Vai al contenuto

ossa

Troppo Covid? Licenziato

Un dipendente di un supermercato nel lodigiano a febbraio si è ammalato e da allora ha avuto continue ricadute. Il 18 settembre riceve la lettera di licenziamento per aver superato i 180 giorni di malattia permessi da contratto. Ma il decreto Cura Italia esclude i casi di Covid

Mentre si è scatenata la caccia dei furbi del reddito di cittadinanza, opera utilissima per sparare nel mucchio contro le povertà che in questo Paese continuano a essere viste come una colpa da condannare e mica un problema sociale da risolvere continuano a rimanere taciute le pratiche dei furbetti dell’imprenditoria italiana che in tempo di Covid continua ad approfittarne per fare ciò che non potrebbe fare, in nome dell’emergenza. Lucrare sulla pandemia è un atto di cui si continua a parlare poco, troppo poco.

Una storia arriva da Casalpusterlengo, nel lodigiano, proprio a pochi chilometri da Codogno, zona rossa da cui è cominciato tutto. Lui si chiama Fabrizio Franchini, ha 60 anni e da 33 anni lavora dietro al bancone dei freschi di un supermercato, uno di quelli che ci inonda di pubblicità che raccontano i clienti come una grande famiglia. Il 21 febbraio l’Italia piomba nell’incubo Covid e Fabrizio Franchini racconta che ancora pochi clienti usavano la mascherina e i guanti, eravamo nel periodo in cui mancava ancora la consapevolezza. Otto giorni dopo il paziente 1 Fabrizio si ammala: tosse, febbre dolori e poi la fatica a respirare.

Fabrizio chiama l’ambulanza, passano 24 ore, poi corre al Pronto Soccorso di Crema, si sottopone al tampone e infine il risultato: Covid. Inizia il percorso di molti malati: ospedale, poi isolamento a casa, tutto in attesa del tampone finalmente negativo. Arriviamo ad aprile: finalmente il tampone è negativo ma i malesseri continuano, ancora controlli, gli dicono di mettersi in contatto con il medico del lavoro. Intanto, proprio a causa del Covid, Fabrizio finisce ancora ricoverato in ospedale: miocardite acuta. Gli viene prolungata la malattia fino al 12 ottobre ma lo scorso 18 settembre gli arriva una lettera dal suo datore di lavoro: licenziato. A La Stampa dice: «Sono devastato. Questo è un incubo in cui ho trascinato la mia famiglia. Per altri sei anni devo pagare il mutuo. Mia moglie lavora in una mensa scolastica e speriamo che non chiudano anche quella». L’azienda dice che Fabrizio abbia superato i 180 giorni di malattia permessi da contratto: che probabilmente si sia ammalato proprio sul luogo di lavoro e che il decreto Cura Italia dica chiaramente che il Covid non possa essere conteggiato nel periodo di comporto sembra non interessare.

C’è un altro aspetto interessante nella vicenda: da tempo il datore di lavoro “spingeva” Fabrizio a una pensione anticipata perché il suo era un contratto “pesante”. Lui aveva sempre rifiutato. Il Covid c’è riuscito. E la sua è solo una delle tante storie dei furbetti che hanno lucrato su licenziamenti, su cassa integrazione e sulla pandemia come occasione per snellire con poco rispetto dei diritti. Eppure è un tema enorme, qualcosa che meriterebbe anche una certa attenzione da certa politica. Oppure viene troppo comodo, come sempre, prendersela con i furbetti da pochi spicci. È più comodo, funziona.

Buon mercoledì.

Commenti

commenti

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Elly Schlein a TPI: “Io segretario Pd? Sto bene dove sto. Sui migranti troppe ambiguità, ci vuole più coraggio”

Vicepresidente della Regione Emilia Romagna ed ex europarlamentare, Elly Schlein fondato le liste “Coraggiosa” hanno corso alle ultime elezioni amministrative con buoni risultati. TPI l’ha intervistata su Ue, politiche migratorie e futuro del governo.
L’Europa dice “superiamo gli accordi di Dublino” e poi esce con questa solidarietà invertita tra stati del Migration Pact. Che ne pensi?
È un errore strategico perché, al di là della dichiarazione del volere abolire il regolamento di Dublino, non risolve il nodo fondamentale che solo la riforma approvata dal parlamento nel 2017 risolveva: cioè un ricollocamento automatico per condividere equamente tra gli stati la responsabilità sull’esame delle richieste di asilo, valorizzando i legami delle persone. Quello è il tema. Mi sembra un piano deludente perché in questo modo mette da parte il lavoro fatto dal parlamento e approvato dalla maggioranza e che poteva essere utilizzato anche per convincere i governi dentro al consiglio a votare, anche a maggioranza qualificata. E invece ripropone l’idea molto vecchia della solidarietà flessibile. Un’operazione culturalmente molto pericolosa è mettere sullo stesso piano i ricollocamenti (e quindi la condivisione dell’accoglienza) e la sponsorizzazione dei rimpatri. Mi sembra che lasci le mani libere a quei governi che si sono dimostrati molto interessati alla solidarietà europea quando vuol dire fondi strutturali e assolutamente indisponibili quando si tratta di un’altra forma di responsabilità europea che è quella che già i trattati chiedono sull’asilo e sull’accoglienza. Mi sembra anche un errore strategico perché anziché farsi forte di una posizione già approvata dal parlamento si riparte da zero con una proposta che non risolve il tema della solidarietà obbligatoria.

