Vai al contenuto

Oriente

Matteo risponde (male)

«Il regime saudita è un baluardo contro l’estremismo islamico… è grazie a Riyadh che il mondo islamico non è dominato dagli estremismi». Lo ha detto il leader di Italia Viva in una intervista in cui ha parlato del suo viaggio in Arabia Saudita. Dove c’è una costante violazione dei diritti umani

Ieri Matteo Renzi è stato intervistato da Maria Teresa Meli per il Corriere della Sera. Chiamarla intervista in realtà è una parola grossa visto che l’ex premier, come spesso accade, ha potuto comiziare per iscritto praticamente intervistandosi da solo, come piace a lui. Poiché ormai la notizia del suo viaggio in Arabia Saudita è diventato un fatto non scavalcabile il senatore fiorentino è stato costretto a rispondere sul punto (senza rispondere, ovvio) e ha inanellato una serie di panzane che farebbe impallidire anche il più sfrontato dei bugiardi ma che Renzi invece ha sciorinato come se fosse un dogma.

«La accusano di avere fatto da testimonial del regime saudita», dice Maria Teresa Meli e l’ex presidente del Consiglio risponde: «Sono stato a fare una conferenza. Ne faccio tante, ogni anno, in tutto il mondo, dalla Cina agli Stati Uniti, dal Medio Oriente alla Corea del Sud. È un’attività che viene svolta da molti ex primi ministri, almeno da chi è giudicato degno di ascolto e attenzioni in significativi consessi internazionali». Renzi non è andato a fare una semplice conferenza ma siede nel board della fondazione Future investment initiative che fa capo direttamente al principe Bin Salman e per questo è pagato fino a 80mila euro all’anno. Non era lì in veste di conferenziere ma è uno dei testimonial dell’organizzazione di queste iniziative. La differenza è notevole, mi pare. Poi: Renzi dice che molti ex primi ministri svolgono questa stessa attività ma dimentica di essere un senatore attualmente in carica, l’artefice principale di questa crisi di governo, un membro della commissione Difesa nonché lo stesso che chiedeva di avere in mano la delega ai Servizi. Se non vedete qualche problema di conflitti di interessi allora davvero risulta difficile perfino discuterne.

Poi, tanto per leccare un po’ il suo narcisismo e il suo odio personale per Conte Renzi aggiunge: «Sono certo che anche il presidente Conte, quando lascerà Palazzo Chigi, avrà le stesse opportunità di portare il suo contributo di idee». Roba da bisticci tra bambini. E addirittura rilancia: «E grazie a questo pago centinaia di migliaia di euro di tasse in Italia». Capito? Dovremmo ringraziarlo che paga le tasse. Dai, su.

Ma il capolavoro dell’intervista renziana sta in queste due frasi: «Il regime saudita è un baluardo contro l’estremismo islamico» e «Se vogliamo parlare di politica estera diciamolo: è grazie a Riyadh che il mondo islamico non è dominato dagli estremismi». E in effetti il senatore di Rignano deve avere dimenticato che 15 su 19 degli attentatori dell’11 settembre fossero sauditi (incluso Osama bin Laden) ma soprattutto che l’Arabia Saudita finanzi l’estremismo con molta indulgenza e pratichi l’estremismo proprio come forma di governo. Come quelli che sono interrogati in storia e non l’hanno studiata Renzi fa la cosa che gli viene più semplice: la riscrive. Infine, tanto per chiudere in bellezza, promette in futuro di rispondere «puntigliosamente in tutte le sedi» ventilando querele. Perfetto. Ovviamente nessuna osservazione da parte della giornalista: in Italia la seconda domanda è un tabù che non si riesce a superare.

Sarebbe anche interessante sapere da Renzi cosa ne pensi del “costo del lavoro” in Arabia Saudita che ha detto di invidiare, se è informato del fatto che il 76% dei lavoratori sono stranieri sottopagati che vivono in baracche malsane e che sono, di fatto, proprietà privata dei loro padroni che fino a qualche tempo fa addirittura tenevano i passaporti dei loro dipendenti come arma di ricatto per rispedirli a casa e che la situazione delle donne è perfino peggiore con “sponsor” che si spingono fino agli abusi psicologici e sessuali sulle loro dipendenti facendosi forza sul Corano che nella teocrazia saudita detta le leggi. E chissà se Renzi ha avuto il tempo almeno di leggersi una paginetta su Wikipedia (senza chiedere troppo) che dice chiaramente: «L’Arabia Saudita è uno di quegli Stati in cui le corti continuano a imporre punizioni corporali, inclusa l’amputazione delle mani e dei piedi per i ladri e la fustigazione per alcuni crimini come la cattiva condotta sessuale (omosessualità) e l’ubriachezza, lo spaccio o il gioco d’azzardo. Il numero di frustate non è chiaramente previsto dalla legge e varia a discrezione del giudice, da alcune dozzine a parecchie migliaia, inflitte generalmente lungo un periodo di settimane o di mesi. L’Arabia Saudita è anche uno dei Paesi in cui si applica la pena di morte, incluse le esecuzioni pubbliche effettuate tramite decapitazione».

