Vai al contenuto

Pakistan

La marcia dei Mille, disperati

Nel gelo della Bosnia da settimane ci sono un migliaio di migranti che seguono la “rotta balcanica”. A pochi chilometri c’è la Croazia, la porta d’ingresso dell’Europa, ma chi prova a passare viene violentemente picchiato, spesso derubato, seviziato e rimandato indietro

Qualcuno di molto furbo e poco umano deve avere capito da tempo, dalle parti del cuore del potere d’Europa, che il primo trucco per sfumare l’emergenza umanitaria legata ai flussi migratori sia quello di fare sparire i migranti. Per carità, non è mica una criminale eliminazione fisica diretta, come invece avviene impunemente in Libia con il silenzio criminale proprio dell’Europa, ma se i corpi non sbarcano sulle coste, non si fanno fotografare troppo, non si mischiano ad altri abitanti, non rimangono sotto i riflettori allora il problema si annacqua, interessa solo agli “specializzati del settore” (come se esistesse una specializzazione in dignità dell’uomo) e l’argomento, statene sicuri, rimane relegato nelle pagine minori, nelle discussioni minori, sfugge al chiassoso dibattito pubblico.

In fondo è il problema dei naufragi in mare, di quelle gran rompiballe delle Ong che insistono a buttare navi nel Mediterraneo per salvare e per essere testimoni, che regolarmente ci aggiornano sui resti che galleggiano sull’acqua o sulle prevaricazioni della Guardia costiera libica o sui mancati soccorsi delle autorità italiane.

Nel gelo della Bosnia da settimane ci sono un migliaio di persone, migranti che seguono la cosiddetta “rotta balcanica”, che si surgelano sotto il freddo tagliente di quei posti e di questa stagione, che appaiono nelle (poche) immagini che arrivano dalla stampa in fila emaciate con lo stesso respiro di un campo di concentramento in un’epoca che dice di avere cancellato quell’orrore.

Lo scorso 23 dicembre un incendio ha devastato il campo profughi di Lipa, un inferno a cielo aperto che proprio quel giorno doveva essere evacuato, e le persone del campo (nella maggior parte giovani di 23, 25 anni, qualche minorenne, provenienti dall’Afghanistan, dal Pakistan o dal Bangladesh) sono rimaste lì intorno, tra i resti carbonizzati dell’inferno che era, in tende di fortuna, dentro qualche casa abbandonata e sgarruppata, abbandonati a se stessi e in fila sotto il gelo per accaparrarsi il cibo donato dai volontari che anche loro per l’ingente neve in questi giorni faticano ad arrivare.

A pochi chilometri c’è la Croazia, la porta d’ingresso dell’Europa, ma chi prova a passare, indovinate un po’, viene violentemente picchiato, spesso derubato, seviziato e rimandato indietro. Gli orrori, raccontano i cronisti sul posto, avvengono alla luce del sole perché funzionino da monito a quelli che si mettono in testa la folle idea di provare a salvarsi. E le violenze, badate bene, avvengono in suolo europeo, di quell’Europa che professa valori che da anni non riesce minimamente a vigilare, di quell’Europa che non ha proprio voglia di spingere gli occhi fino ai suoi confini, dove un’umanità sfilacciata e disperata si ammassa come una crosta disperante.

«L’Ue non può restare indifferente – dice Pietro Bartolo, il medico che per trent’anni ha soccorso i naufraghi di Lampedusa e oggi è eurodeputato -. Questa colpa resterà nella storia, come queste immagini di corpi congelati. Che fine hanno fatto i soldi che abbiamo dato a questi Paesi perché s’occupassero dei migranti? Ai Balcani c’è il confine europeo della disumanità. Ci sono violenze inconcepibili, la Croazia, l’Italia e la Slovenia non si comportano da Paesi europei: negare le domande d’asilo va contro ogni convenzione interazionale, questa è la vittoria di fascisti e populisti balcanici con la complicità di molti governi».