L’Europa dice che è solidarietà obbligatoria perché comunque devi dare un contributo…
Cosa sceglieranno i paesi del blocco di Visegrad tra i ricollocamenti e tra il dare un po’ di soldi per fare i rimpatri o dare altro supporto operativo? C’è poi un’altra preoccupazione che sono le procedure accelerate alle frontiere che sembrerebbero aumentare il carico di lavoro ai paesi di confine come l’Italia e soprattutto non si capisce basate su cosa. La convenzione di Ginevra chiede un pieno esame individuale delle domande d’asilo e se tu fai una procedura accelerata – magari basata sul concetto molto discrezionale di paese terzo sicuro – rischi di costituire un filtro d’ingresso che nega il permesso di asilo a seconda del paese da cui provieni. Non mi sembra un passo avanti. Mi sembra un passo indietro. Perfino la commissione Junker, anche se con soglie altissime, faceva scattare un obbligo di ricollocamento per tutti i paesi europei. Al governo italiano spetta un difficile negoziato in cui trovare alleati sui ricollocamenti obbligatori.

In Italia qualche giorno fa hanno bloccato la Mare Jonio ed è la sesta nave ferma in porto per questioni burocratiche anche piuttosto discutibili. I decreti sicurezza rimangono sempre lì e Lamorgese ha parlato di possibili profili penali per le Ong. Come siamo messi qui da noi a criminalizzazione della solidarietà?
Evidentemente male. Mi sembra che ci sia ancora troppa ambiguità in relazione all’obbligo di ricerca e soccorso in mare e non mi sembra che si sia risolto il tema facendo la guerra a coloro che cercano di sopperire alle mancanze istituzionali. Non si sta discutendo di rimettere in mare un’operazione di ricerca e soccorso istituzionale come è stata Mare Nostrum, no, e a fronte di questo a maggior ragione è sbagliato criminalizzare chi si sta occupando di salvare vite in mare che è un obbligo giuridico e morale. Male.

Troppe ambiguità anche da parte di questa maggioranza. Spero possa risolverla in modo diverso anche con la modifica di questi decreti sicurezza che davvero stiamo aspettando da troppo tempo. Era il primo segnale necessario di discontinuità del governo Conte e ne stiamo parlando ancora dopo un anno. È importante che arrivi in fretta e che corregga non solo la criminalizzazione delle Ong ma anche gli altri profili gravissimi come quello che tendeva a smantellare l’unico sistema di buona accoglienza che è quello diffuso, che rifiuta la grande concentrazione di persone dove spariscono i diritti e spesso si infila l’ interesse economico, quello che privilegia le piccole soluzioni abitative distribuite sul territorio con adeguati servizi di inserimento nella società e con adeguati controlli da parte delle amministrazioni locali e con trasparenza sull’utilizzo dei fondi. Chi ha scritto i decreti sicurezza privilegiando le grandi concentrazioni rispetto all’accoglienza diffusa è proprio chi vorrebbe fare dell’accoglienza un business, calpestando i diritti. Con un po’ di coraggio in più questa maggioranza dovrebbe riscrivere complessivamente le leggi sull’immigrazione rimediando ai disastri delle destre che hanno prodotto irregolarità e ingiustizia, non certo inclusione e sicurezza per le comunità.