Non c’è che dire: è proprio aria di Rinascimento. Davvero. O forse semplicemente Renzi ha detto la verità: lui invidia un mercato del lavoro così, dove il Jobs Act è stato scritto proprio come lo sognano i ricchi padroni.

Buon lunedì.

Commenti

commenti

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

“A Beirut, come a Damasco, è morta la speranza”: parla lo scrittore siriano Shady Hamadi

Shady Hamadi è uno scrittore di origine siriana e da sempre è un attento osservatore del Medio Oriente. Esilio dalla Siria. Una lotta contro lindifferenza”, edito da Add Editore è il suo ultimo libro.

Lesplosione a Beirut ha acceso le voci di solidarietà falsi cortesi degli esponenti politici con strafalcioni come quello di Manlio Di Stefano. Che sensazione ti provoca la superficialità della politica italiana sul Medio Oriente?
Mi provoca delusione perché l’Italia ha, geograficamente e storicamente, un ruolo di primo piano nei rapporti con il Medio Oriente. Geograficamente perché siamo la porta verso l’Europa; storicamente a causa della presenza araba, durata secoli, nel sud Italia. Gli sbagli eclatanti, come quello di Di Stefano, stanno diventando una prassi (a destra e a sinistra) che non solleva neanche più l’indignazione. Ricordo gli elogi di Renzi al suo “amico”Al Sisi, poco prima della morte di Regeni. O, ancora prima, nel 2011 Franco Frattini che elogiava la Siria per la sua stabilità durante l’ondata delle primavere arabe. Il risultato è davanti a tutti noi.

Come valuti la politica estera del governo italiano?
Sclerotica perché c’è incoerenza nelle azioni della Farnesina a causa della nostra instabilità politica. Prendiamo l’Egitto. Con Renzi, prima dell’uccisione di Regeni, i rapporti erano idilliaci. Ucciso il ricercatore, abbiamo virato completamente. Salvo poi rimandare l’ambasciatore al Cairo. Oggi che cosa rimane del nostro approccio verso l’Egitto, la questione della tutela dei diritti umani? Nulla, a parte la vicenda di Patrick Zaki che non cade nel dimenticatoio grazie all’attenzione di alcuni movimenti di sinistra e Amnesty.

Come valuti lattenzione della politica occidentale sul Medio Oriente?
Dovevamo accompagnare i paesi arabi verso una transizione, sostenendo quel corpo sociale che si chiama società civile ma non lo abbiamo fatto. Preferiamo ancora oggi sostenere militari che con la forza riportano lo status quo antecedente. Guardiamo alla Libia. Parte della comunità internazionale sostiene Haftar; altri Sarraj. All’interno dell’Unione Europea ci sono Stati che, seguendo il proprio interesse nazionale, sostengono gruppi differenti.

Cosa bisognerebbe avere il coraggio di dire/fare?
Abbiamo sbagliato. L’ammissione di colpa dovrebbe arrivare da chi si è seduto in parlamento in Italia come nella Ue. Hanno sbagliato nel guardare al Medio Oriente con i soliti preconcetti: se non c’è un dittatore c’è il fondamentalismo. Come se questi arabi non fossero capaci di emanciparsi da questi due mali, creando una terza via che li conduca verso la democrazia. Il male assoluto, secondo questa vulgata alla Magdi Allam, sarebbe l’Islam. Semplicisticamente sarebbe la religione a bloccare ogni trasformazione.

Da scrittore, con la tua storia, come valuti questo momento internazionale?
É una restaurazione. A Beirut come a Damasco manca la speranza. Sto parlando proprio del sentimento. Sperare di cambiare, di migliorare vita… la gioventù vive nel pessimismo. Questo stato di cose ha prodotto un aumento vertiginoso dei suicidi. Decine di giovani si tolgono la vita esausti non solo di vivere nella miseria ma di non vedere mai un cambiamento. Di chi è la responsabilità di queste morti?