È sempre il solito imbuto, è sempre il solito orrore. Subappaltare l’orrore (le chiamano “riammissioni” ma sono semplicemente un lasciare rotolare le persone fuori dai confini europei) facendo fare agli altri il lavoro sporco. Ma i marginali hanno il grande pregio di stare lontano dal cuore delle notizie e dei poteri. E molti sperano che il freddo geli anche la dignità, la curiosità e l’indignazione.

Buon mercoledì.

Commenti

commenti

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Ingiusti perfino nel vaccino

Nove persone su dieci non riusciranno a vaccinarsi entro il prossimo anno contro il Covid-19 in almeno 67 Paesi a basso reddito, denuncia People’s vaccine alliance

Ne dovevamo uscire migliori ne usciremo probabilmente vaccinati. Noi. Noi saremo vaccinati perché il caso ha voluto che nascessimo in quella parte di mondo che se lo può permettere, eppure proprio durante la pandemia (che è stata e che continua a essere globale) abbiamo scritto, ascoltato e discusso centinaia di volte sull’esigenza di garantire una copertura vaccinale che fosse solidale e non seguisse solo secondo le logiche di mercato. I dati, per ora, dicono tutt’altro.

I numeri ce li dà People’s vaccine alliance, l’organizzazione formata da Amnesty international, Frontline aids, Global justice now e Oxfam: secondo le loro stime nove persone su dieci non riusciranno a vaccinarsi entro il prossimo anno contro il Covid-19 in almeno 67 Paesi a basso reddito.

Il ruolo del razziatore, manco a dirlo, spetta ovviamente all’Occidente che è riuscito ad accaparrarsi in tempo tutte le dosi che servono. I Paesi ricchi con appena il 14% della popolazione mondiale si sono già assicurati il 53% dei vaccini più promettenti: il Canada addirittura è riuscito a ottenere dosi in tale quantità da poter vaccinare ogni cittadino cinque volte, mentre l’Unione europea 2,3 volte.

Ben 67 Paesi a reddito medio-basso e basso rischiano di essere lasciati indietro sebbene 5 – Kenya, Myanmar, Nigeria, Pakistan e Ucraina – abbiano registrato quasi 1,5 milioni di contagi. «A nessuno dovrebbe essere impedito di ottenere un vaccino salvavita a causa del Paese in cui vive o della quantità di denaro che possiede», dice Sara Albiani di Oxfam Italia: «Senza un’inversione di marcia, miliardi di persone in tutto il mondo non riceveranno un vaccino sicuro ed efficace contro il Covid-19 negli anni a venire».

E a proposito di vaccini ha ragione Heidi Chow, di Global Justice Now quando dice che «tutte le case farmaceutiche e gli istituti di ricerca che stanno lavorando allo sviluppo di un vaccino devono condividere i dati, il know-how tecnologico e i diritti di proprietà intellettuale in modo che sia prodotto un numero sufficiente di dosi sicure ed efficaci per tutti. I governi devono anche garantire che l’industria farmaceutica anteponga la vita delle persone al profitto».

Non è una questione da poco: sull’equità della distribuzione del vaccino si gioca la credibilità mondiale e lo spirito di solidarietà mondiale. Quello che qualcuno diceva che sarebbe arrivato e invece, non è una sorpresa, non c’è. Oppure quello che gli altri dicono che non sia importante, sempre per quella vecchia storia di essere nati dalla parte giusta del mondo.

Notate: un argomento così enorme viene discusso pochissimo, proprio nel momento in cui tutti discutono delle loro piccole facezie. Tutto così gretto, tutto così basso, tutto così ingiusto.

Buon giovedì.

Commenti

commenti

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Il fascismo non esiste. Miliardesima puntata

Alba Dorata, il partito greco di estrema destra, con il leader ammiratore di Hitler, è un’organizzazione criminale. Lo ha dichiarato il Tribunale di Atene con una sentenza epocale

Brutta fine gli amici neofascisti di Alba Dorata, il partito di estrema destra greco che è arrivato a essere addirittura la terza forza politica del Paese e che ieri, con una sentenza epocale e che dovrebbe essere un monito per tutti, è stato dichiarato a tutti gli effetti un’organizzazione criminale. Sono ben sette gli ex deputati, tra cui anche il leader Nikos Michaloliakos che sono stati giudicati boss dediti all’organizzazione e alla gestione di un’organizzazione criminale che si è travestita da forza politica e che è riuscita addirittura a prendere una caterva di voti. Anche per gli altri ex parlamentari non è finita bene visto che sono stati condannati comunque per avere “partecipato” alla banda. Giorgos Roupakias, membro del partito, è stato condannato per l’omicidio del rapper antifascista Pavlos Fyssas nel 2013, l’evento che ha di fatto aperto le indagini.