Molti ti vorrebbero segretaria del Pd ma le tue liste “Coraggiosa” hanno corso alle amministrative ottenendo ottimi risultati. Hai intenzione di continuare su questa linea o pensi che si possa pensare a un partito di centrosinistra che tenga insieme tutto?
Noi stiamo bene dove stiamo. Anzi, in una tornata che ha segnato dei risultati importanti ma non brillanti per le forze progressiste e la sinistra siamo rimasti positivamente sorpresi che le liste di coraggiosa abbiano avuto una crescita significativa. a Faenza abbiamo fatto il 7,22 per cento, a Vignola abbiamo avuto una crescita del 145 per cento rispetto alle regionali di 8 mesi fa. A Imola è andata bene, siamo cresciuti al 5 per cento. Quindi in una tornata in cui il centrosinistra si è difeso bene ma non c’è stata una crescita in valori assoluti, “Coraggiosa” è in controtendenza forse perché stiamo provando a dare una chiarezza di visione che in questo momento a livello nazionale manca. Stiamo cercando, dentro le coalizioni, di contribuire a fermare la destra ma qualificando la nostra proposta sui temi della lotta alle disuguaglianze e alla transizione ecologica, due temi su cui chi si sta mobilitando anche fuori dalla politica è stufo di titubanze e di ambiguità. Questo può essere anche uno spunto importante per le forze che formano questa maggioranza. Sui temi del clima, dell’immigrazione e del lavoro di qualità bisogna che si sblocchi questo governo. Su giustizia sociale e transizione ecologica questo governo può fare fronte comune e fare un balzo in avanti. “Coraggiosa” non ha mai avuto l’ambizione di essere un nuovo partito o una sigla in più, ha sempre avuto l’ambizione di scuotere l’intero campo delle forze ecologiste e progressiste pretendendo chiarezza nella visione condivisa di futuro. Unità sì ma non ha senso se non è accompagnata dalla coerenza di un progetto condiviso. Quindi per ora noi continuiamo a stare dove stiamo e continueremo su questa strada.

Come vedi il futuro del governo?
I risultati elettorali danno un respiro ampio ma non per stare fermi, guai a sedersi sui risultati. Quei risultati consegnano la responsabilità alle forze di governo di rilanciare in avanti. Abbiamo un’occasione straordinaria, le risorse in arrivo vanno utilizzate coinvolgendo i territori e le parti sociali, non è un sfida di governo, è una sfida che riguarda il paese. Quelle risorse ci danno l’occasione di ricostruire il paese su basi nuove, possiamo risolvere alcuni ritardi accumulati nei decenni.
Quali sono le priorità?
Transizione ecologica, su cui bisogna investire il 37 per cento delle risorse del Recovery Fund, la trasformazione digitale, su cui bisogna investire il 20 per cento e la coesione sociale. Le priorità indicate dalla commissione europea centrano proprio la congiunzione tra lotta alle diseguaglianze e transizione ecologica che sono i temi su cui insistiamo da tempo. Se il governo avrà la capacità di progettare il nuovo e non semplicemente aprire cassetti polverosi per accontentare qualcuno, si potranno spendere bene. Nei vecchi cassetti ci sono progetti scritti troppi anni fa per riuscire a interpretare i cambiamenti che servono. Io credo che la tenuta di questo governo si misurerà se le forze che lo compongono, piuttosto che continuare a distinguersi, proveranno a lavorare concretamente sui temi che li uniscono. E questi sono i temi su cui possono provare a fare un passo avanti insieme.

Transizione ecologica significa investire su un nuovo modo di spostarsi, una mobilità dolce e sostenibile puntando su ferro, intermodalità e ciclabili, vuol dire creare occupazione di qualità nelle rinnovabili, nell’efficientamento energetico degli edifici e nella prevenzione del dissesto, perché l’unica grande opera che serve al paese è la cura del territorio così colpito dai cambiamenti climatici. E poi investire sulla trasformazione digitale per rimediare i ritardi enormi che abbiamo a partire dalle pubbliche amministrazioni, ma vuol dire riuscire a governare anche processi di innovazione tecnologica per metterli al servizio delle persone, perché non governati hanno prodotto un’enorme concentrazione di ricchezze e saperi. Si dovrà assicurare pari accesso alla rete per chiudere i divari territoriali, e per il privato investire nel digitale vuol dire innovare e contribuire all’internazionalizzazione delle piccole e medie imprese.

Coesione sociale significa anche fare un enorme investimento sulla scuola, sul capitale umano, sulla formazione a partire dagli asili nido. Investire sui nidi vuol dire rendere più solidi i percorsi educativi contrastando povertà educative e dispersione scolastica, ma significa anche fare politiche di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro indispensabili per colmare il divario occupazionale delle donne, favorendo una migliore distribuzione del carico di cura. Dopo la crisi del 2008, le ricette hanno reso il lavoro più precario, specie per donne e giovani. Oggi dobbiamo evitare quegli errori e ricostruire su basi diverse. Non abbiamo più scuse, le risorse ci sono.