Che ne pensi del rifinanziamento italiano alla Libia?
Abbiamo Salvini che grida contro gli sbarchi. Vuole che si fermino ma lui ed altri hanno firmato per il rifinanziamento della guardia costiera libica da più parti accusata di gestire il traffico di migranti con le mafie locali. Diamo soldi ai trafficanti. Ho idea che chi grida alla chiusura dei porti voglia il contrario. I migranti servono come merce di scambio elettorale, in barba alla sofferenza di quei nei lager.

In Italia haisentito” razzismo?
Personalmente no. Mi definisco da sempre sirio-brianzolo anche se ultimamente mi sento solo brianzolo. Penso che gli italiani non siano razzisti. Credo esista molta ignoranza. Molti politici la sfruttano perché viviamo in una epoca di slogan e non di discorsi culturali. Vede, oggi non vogliamo prenderci la briga di capire perché un nigeriano scappa da Lagos o un siriano da Aleppo. Vogliamo tutto subito, anche le spiegazioni. Il politico improvvisato che ormai dilaga nei talk show e nelle aule un tempo frequentate da Berlinguer, regala slogan. È un ignorante, che non sa che i libici abitano in Libia e che Pinochet non era il dittatore del Venezuela. Non è umile. Infatti non chiede scusa. Dobbiamo ripartire dalla cultura.

Leggi anche: 1. Libano: devastante esplosione al porto di Beirut. Le impressionanti immagini della deflagrazione / 2. Libano, ferito un militare italiano in un’esplosione al porto di Beirut / 3. Libano, esplosione al porto di Beirut: incidente o attentato? Tutte le ipotesi

L’articolo proviene da TPI.it qui

Il paradiso ai piedi delle donne

Il libro è di Francesca Caferri. E vale la pena leggerlo per capire che forse tutto quello che crediamo vero non lo è.

«Eravamo cinque donne. Sedute intorno a un tavolo, in una sera di primavera, a mangiare all’aperto: abbiamo riso e scherzato su tutto. Le calorie e la golosità, le prossime vacanze, le richieste dei figli, la difficoltà di conciliare vita privata e lavoro, i vestiti e le scarpe. Poi siamo passate ai discorsi seri: un divorzio, un marito troppo geloso ma amatissimo, la politica. Non la finivamo più. A un certo punto il cameriere, divertito, ci ha portato una seconda porzione di dolci, omaggio della casa: sul vassoio non ne abbiamo lasciato uno. La serata si è conclusa con una foto ricordo che conservo ancora. Cinque volti sorridenti. Tre con i capelli appena coperti da un velo nero, gli altri due scoperti: sfacciatamente simili nell’allegria di quel momento.

Questo libro è nato lì, nel febbraio 2010, sulla terrazza del Ristorante O a Riyadh, capitale dell’Arabia Saudita. Dalla cena con le tre amiche saudite che ci avevano aperto i loro cuori e le loro vite, io e la collega americana che mi accompagnava tornammo incredule. Entrambe, senza incontrarci prima, avevamo percorso in lungo e in largo il Medio Oriente e i paesi dell’Islam, raccontando di guerre e violenze. Ma anche di studentesse testarde, decise contro tutto e contro tutti a studiare per costruirsi un futuro, di donne che andavano al lavoro ogni giorno anche se minacciate di morte per questo, di rivoluzionarie, di madri di famiglia indomite. Eppure mai come quella sera ci sembrava di avere scoperto un mondo. Come se l’ironia delle tre amiche e le loro battute sulle abaye, le lunghe tuniche nere che – come noi visitatrici – erano costrette a indossare ogni volta che mettevano il piede fuori di casa, avessero acceso un raggio di luce sulle decine di storie che ciascuna di noi aveva raccolto nei suoi viaggi.

Di viaggi in questi anni ne ho fatti parecchi. Sono una giornalista. Ho sempre voluto occuparmi di altri mondi, parlare di come si vive là fuori: circa dieci anni fa il mio sogno si è realizzato. Ho lasciato l’arido ma istruttivo mondo del giornalismo finanziario e sono approdata alla mia vera passione: gli esteri. Era il 2001, l’anno che ha cambiato tutto. Frotte di reporter si precipitarono a raccontare il mondo da cui il disastro dell’11 settembre aveva preso origine: l’Arabia Saudita dei severi wahabiti, l’Egitto degli ambigui Fratelli musulmani, il Pakistan culla dell’estremismo. E, su tutti, l’Afghanistan dei barbari talebani, un paese che dal 1996 viveva nella stessa disastrosa condizione economica e sociale, e che per anni la stampa aveva – con qualche lodevole eccezione – ignorato. Il risultato furono fiumi di inchiostro e ore di trasmissioni radio e tv: alcuni notevolissimi, altri francamente da dimenticare.

