona rossa a Palmi e che il mondo, avremmo dovuto impararlo, è molto più piccolo e ci interessa molto più da vicino di quello che pensiamo. Mi ero augurato che anche la politica non fingesse di elaborare velocemente il lutto per disfarsene. E invece, guardando fuori, forse mi sbagliavo.

Sarebbe da insegnare a scuola quel suono delle ambulanze.

Buon martedì.

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Dire “è colpa mia” ma non voler toccare nulla nei rapporti con l’Egitto (armi incluse) è una presa in giro

Conte ha detto che è colpa sua. “Ho incontrato sei o sette volte il presidente Al-Sisi. Parlarci di persona e guardarlo negli occhi, poter esercitare un’influenza diretta durante un colloquio vis-à-vis non ha portato risultati, non sono stato capace”, ha detto il presidente del consiglio durante l’audizione alla commissione d’inchiesta sull’uccisione di Giulio Regeni, ammettendo di fatto il fallimento delle trattative diplomatiche con l’Egitto e lo stallo delle trattative. L’audizione di ieri, da cui ci si aspettava di avere un chiarimento sulle eventuali evoluzioni e sulle strategie da adottare è diventata un’opportunità di comunicazione per il governo ma non ha aggiunto nulla allo sconcerto che i genitori di Regeni da mesi fanno emergere insieme a tutta la loro insoddisfazione per la mancanza di significative novità.

Che un presidente del consiglio riconosca le proprie responsabilità è, di questi tempi, una rarità da salutare con sorpresa e perfino una certa ammirazione ma nelle parole di Conte manca un punto sostanziale: quindi cosa si ha intenzione di fare con l’Egitto? Come si ha intenzione di smuovere il sultanato di Al-Sisi che continua a essere sordo? Come si pensa di sbloccare la rogatoria internazionale della magistratura italiana che da un anno giace inascoltata in qualche cassetto di qualche ufficio egiziano? Su questo nulla.

Il governo dice di sperare che qualcosa possa accadere il primo luglio quando ci sarà l’incontro tra le Procure del Cairo e di Roma. Ammettiamolo: che l’unica strategia sia quella della speranza sembra davvero pochino per poter confidare che arrivi una giustizia che ormai da anni rimane appesa. “E se quell’incontro del primo luglio dovesse saltare?”, chiedono a Conte e lui serafico risponde “a mio avviso non siamo ancora quel punto”. Ma non si sa bene a che punto siamo.

Una cosa certa c’è: da quando Conte è presidente del consiglio l’Egitto è passato dal quarantaduesimo Paese con cui l’Italia commerciava armi fino al decimo posto del 2018 e fino al primo posto di quest’anno. Italia e Egitto hanno intensificato la loro amicizia commerciale, alla faccia di Giulio Regeni. E forse non è un caso che nell’audizione di ieri non si sia trovato il tempo di parlare le due fregate Fremm e i 9 miliardi di armamenti che ancora sono sul tavolo: quella commessa è stata il convitato di pietra ma Conte non ha voluto accennarne.

In fondo la storia di Regeni è come tutte le storie in cui la verità fa a pugni con il profitto: si leggono dalle cose non dette.

Leggi anche: 1. L’Egitto acquista 2 navi militari italiane e tappa la bocca all’Italia sul caso Regeni / 2. Regeni, 4 anni dopo: tutta la fuffa della politica che ci ha preso in giro (di L. Tomasetta) / 3. Patrick Zaky, gli affari con l’Egitto possono diventare un’arma per l’Italia (di A. Lanzetta)

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