Leggi anche: TPI intervista Elly Schlein, campionessa di preferenze in Emilia-Romagna: “Vi racconto la nuova sinistra che può battere Salvini”

L’articolo proviene da TPI.it qui

A proposito di Dana

Lo scorso 17 settembre all’alba a Bussoleno, in Valsusa, è stata arrestata nella sua abitazione Dana Lauriola attualmente nel carcere Le Vallette di Torino per scontare una pena detentiva di due anni, a seguito di una condanna definitiva per “violenza privata” e “interruzione aggravata di servizio di pubblica necessità” per un’azione dimostrativa pacifica realizzata il 3 marzo 2012 sull’autostrada Torino-Bardonecchia, all’altezza del casello di Avigliana, alla quale parteciparono attivisti del movimento No Tav, in protesta contro la costruzione della linea ferroviaria ad alta velocità.

Cosa ha fatto Dana? Era il 3 marzo 2012 e la tensione in Val di Susa era altissima per l’incidente occorso a un attivista, Luca Abbà, inseguito da un poliziotto e folgorato su un traliccio. Vengono organizzate manifestazioni di protesta e di solidarietà e tra queste circa 300 manifestanti si sono diretti a Avigliana, dice la sentenza del tribunale: «occupando l’area del casello, rendendo inefficienti gli impianti di videosorveglianza e bloccando con nastro adesivo le sbarre di pedaggio in modo da consentire il passaggio continuo dei veicoli in transito». Dana, dice sempre la sentenza «ponendosi alla testa dei manifestanti, con l’utilizzo di un megafono intimava agli automobilisti di transitare ai caselli senza pagare il pedaggio indicando le ragioni della protesta» (così la sentenza 28 marzo 2017 del Tribunale di Torino che ha quantificato in 777 euro il danno patrimoniale riportato dalla società concessionaria dell’autostrada per mancata riscossione dei pedaggi).

Dana Lauriola viene condannata a due anni di carcere. È incensurata per cui si presume che, avendo partecipato a una manifestazione pacifica, possa, come sempre succede, accedere a misure alternative. Qui si entra nell’assurdo. Le vengono negate misure alternative per la mancata presa di distanza di Dana dal Movimento No Tav (pur in un quadro di revisione critica «delle modalità con le quali porre in essere la lotta per le finalità indicate») e il luogo della sua abitazione, prossimo all’epicentro dell’opposizione alla linea ferroviaria Torino-Lione). In sostanza a Dana vengono contestati i suoi ideali politici e il luogo in cui abita. Una cosa mostruosa. Quando ho letto la sentenza mi sono detto che sicuramente i difensori della libertà, quelli che scrivono tutti i giorni sulle proteste in giro per il mondo, si sarebbero preoccupati anche di Dana. Niente.

Amnesty International dice: «Esprimere il proprio dissenso pacificamente non può essere punito con il carcere. L’arresto di Dana è emblematico del clima di criminalizzazione del diritto alla libertà d’espressione e di manifestazione non violenta, garantiti dalla Costituzione e da diversi meccanismi internazionali. È urgente che le autorità riconsiderino la richiesta di misure alternative alla detenzione e liberino immediatamente Dana Lauriola, arrestata ingiustamente per aver esercitato il suo diritto alla libera espressione e a manifestare pacificamente».

Non lo sentite tutto questo silenzio intorno?

Buon venerdì.

Commenti

commenti

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Le ossa rotte di Salvini in Toscana e Veneto: il declino del leader leghista

Bacioni, Salvini. Il leader leghista continua il suo filotto di sconfitte che rivende come vittorie e esce con le ossa rotte dalle elezioni regionali. Torniamo indietro di qualche ora: Matteo Salvini non riesce a non smargiassare e per mesi continua a urlacciare dappertutto che queste elezioni sarebbero state quelle che avrebbero “mandato a casa Conte e il suo governo” e che avrebbero dimostrato che la gente non ne poteva più del Partito Democratico e del Movimento 5 Stelle. Rendere delle elezioni regionali come cartina di tornasole del quadro nazionale è sempre un rischio ma il leader leghista ha questa grande, invidiabile caratteristica: le sbaglia tutte.

Così nonostante i suoi soliti messaggi che solleticano i soliti stomaci (riuscire a parlare solo di migranti in occasione di elezioni locali è una banalità da fuoriclasse) Salvini riesce a uscirne male in Toscana (dove la candidata Ceccardi era una “sua” creatura) e riesce a farsi sconfiggere perfino dal legista Zaia che in Veneto con la sua lista personale prende il triplo dei voti della lista ufficiale della Lega.

Dalle parti della Lega minimizzano ma proprio in Veneto Salvini pretese che tutti gli assessori uscenti fossero capilista della lista del partito e proprio in Veneto Salvini scrisse ai 400 segretari locali del Carroccio per invitarli a votare la lista ufficiale del partito e non quella di Zaia: missione fallita, evidentemente, lo dicono i numeri. “La lista del presidente intercetta il consenso che non va al partito”, ha detto ieri Zaia in conferenza stampa: chi ha orecchie per intendere intenda. I numeri, si sa, non mentono e i numeri dicono che i consensi della Lega sono in calo in tutti i territori e solo l’enorme ascesa di Giorgia Meloni è riuscita a tamponare una sconfitta di proporzioni maggiori.