Da allora e per anni, ho avuto l’impressione che la maggior parte dei giornalisti raccontasse la stessa storia, come un disco rotto: l’estremismo fanatico, le scuole religiose che incitano all’odio, la sottomissione del sesso femminile, le poche eroine controcorrente. Così, un po’ per spirito di contraddizione, un po’ per rabbia sono arrivata a occuparmi di mondo musulmano e di donne.

Da tempo viaggiavo in Medio Oriente e in Asia per interesse personale: eppure, quando ne leggevo sui giornali, mi sembrava che di alcuni paesi non ci arrivasse che un ritratto parziale, che non coincideva, se non in parte, con la mia esperienza. Continuavo a chiedermi come mai non ci fosse qualcosa di più da dire, un passo avanti da fare: come poteva l’Islam che aveva nutrito il genio medico e filosofico di Averroè, creato quella meraviglia assoluta che è la moschea di Cordoba, dato vita ai tesori di conoscenza ancora oggi nascosti fra le sabbie di Timbuctu essere diventato solo terrore e minaccia? Come era possibile che le eredi di Khadja e Aisha, le amatissime moglie del Profeta, si fossero trasformate negli esseri miseri e passivi di cui leggevamo sui giornali? Davvero quello stesso Corano che lodava la saggezza di Bilqis, regina di Saba, al cospetto del re Salomone, imponeva la sottomissione delle donne? Interrogativi come questi negli anni hanno guidato i miei viaggi: alla ricerca delle risposte, ho conosciuto persone da cui ho appreso enormi lezioni di vita e di dignità.

Molte di loro sono donne. Giovani o anziane, che percorrono le strade del mondo a modo loro, non come vorremmo noi. Che spesso non rientrano nei nostri schemi e per questo non sempre ci piacciono: persone come Nadia Yassine, figlia dello sceicco Abdessalam Yassine, oggi alla testa di Giustizia e Carità, il più popolare movimento politico marocchino, messo al bando perché di stampo islamico e critico nei confronti della monarchia. Nadia – a cui è stato più volte negato il visto per l’Europa, a causa delle sue idee controverse – è la figura femminile più popolare del paese, molto più della principessa Lalla Salma, moglie del re Mohammed VI, idolatrata dai magazine. È a lei e, sul fronte opposto, alle giornaliste scomode di “Femmes du Maroc”, il settimanale che nel 2009 ha messo in copertina per la prima volta nel mondo arabo una donna nuda e incinta, che dobbiamo guardare per provare a capire dove va il Marocco. 

Oppure ragazze come l’egiziana Asma Mahfouz, l’eroina – velata – del 25 gennaio 2011, un’impiegata ventiseienne che, con un video girato da sola e messo su YouTube, ha spinto in strada migliaia di compatrioti contro il regime del presidente Mubarak. E che in piazza si è ritrovata fianco a fianco con Nawal al-Sa’dawi, 80 anni, psichiatra, laica, femminista, per anni esiliata per aver affiancato nei suoi scritti parole come donna e sessualità. O, infine, donne come Tawakkol Karman, la giornalista yemenita che ha guidato in maniera pacifica la rivolta del 2011 in uno dei paesi con il maggior numero di armi pro capite al mondo: per il suo ruolo nella Primavera di Sana’a, Karman ha ottenuto il premio Nobel per la Pace, prima araba a ricevere questo riconoscimento. 

È di loro che questo libro vuole parlare. Donne come Nadia, Asma e Tawakkol negli ultimi dieci anni le ho incontrate in Pakistan, in Yemen, sotto le abaye dell’Arabia Saudita e in tanti altri paesi. Sono l’avanguardia di un movimento che con molta fatica, ma con successo, sta cambiando la faccia del mondo musulmano e che ancora di più lo farà nel futuro. Lo sta facendo negli uffici e nelle università, nelle piazze dove manifesta e nei Parlamenti ai quali è riuscito a imporre leggi più favorevoli alle donne; non tutte vengono applicate, ma oggi sono scritte sulla carta. E rispetto al passato è già un passo avanti.