Forse conviene anche ricordare che durante il processo (68 le persone processate) si è anche valutata la serie di violenze che sono state perpetrate nel corso degli anni, centinaia di aggressioni ai danni di attivisti antifascisti, di immigrati, di esponenti di sinistra, di omosessuali. Membri di Alba Dorata erano già stati giudicati colpevoli per l’uccisione ad Atene di un fruttivendolo pakistano, Ssazad Lukman, nel gennaio 2013. L’organizzazione è accusata anche del tentato omicidio di Abouzid Embarak, un pescatore egiziano, nel giugno 2012.

«Giornata storica per la giustizia in Grecia e in Europa: il leader e altri sei alti funzionari di Alba Dorata (ex parlamentari) dichiarati colpevoli di far parte di un’organizzazione criminale. La violenza razzista e i crimini d’odio non possono e non devono più essere tollerati», ha scritto Amnesty International.

Forse conviene anche ricordare che durante il processo per difendersi Michaloliakos, 62 anni, negazionista dell’Olocausto e ardente ammiratore di Hitler, ha descritto Alba Dorata come un partito patriottico.

Forse vale anche la pena ricordare che il processo tenuto in Grecia è di fatto il più grande processo contro un partito di ispirazione fascista dai tempi del processo contro i nazisti a Norimberga dopo la Seconda guerra mondiale.

Questo per tutti quelli che dicono che “il fascismo non esiste”. Qui siamo alla miliardesima puntata, più o meno.

Buon giovedì.

Commenti

commenti

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Dramma di Caivano, il diritto di amarsi di Ciro e Paola e le donne vissute come proprietà privata

È stata Cira, anzi no, è stato Ciro che però era Cira e che era una trans, poi si correggono è stato un trans, poi qualcuno che scrive che fosse un amore gay, addirittura un telegiornale nazionale in prima serata, quello spicchio di tempo che dovrebbe essere pedagogico oltre che informativo e l’attenzione di troppi giornali e telegiornali e troppi commentatori va a finire tutta lì, sulla transizione di Ciro Migliore e la morte di Maria Paola Gaglione, morta a causa di un inseguimento che ha ribaltato la motocicletta su cui Maria Paola viaggia finisce quasi in secondo piano, è troppo ghiotto il piatto del trans per fermarsi alla cronaca e alla narrazione dei fatti e così, ancora una volta, oltre al lutto si aggiunge il dolore e la sofferenza di una stampa che sembra non avere le parole per raccontare la realtà che ci circonda, che ancora incespica nel raccontare il presente e che ancora punta il dito sulla vittima piuttosto che sul presunto colpevole.

I fatti, intanto: Maria Paola Gaglione, 22enne di Caivano, ama Ciro Migliore, un uomo trans, nato biologicamente donna ma in transizione verso il sesso maschile. I due sono in motorino e il fratello Michele comincia a inseguirli. Il fratello non sopportava la relazione tra i due: «Non volevo ucciderla, ma solamente darle una lezione», dice il fratello agli inquirenti che lo accusano di morte in conseguenza di altro reato e di violenza privata. Ieri il gip ha convalidato l’arresto. «L’aveva infettata», dice lui parlando della sorella e del suo amore. Mentre li inseguiva urlava minacce di morte. Quando avviene l’incidente (le cause sono tutte ancora da accertare e al vaglio degli inquirenti) Maria Paola Gaglione rimane uccisa sul colpo mentre Ciro è sanguinante a terra e comincia a essere pestato dal fratello. A completare il quadro ci sono poi le voci della famiglia, i genitori di Maria Paola giustificano il fratello dicendo in diverse interviste che il giovane sicuramente non voleva speronare ma che il gesto era di “aiuto” per quella sorella e la sua relazione non accettata.