Matteo Salvini politicamente negli ultimi 13 mesi, dal famoso pomeriggio del Papeete, è riuscito a sbagliarle tutte e se serve una fotografia di queste sue elezioni basta andare a Lesina, provincia di Foggia dove l’unico candidato sindaco era proprio un leghista: “Un sindaco pugliese lo abbiamo già eletto ancor prima del confronto elettorale”, disse Salvini il 23 agosto. Sbagliata anche questa: il candidato sindaco è riuscito nella mirabile impresa di non raggiungere nemmeno il quorum. Niente da fare.

Se, come diceva Salvini, queste elezioni sarebbero state la spallata definitiva del governo Conte e il primo passo per il suo ritorno al governo…Beh, Conte può dormire sonni tranquilli. Bacioni, Salvini.

TUTTO SULLE ELEZIONI REGIONALI 2020

TAGLIO DEI PARLAMENTARI: TUTTO SUL REFERENDUM COSTITUZIONALE

Leggi anche:
– Regionali, 3 scenari per il dopo-elezioni (di Luca Telese)
– Referendum, perché votare Sì contro l’establishment e la monarchia editoriale (di Alessandro Di Battista)
– Referendum, Francesco Merlo a TPI: “Votare no per fermare i progetti eversivi del M5s e della destra”
– Giovani per il No, over 50 per il Sì: il paradosso generazionale sul referendum

L’articolo proviene da TPI.it qui

Castra la Casta

Il governo del fare ha risolto tutti i nostri problemi. Finalmente. C’è voluto tempo ma hanno trovato finalmente la soluzione a tutti i nostri mali. Per risollevare il Paese bastava tagliare i parlamentari. E in effetti il risparmio è notevole e ora davvero le casse dello Stato possono stare tranquille: parliamo dello 0,0000258% del Pil nazionale. Su uno stipendio di mille euro da domani tutti avranno in tasca 2 euro e 58 centesimi in più. Si prevedono ingenti investimenti e un appuntito rilancio dei consumi e delle assunzioni. Era ora.

Certo ora rimane semplicemente da studiare una riforma elettorale che garantisca la rappresentatività di tutti i cittadini, di tutte le zone d’Italia. Bisogna semplicemente ridisegnare l’architettura parlamentare perché tutte le opinioni possano avere la possibilità di avere voce. Ma è una cosa da poco: questi hanno dimostrato di essere dei geni di leggi elettorali e di contrappesi democratici. Niente di cui preoccuparsi, quindi.

Poi ci sarebbe da capire come assicurare le pensioni a una generazione che le vede come una chimera, senza mandare in fallimento lo Stato. Ma ci penseremo con calma.

C’è da ristrutturare il mondo della scuola che chiede la carta igienica da casa. Ma con due euro in tasca in più per ognuno di noi vedrete che in giro si troverà qualche buona offerta.

Ci sarebbe da rimpinguare una sanità pubblica ormai allo sbando e senza abbastanza medici per coprire il fabbisogno futuro. Ma vuoi mettere la soddisfazione di ammalarti con il Parlamento dimezzato?

Ci sarebbe anche da discutere del fatto che di questo passo nel pianeta Terra non ci sarà più il clima per avere un Parlamento. Ma non ha senso inseguire gli allarmi della scienza. Dai, su.

Ci sarebbe anche un mondo del lavoro che diventa sempre più stretto, sempre più povero e sempre assassino. Ma non è elegante parlare di soldi, no.

Comunque abbiamo risparmiato 2 euro a testa. Per chi dice che l’importante è iniziare da qualche parte: vero, tipo dimezzare gli stipendi dei parlamentari, ad esempio solo per non citare corruzione, mafie, malaffare e evasione fiscale delle multinazionali, che diventa troppo complicato.

Solo che di questi argomenti non è il caso di parlarne ora che c’è in ballo il referendum. La soddisfazione di colpire la casta è un’occasione imperdibile, e chi ce lo dice? Loro, loro stessi. Come se ammettessero di essere in troppi troppo incapaci e chiedessero a noi di intervenire riducendo il coefficiente di probabilità che vengano eletti degli idioti. Qualcuno potrebbe sommessamente fare notare che dovrebbero essere loro, quelli che ci dicono sì, a occuparsi di selezione della classe dirigente. Ma è un discorso troppo lungo, troppo difficile, troppo da professoroni.