Questo movimento rivendica le sue origini, le sue tradizioni, la sua religione; e non si limita a scimmiottare il modello occidentale. Nella Sunna, la tradizione che raccoglie gli hadith, i detti di Maometto, ovvero gli episodi della sua vita e i pareri che diede a chi andava a parlare con lui, c’è la storia di un giovane che si recò dal Profeta per chiedergli consiglio prima di unirsi a una spedizione militare: “E la sua risposta fu: ‘Tua madre è viva?’. ‘Sì’ disse il giovane. ‘E allora resta con lei, perché il Paradiso è ai suoi piedi.’”. La visione dell’Islam a cui le protagoniste del mio libro si ispirano è questa».

Qui un’intervista all’autrice.

Recessione e mafie (2). Le nuove frontiere del narcotraffico

di Carlo Ruta

Fin qui emerge un dato di fondo. In tutti i continenti, negli ultimi decenni le economie di origine illegale hanno vissuto i trend dei mercati da protagoniste, correlandosi alle Borse come entità finanziarie imprescindibili. È andato stabilizzandosi per ciò stesso il raccordo delle mafie con i maggiori business, dalla speculazione immobiliare all’industria dei metalli, dalle energie naturali e rinnovabili all’acqua. Le classifiche di Forbes, che hanno visto scalare un gran numero di magnati dell’est europeo e asiatico senza passato, oltre che autentici gangster, ne danno la misura. La crisi attuale rischia di aprire tuttavia scenari nuovissimi. Sta sollecitando infatti degli aggiustamenti nelle economie clandestine più forti: il narcotraffico, il commercio di armi, le tratte degli esseri umani. E gli effetti sul sistema potrebbero essere non da poco. Negli ultimi due decenni, è emerso un incremento di tali traffici su scala mondiale, nonostante le attività contrasto venute dai governi. A dispetto altresì delle iniziative di organizzazioni sovranazionali, a partire dall’Onu, che, per esempio, negli ultimi anni novanta ha sollecitato, per la prima volta, alcuni paesi produttori di sostanze stupefacenti, l’Afghanistan e Birmania per l’oppio, Colombia Perù e Bolivia per coca e cannabis, alla soppressione di tali colture in cambio di aiuti. Ma cosa sta accadendo di preciso in questo tempo di crisi? I dati che vanno rendendosi disponibili, offrono già delle indicazioni, a partire appunto dal narcotraffico.

I ritmi di modernizzazione, più o meno convulsi, dell’ultimo mezzo secolo hanno finito per incentivare il consumo di massa di stupefacenti, naturali e sintetici. Balzi decisivi di tale domanda sono andati correlandosi comunque con snodi particolarmente difficili. E quello di oggi è tale. Come documentano le cronache dell’ultimo anno, la recessione, che si vorrebbe considerare un capitolo chiuso, sta generando precarietà e vuoti di futuro in tutti i paesi, ricchi e poveri. Può essere in grado quindi di interagire a vari livelli con il mercato dei narcotici. È presto beninteso per poter comprendere l’incidenza degli eventi odierni sull’evoluzione del medesimo. Ma alcuni dati che emergono dal terreno, non del tutto concordanti con i numeri che di recente sono stati fatti dall’Unodc, Ufficio dell’Onu che sovrintende alla lotta al narcotraffico, appaiono significativi.

Nel Sud America, capoluogo strategico dei narcos, la crisi globale ha fermato cinque anni di crescita. Sono state colpite le economie del rame, del petrolio, di altre materie prime. È stato penalizzato l’interscambio con gli Stati Uniti. Milioni di persone sono finite quindi in povertà. Il narcotraffico continua però a progredire. Le aree di coltivazione di cannabis e coca lungo le Ande vanno estendendosi, malgrado le politiche di contrasto dei governi. La produzione di oppio ed eroina si conferma in attivo. In tutte le regioni aumenta infine il consumo di narcotici, mentre migliorano le facoltà di produzione di droghe sintetiche. È quanto emerge da un rapporto pubblicato nel marzo 2009 dalla Latin American Commission on Drugs and Democracy, diretta da Fernando Cardoso, già presidente del Brasile, César Gaviria, già presidente della Colombia, Ernesto Zedillo, già presidente del Messico. È quanto affiora altresì da ricerche specialistiche. Nei mesi scorsi, su incarico dell’associazione Libera, un team di economisti delle università di Bologna e Trento è intervenuto sulla situazione in Colombia, passando al vaglio 30 mila dati, oggettivi, tratti soprattutto dagli archivi giudiziari. Ha concluso che nel 2008 sono stati prodotti in quel paese da 2.000 a 4.500 tonnellate di cocaina, a fronte di una stima dell’Unodc di appena 600.

A dare conto delle cose sono altresì le emergenze civili sul terreno, che vengono riconosciute a tutti i livelli. Nelle favelas brasiliane, dove arrivano dalla Colombia grandi quantitativi di stupefacenti, i regolamenti fra bande, spesso con vittime innocenti, hanno raggiunto negli ultimi anni picchi inauditi, malgrado le iniziative di contrasto promosse dalla presidenza Lula. In Messico, anello di congiunzione fra le due Americhe, è stata registrata nel 2008 la cifra record di 6 mila uccisioni per affari di droga, mentre in Guatemala, El Salvatore e Venezuela il tasso di omicidi, nello stesso anno, è salito a oltre 100 per 100 mila abitanti, superiore cioè alla media mondiale di ben 16 volte. Per tali ragioni, il presidente dell’Organizzazione degli stati americani, José Miguel Insulza, ha potuto dichiarare che in Sud America il crimine organizzato uccide più della crisi economica e dell’Aids. Secondo il direttore dell’Unodc, Antonio Maria Costa, tali soprassalti di violenza proverebbero che il mercato della cocaina nei paesi latino-americani va contraendosi. In realtà la storia delle mafie, dalla Chicago anni trenta alla Palermo anni settanta, dalla Colombia degli anni ottanta alla Russia degli anni Duemila, indica che gli scoppi di tensione, pur originati da contesti di crisi e di rottura, recano spesso logiche e significati del tutto differenti, correlandosi con poste in gioco che, proprio in determinati frangenti, anziché ridursi, si fanno più attraenti e remunerative.

Alla luce dei fatti, la situazione non appare insomma rassicurante. Tanto più se si tiene conto delle riserve che proprio in questi mesi vanno manifestandosi in tante sedi, pure governative. Nell’ultimo rapporto del Government Accountability Office la guerra ai narcos sudamericani viene presentata come persa, con l’avallo del vice presidente degli Usa Joe Biden, a fronte dei miliardi di dollari che le precedenti amministrazioni hanno erogato ai paesi produttori. L’Office National Drug Control Policy suggerisce quindi svolte radicali, in senso strategico, a dispetto dei freni che permangono negli States. Il convincimento di una partita persa, che un recente sondaggio ha visto condiviso dal 71 per cento degli statunitensi, si fa largo altresì in America Latina, dove con forza sempre maggiore viene reclamata la sostituzione del paradigma, repressivo dalla produzione al consumo, che finora ha ispirato la lotta al narcotraffico. La Commissione di Cardoso, Gaveria e Zedillo ne indica uno nuovo, proponendo di trattare il consumo di droghe come problema di salute pubblica, con mezzi informativi ed educativi. E su tale linea convergono associazioni e altri alti esponenti della politica, come l’ex presidente del Cile Ricardo Lagos, che suggerisce, più espressamente, di legalizzare la cannabis. Orientamenti di questo tipo non mancano del resto nel governo brasiliano di Lula, oltre che nel Senato colombiano, con le rivendicazioni del liberale Juan Manuel Galan, mentre insiste nel programma di Evo Morales, presidente della Bolivia, l’obiettivo di legalizzare il consumo delle foglie di coca, recante radici etniche, per contrastarne il traffico illegale.

In definitiva, il business delle droghe, in Sud America, sta reagendo agli attuali frangenti con conferme e rilanci che risultano impossibili in altri ambiti. Ma non si tratta di un trend localizzato. Andamenti simili vanno registrandosi in ogni altre latitudini, con economie da narcotraffico che stanno riuscendo a imbrigliare i rovesci dei mercati, forti di una domanda che non demorde, di capitali ingenti e condizionanti, di guadagni che restano sicuri a dispetto della war on drugs.

La recessione in Asia va esprimendosi in modo eterogeneo. In Giappone i collassi della domanda, interna ed estera, corroborati dai crolli borsistici degli ultimi anni, stanno frustrando economie dal passato fiorente. Nei paesi del sud-est, dal Laos al Vietnam, riavutisi dal tracollo del 1997 con un iter espansivo che ha raggiunto cifre da miracolo, si conteranno a fine 2009 2 milioni in più di disoccupati. Perfino in India e in Cina, che per certi versi hanno fatto argine al crollo, con il Pil saldamente in attivo, in virtù pure dei cambi monetari a loro favore, si è avvertita la scossa, con una vistosa riduzione dei ritmi di crescita. Eppure le economie della droga, lungo tutto il continente, stanno mostrando di non temere la crisi. Come in America Latina, contano anzitutto sull’abbondanza del prodotto base: nel caso, sulle coltivazioni di papaveri da oppio che ricoprono l’Afghanistan, la Birmania, il Laos, la Thailandia, il Nepal. L’Onu ha conseguito beninteso dei risultati, soprattutto in Laos e in Birmania, dove nel 2008 sono andate distrutte piantagioni per migliaia di ettari. Ma i dati sul terreno sono ben lontani da annunciare svolte, tanto più se si considera che sono gli stati stessi, interlocutori delle Nazioni Unite, a garantire l’esistente, per il tornaconto, diretto o indiretto, che recano nel business, dal traffico in senso stretto al lavaggio di valute. Le movenze del regime di Than Shwe in Birmania sono nel caso esemplari. Le economie di questo tipo beneficiano comunque di altri fatti: l’aumento di produzione di droghe sintetiche, su scala continentale, e una corrispondente crescita nei consumi delle medesime. Non è poco, evidentemente.