E allora via: un bel referendum per tagliare il Parlamento e al resto ci penseremo dopo. Un po’ come quelli che tolgono l’ascensore prima di avere pensato di costruire le scale. Ma vuoi mettere che risparmio, non avere l’ascensore.

Noi qui a Left abbiamo provato a fare un po’ di chiarezza con un ebook che trovate qui.

Buon mercoledì.

Commenti

commenti

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Dramma di Caivano, il diritto di amarsi di Ciro e Paola e le donne vissute come proprietà privata

È stata Cira, anzi no, è stato Ciro che però era Cira e che era una trans, poi si correggono è stato un trans, poi qualcuno che scrive che fosse un amore gay, addirittura un telegiornale nazionale in prima serata, quello spicchio di tempo che dovrebbe essere pedagogico oltre che informativo e l’attenzione di troppi giornali e telegiornali e troppi commentatori va a finire tutta lì, sulla transizione di Ciro Migliore e la morte di Maria Paola Gaglione, morta a causa di un inseguimento che ha ribaltato la motocicletta su cui Maria Paola viaggia finisce quasi in secondo piano, è troppo ghiotto il piatto del trans per fermarsi alla cronaca e alla narrazione dei fatti e così, ancora una volta, oltre al lutto si aggiunge il dolore e la sofferenza di una stampa che sembra non avere le parole per raccontare la realtà che ci circonda, che ancora incespica nel raccontare il presente e che ancora punta il dito sulla vittima piuttosto che sul presunto colpevole.

I fatti, intanto: Maria Paola Gaglione, 22enne di Caivano, ama Ciro Migliore, un uomo trans, nato biologicamente donna ma in transizione verso il sesso maschile. I due sono in motorino e il fratello Michele comincia a inseguirli. Il fratello non sopportava la relazione tra i due: «Non volevo ucciderla, ma solamente darle una lezione», dice il fratello agli inquirenti che lo accusano di morte in conseguenza di altro reato e di violenza privata. Ieri il gip ha convalidato l’arresto. «L’aveva infettata», dice lui parlando della sorella e del suo amore. Mentre li inseguiva urlava minacce di morte. Quando avviene l’incidente (le cause sono tutte ancora da accertare e al vaglio degli inquirenti) Maria Paola Gaglione rimane uccisa sul colpo mentre Ciro è sanguinante a terra e comincia a essere pestato dal fratello. A completare il quadro ci sono poi le voci della famiglia, i genitori di Maria Paola giustificano il fratello dicendo in diverse interviste che il giovane sicuramente non voleva speronare ma che il gesto era di “aiuto” per quella sorella e la sua relazione non accettata.

Si tratta, per l’ennesima volta, di una donna che viene vissuta come proprietà privata (in questo caso dal suo fratello maggiore) e che non viene considerata libera di vivere la sua relazione perché l’amore che nutriva per il suo compagno non rientrava nei canoni tradizionali di una famiglia che, lo dice bene don Patriciello che conosce i protagonisti, «non avevano gli strumenti culturali» per affrontare una situazione del genere. Siamo di fronte, una volta ancora, a un femminicidio (quanto preterintenzionale e quanto volontario lo deciderà ovviamente il processo) in cui perde la vita una donna che è stata giudicata da un contesto che non ha l’educazione sentimentale per affrontare la complessità dell’amore che spesso segue linee ben diverse dai canoni tradizionali.

Per questo in molti in queste ore continuano a chiedere che arrivi al più presto quella legge contro l’omotransfobia che giace da mesi in commissione (e che ha diviso il Parlamento): le associazioni Lgbt locali tra l’altro sottolineano come Ciro fosse vittima dell’odio e delle minacce da parte della famiglia di Maria Paola. Il tragico evento accaduto qualche giorno fa è solo la coda di un odio che parte da lontano e che si è perpetrato per mesi. Poi c’è la questione, sempre poco raccontata e spesso raccontata in modo piuttosto distorto di queste famiglie che si ritengono proprietarie della vita e delle scelte dei propri figli: Sana Chhema, una 25enne pakistana viveva a Brescia dove aveva studiato e dove lavorava ed è stata uccisa dal padre e dal fratello che non accettavano il fatto che si fosse innamorata di un ragazzo italiano, era l’aprile del 2018 e nel 2016 Nina Saleem, ventenne pakistana, venne sgozzata dal padre, dallo zio e da due cugini perché aveva un fidanzato italiano e perché vestiva troppo all’occidentale. In quel caso fu facile addossare le colpe degli omicidi all’arretratezza delle famiglie straniere e sentirsi assolti come se fossero fatti di cronaca lontani da noi eppure la trama, il nocciolo della storia anche in questo caso è lo stesso, con cognomi italianissimi.