Le amfetamine e le metamfetamine contano oggi su una produzione distribuita in tutti i continenti. E ovunque la domanda è sostenuta dal basso prezzo, dalle mode edonistiche, dagli inarrestabili passaparola, probabilmente pure dal disagio, dal deficit di futuro che è proprio delle crisi. Centri strategici ne sono divenuti diversi paesi dell’Europa, ma ancor più il Canada, in cui si confezionano forse i maggiori quantitativi di ecstasy. La diffusione del prodotto asiatico, corroborata appunto da un sensibile aumento di consumo nel continente, costituisce comunque un sintomo. Si consideri un’area di forte concentrazione, quella del Grande Mekong, infeudata ai gruppi che trattano l’oppio: pakistani, thailandesi, indiani, birmani, cinesi. Lungo tale linea, che dallo Yunnan della Cina percorre l’intero territorio del Laos, con riverberi comunque nello Shan birmano, vengono prodotte, in quantità notevolissime, pasticche di crystal meth e di una variante detta ketamina, destinate in buona misura all’estero. Quale può esserne la logica, in una terra che abbonda fino all’inverosimile di papaveri da oppio? Di certo, non è la prova che le droghe tradizionali stiano entrando in crisi, perché il consumo di oppiacei, di eroina in particolare, nei primi mercati al mondo, l’Europa e il Nord America, proprio non demorde. Potrebbe essere invece l’esito di una studiata diversificazione, legata a un orizzonte di domanda che va ampliandosi, con esiti sempre maggiori nei paesi in via di sviluppo, in favore delle droghe meno costose. Il dato testimonia in ogni caso che le economie degli stupefacenti, anche in contesti di crisi, possono essere mosse da logiche aggiuntive ed espansive. E in altre regioni asiatiche le cose vanno appunto in tale direzione.

Un caso emblematico è quello dell’Arabia Saudita. Diversamente che in Iran e in altri stati vicini, in tale paese il narcotraffico ha incontrato nei decenni passati ostacoli che apparivano irriducibili, di tipo culturale anzitutto, per gli stili di vita che vi reggono, legati alla tradizione islamica. Il controllo ferreo delle frontiere sul golfo Persico ha impedito altresì che i grandi deserti della penisola divenissero corridoi di transito degli oppiacei da Oriente a Occidente, contigui a quelli che collegano l’Afghanistan alla Turchia e all’Europa, attraverso le repubbliche ex sovietiche dell’Asia. Negli ultimi anni le cose sono mutate tuttavia in modo dirompente. L’Arabia Saudita risulta essere uno dei paesi in cui più vengono prodotti e si consumano droghe sintetiche, soprattutto ecstasy e amfetamine del tipo captagon. Prova ne è che nel 2007 ne sono stati sequestrati quantitativi record, pari a un terzo di quelli scoperti globalmente, a fronte dell’1 per cento registrato lungo il perimetro arabo nel 2001. Le droghe sintetiche, ma in una misura discreta pure le tradizionali, dal momento che le sfere di produzione e di distribuzione di massima coincidono, stanno intaccando insomma le frontiere più solide dell’Islam. E, sulla scorta dei dati che vanno emergendo, c’è motivo di ritenere che la recessione, pur trattandosi di aree ben compensate dalle economie del petrolio, stia alimentando tale trend.