E a proposito di arretratezza forse sarebbe il caso anche di ricordare che Caivano, luogo in cui si è consumata la tragedia, è uno dei luoghi con i più alti indici di dispersione scolastica e con il più basso indice di presenza di nidi a tempo pieno d’Italia. Perché forse oltre alla legge servirebbe anche un’educazione sentimentale e una formazione culturale di cui si continua a discutere e che continua a non essere un serio progetto politico. Serve la legge, certo, ma serve la cultura. E ancora una volta siamo qui a ripetercelo.

E allora ci si chiede se non sia il caso di allargare lo sguardo, al di là del brutto giornalismo che si ferma su Cira che è diventato Ciro, e domandarsi quanto tempo ancora debba passare perché il diritto di amare, amare senza creare nessun danno agli altri, diventi finalmente una libertà da praticare senza paura e senza ritorsioni. Comunque vada a finire la vicenda giudiziaria.

L’articolo Dramma di Caivano, il diritto di amarsi di Ciro e Paola e le donne vissute come proprietà privata proviene da Il Riformista.

Fonte

La classe dirigente sommersa

Insegnanti, bidelli, autisti dei mezzi pubblici. La pandemia ha evidenziato l’importanza del ruolo pubblico di questi ed altri lavoratori. E la loro responsabilità nel dettare la crescita sociale del Paese che verrà

Primo giorno di scuola in buona parte d’Italia. Fioccano i commenti, le interviste a volte un po’ leziose a genitori e ai ragazzi, si moltiplicano i racconti e accade che moltissime scuole in Italia, ancora una volta, si siano arrangiate e abbiano fatto i salti mortali per applicare regole incerte (e piuttosto contestabili) e protocolli che spesso rimangono lettera morta perché si scontrano con una realtà che è spesso molto diversa da quella discussa in certi ambienti ministeriali.

Però è stato il primo giorno di scuola e ieri, nell’aria, si respirava la speranza che la scuola riparta davvero, che un po’ di normalità possano godersela anche i nostri figli, quei giovani che per mesi sono scomparsi dal radar dell’informazione per tornarci solo qualche settimana nella veste degli untori.

Però il primo giorno di scuola ci racconta ancora una volta qualcosa che sembra difficile raccontare: gli insegnanti, gli operatori della scuola, chi si occupa degli spostamenti dei nostri ragazzi, chi si occupa della loro sicurezza (mica solo in tempi di pandemia) e chi si occupa della loro istruzione e della loro formazione culturale (non solo in tempo di pandemia) sono classe dirigente di questo Paese, nel seno pieno del termine, sono quelli che hanno la responsabilità di dettare la crescita sociale (e politica e economica) del Paese che verrà. E ieri, complice il coronavirus, ci si è accorti che un pezzo importante delle famiglie sta negli istituti scolastici, quei palazzotti spesso decadenti a cui si fa sempre troppo poco caso.

Ricordo quando uno dei miei figli andò al suo primo giorno di scuola, lo ricordo perfettamente. Ricordo l’arrivo all’istituto, era il periodo delle minacce, della paura e della scorta e ricordo quei minuti all’ingresso mentre lo tenevo per mano, Ricordo perfettamente che un collaboratore scolastico venne fuori, da me e lui e i carabinieri e prese per mano mio figlio per portare all’interno dell’istituto e mi ricordo di avere pensato che quell’uomo in quel momento era il più importante rappresentante dello Stato che interveniva nella mia vita, una responsabilità enorme. E avrei voluto dirglielo.

Il punto è questo e non vale solo per la scuola: ci ritroviamo nelle nostre funzioni e nelle nostre professioni a avere responsabilità da classe dirigente e non ce ne rendiamo conto, abbiamo un importante ruolo pubblico, ognuno nel suo mestiere e se ce ne assumessimo l’orgoglio e le responsabilità questo sarebbe un Paese sicuramente più solidale e più unito. E la smetteremmo di delegare, e vedremmo anche quanta orgogliosa responsabilità c’è intorno. Nonostante certa classe dirigente.

Buon martedì.

Commenti

commenti

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Willy ha pagato lo scotto più atroce, ma la sua morte può cambiare la percezione del razzismo in Italia

Raccontiamolo dappertutto il sorriso di Willy Monteiro Duarte. Ascoltiamole bene le parole degli amici che lo raccontano, riportiamo dappertutto il racconto di quelli che lo conoscevano, la descrizione del suo datore di lavoro che racconta come Willy fosse un aiuto cuoco che svolgeva con serietà e passione il suo lavoro, come i suoi amici lo raccontano pieno di altruismo e di allegria. Raccontiamo la vita diversa che aveva questo ragazzo esile, che voleva fare il calciatore e giocare nella Roma che era la sua squadra del cuore, che ha fatto tutto quello che non si dovrebbe fare in questo tempo di menefreghismo che è diventato un vizio sociale, in questo tempo in cui conviene sempre farsi “i fatti propri” e invece lui, Willy, ha deciso che quella rissa andasse sedata, che quel suo amico andasse aiutato, che avrebbe potuto ritardare anche qualche minuto pur di soffocare una violenza che invece poi gli si è tutta rivoltata contro mentre per terra per interminabili minuti chiedeva di smettere, gridava di non riuscire più a respirare e l’orda di calci e di pugni gli fracassava la vita.