Vanno giocandosi in sostanza due partite, congiunte. Le droghe tradizionali formano un mercato stabile, che procede oggi senza scosse, si direbbe in modo ritmico, tanto più nei paesi d’Occidente, dove può contare su un consumo inesausto. Il mercato dei prodotti sintetici, che muove già 100 miliardi di dollari all’anno, circa un terzo cioè del giro d’affari globale delle droghe, si manifesta invece, a fronte di minori investimenti, elastico, veloce, in grado di insinuarsi appunto nei paesi e nelle culture più difficili. Le mappe del narcotraffico vanno aggiornandosi di conseguenza, in favore delle aree e delle mafie che meglio stanno riuscendo a combinare tradizione e innovazione. E tutto questo, riguardo al continente asiatico, in cui la coesione fra i due livelli è probabilmente la più riuscita, evoca un mondo strutturato. Nel Grande Mekong, dove oppio e crystal meth formano appunto un continuum, un’offerta articolata, convergono, come si è detto, interessi molteplici: pakistani afgani, nepalesi, birmani, thailandesi. È decisiva comunque l’influenza delle Triadi cinesi, egemonizzate dalle compagini di Hong Kong e Taiwan: tanto più dopo gli accordi che le medesime hanno concluso con Khun Sha, che nel Triangolo d’Oro fa ormai da decenni le regole dell’oppio, forte di un esercito personale di 8 mila uomini. Il quadro degli interessi, per quanto diviso sul terreno, si dimostra in sostanza aperto. Se i potentati militari del narcotraffico, come nel caso dell’United Wa State Army birmano, usano muoversi infatti in spazi assegnati, perlopiù lungo le linee dei conflitti etnici, le Triadi, servite da un complesso di gruppi territoriali, sono in grado di animare scenari ben più ampi.

Non è possibile definire beninteso quali possano essere gli effetti di tale situazione in questo particolare passaggio. Nuovi balzi in avanti nei traffici da Oriente appaiono tuttavia nell’ordine delle cose, possibili, con guadagni aggiuntivi per i signori del Triangolo d’Oro, ma pure per le mafie potenti che hanno scortato i transiti dell’oppio: da quella russa, che con il narcotraffico ha costruito imperi, oggi stimati e quotati nelle maggiori Borse internazionali, a quella turca, che si potrebbe candidare a nuovi ruoli. È il caso di soffermarsi su questo punto. I boss turchi hanno recato sempre una posizione di prim’ordine lungo le vie dell’eroina che dal sud est asiatico puntano in Europa, attraverso i Balcani. Forti della loro posizione mediana, hanno stretto relazioni con le mafie di ambedue i continenti. Hanno stabilito basi in Iran, in Turkmenistan, in Kazakistan, in altre repubbliche dell’Asia Centrale. Rivendicano, in aggiunta, il dominio delle regioni dell’Asia sud-occidentale, decisi a proiettare la loro egida fino al Golfo Persico, mentre non dissimulano le loro mire egemoniche lungo il Mediterraneo, che potrebbero trovare un appoggio decisivo nell’ingresso di Ankara in Unione europea. Quale nesso può correre allora fra tale progetto di dominio e l’erompere delle metamfetamine in Arabia Saudita, come, probabilmente, in altri paesi del Vicino Oriente? Al momento non è possibile rispondere. Comunque va tenuto conto di un dato: in quelle regioni, penetrate appunto da una solida tradizione islamica, non vengono registrate mafie che per disponibilità finanziarie e, soprattutto, facoltà logistiche possano competere con quelle turche.

In definitiva, non sembra che la recessione abbia preso i gruppi del narcotraffico alla sprovvista, sulla scena globale. I capitalismi “normali” in tempi di crisi vanno in affanno, caracollano, si disorientano. Fatte salve le situazioni di conflitto di taluni paesi, come in Sud America appunto, peraltro cicliche in determinati contesti, quel che emerge nei giri delle droghe è invece la capacità di fare gioco comune. Fatta salva la tradizionale inimicizia fra le Triadi e la Yakuza giapponese, sono appunto le mafie asiatiche a darne esempio, mantenendo oggi, a dispetto di tutto, una integrazione sufficiente. Va preso atto d’altronde che i signori della droga si sono dimostrati previdenti, agendo d’anticipo sulla crisi, diversificando, delocalizzando, puntando alla conquista di nuove aree, di produzione e di consumo, stabilizzando infine i mercati fondamentali, con ogni sorta d’incentivo. L’ultimo decennio ne offre una rappresentazione scenografica con la conquista, pianificata dai sudamericani e non solo, di un intero continente, che era rimasto a lungo marginale nei traffico di narcotici: l’Africa.

La quisquilia mediorientale

voglio dirvi una cosa per cui noi israeliani ce l’abbiamo con Mosè: ci ha fatto camminare quarant’anni nel deserto per portarci nell’unico posto del Medio Oriente dove non c’è petrolio – Meir Golda