Raccontiamolo perché Willy, che piaccia o no, è il simbolo di un’Italia che ha bisogno di esempi di umanità che abbiano la pelle nera, perché siamo un Paese intossicato tutti i giorni (anche da quelli che in queste ore stanno facendo le vittime) da una narrazione che ci propone gli stranieri, specialmente neri, come pericoli da cui dobbiamo sfuggire, che insiste nell’urlacciare per ogni ruba galline che non sia italiano e invece in questo caso abbiamo un italiano (perché Willy era italiano, nonostante qui da noi si insista a credere che un italiano debba per forza essere bianco come professa qualche cretino anche in queste ore) che ci ha dato una lezione di cittadinanza, che ha finalmente invertito la rotta spezzando il racconto di chi insiste ogni giorno, goccia dopo goccia, a dirci che tutti quelli che arrivano siano sporchi e cattivi.

Forse servirà a poco, forse non servirà a niente, ma quel sorriso di Willy potrebbe cambiare, forse lo sta già facendo, la percezione tossica di un Paese che con il razzismo non ci ha mai fatto i conti davvero e che ora si ritrova a non poter non empatizzare con quel giovane ragazzo. Chissà che alla fine possa almeno servire, la morte di Willy, oltre ad avere la giustizia che invocano tutti, anche un nuovo atteggiamento generale, che una morte così orrenda valga più di mille numeri e di mille dati e che dica che continuiamo a temere i mostri sbagliati.

Leggi anche: 1. Il vuoto politico e sociale produce i mostri inumani di Colleferro (di G. Gambino) / 2. Se a uccidere un bianco fossero stati 4 neri sarebbe scoppiato il finimondo (di G. Cavalli) / 3. Omicidio Willy, i familiari degli arrestati: “Era solo un immigrato, non hanno fatto niente di male” / 4. “Per noi era come un figlio, sarebbe diventato un bravo chef”: parla il direttore dell’hotel dove lavorava Willy

L’articolo proviene da TPI.it qui

Salutavano sempre

Gabriele Bianchi, uno dei fratelli arrestati per l’omicidio di Willy Monteiro Duarte, scriveva sul suo profilo Facebook (lo riporto letterale), è qualcosa di anni fa (9) perché purtroppo i profili sono stati immediatamente cancellati e non abbiamo materiale a disposizione. Scrive Gabriele Bianchi:

«lurido egizziano de merda te possa da na paradise secca pozzi rimane senza respiro, pozzi crepa lentamente, spero che qualcuno ti venga a cercare e che ti affoghi nella merda schifosissimo essere figlio di puttana se c’è ancora la guerra nel tuo paese di merda spero che ti uccidono adesso bastardoooooooo»

Risponde il fratello Alessandro, il fratello maggiore, estraneo alla vicenda della morte, quello che ieri in un’intervista ci ha detto che ha insegnato ai suoi fratelli “le regole, il rispetto per l’avversario, la disciplina” e che “il fascismo e il razzismo sono cose che non esistono. Politica non ne hanno mai fatta e in palestra si allenano con ragazzi romeni, albanesi, nordafricani”:

«egiziano de merdaa che tu possa bruciare all’inferno mi piacerebbe averti 10 minuti tra le mani il pezzo più grande rimarrebbe un tuo occhio negraccio de merda»

Gli risponde Gabriele Bianchi:

«aahahahahahaha che negro de merda… magari ora sta sotto fosso morto!!!».

I genitori dei fratelli Bianchi in caserma avrebbero dichiarato: «Cosa avranno mai fatto?! In fondo era solo un extracomunitario…».

Forse sarebbe il caso di dircelo chiaramente che la violenza (scritta, simulata, proposta, mimata, recitata) poi alla fine diventa azione. Forse sarebbe il caso di dirci, al di là delle risultanze delle indagini e del processo, che l’ambiente da cui escono i picchiatori di Willy è veramente tanto diverso da come ce lo vorrebbero raccontare, tutto tranquillo e sereno.

Basta farli parlare, si dipingono da soli. Di razzismo qui se ne sente l’odore, dappertutto.

Buon mercoledì.

Commenti

commenti

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.