Si tratta, per l’ennesima volta, di una donna che viene vissuta come proprietà privata (in questo caso dal suo fratello maggiore) e che non viene considerata libera di vivere la sua relazione perché l’amore che nutriva per il suo compagno non rientrava nei canoni tradizionali di una famiglia che, lo dice bene don Patriciello che conosce i protagonisti, «non avevano gli strumenti culturali» per affrontare una situazione del genere. Siamo di fronte, una volta ancora, a un femminicidio (quanto preterintenzionale e quanto volontario lo deciderà ovviamente il processo) in cui perde la vita una donna che è stata giudicata da un contesto che non ha l’educazione sentimentale per affrontare la complessità dell’amore che spesso segue linee ben diverse dai canoni tradizionali.

Per questo in molti in queste ore continuano a chiedere che arrivi al più presto quella legge contro l’omotransfobia che giace da mesi in commissione (e che ha diviso il Parlamento): le associazioni Lgbt locali tra l’altro sottolineano come Ciro fosse vittima dell’odio e delle minacce da parte della famiglia di Maria Paola. Il tragico evento accaduto qualche giorno fa è solo la coda di un odio che parte da lontano e che si è perpetrato per mesi. Poi c’è la questione, sempre poco raccontata e spesso raccontata in modo piuttosto distorto di queste famiglie che si ritengono proprietarie della vita e delle scelte dei propri figli: Sana Chhema, una 25enne pakistana viveva a Brescia dove aveva studiato e dove lavorava ed è stata uccisa dal padre e dal fratello che non accettavano il fatto che si fosse innamorata di un ragazzo italiano, era l’aprile del 2018 e nel 2016 Nina Saleem, ventenne pakistana, venne sgozzata dal padre, dallo zio e da due cugini perché aveva un fidanzato italiano e perché vestiva troppo all’occidentale. In quel caso fu facile addossare le colpe degli omicidi all’arretratezza delle famiglie straniere e sentirsi assolti come se fossero fatti di cronaca lontani da noi eppure la trama, il nocciolo della storia anche in questo caso è lo stesso, con cognomi italianissimi.

E a proposito di arretratezza forse sarebbe il caso anche di ricordare che Caivano, luogo in cui si è consumata la tragedia, è uno dei luoghi con i più alti indici di dispersione scolastica e con il più basso indice di presenza di nidi a tempo pieno d’Italia. Perché forse oltre alla legge servirebbe anche un’educazione sentimentale e una formazione culturale di cui si continua a discutere e che continua a non essere un serio progetto politico. Serve la legge, certo, ma serve la cultura. E ancora una volta siamo qui a ripetercelo.

E allora ci si chiede se non sia il caso di allargare lo sguardo, al di là del brutto giornalismo che si ferma su Cira che è diventato Ciro, e domandarsi quanto tempo ancora debba passare perché il diritto di amare, amare senza creare nessun danno agli altri, diventi finalmente una libertà da praticare senza paura e senza ritorsioni. Comunque vada a finire la vicenda giudiziaria.

L’articolo Dramma di Caivano, il diritto di amarsi di Ciro e Paola e le donne vissute come proprietà privata proviene da Il Riformista.

Fonte

I maestri della “vita reale”

L’imprenditore Flavio Briatore ha detto che quelli al governo vivono in una bolla e non hanno idea della vita reale

Ieri è rimbalzato in rete un video di un maestro di vita reale, non so se ne conoscete qualcuno, sono quelli che hanno un’opinione di tutto perché trattano tutte le sfumature e tutte le situazioni della complessa realtà come fosse un unico blocco di cemento, immodificabile e inamovibile, e di solito sputano sentenze inappellabili accusando gli altri di essere “fuori dal mondo”, dicono proprio così, come se ci fosse un mondo in cui stare dentro e uno in cui stare fuori. I maestri della vita reale di solito hanno il vizio di categorizzare il mondo in buoni e cattivi, ricchi e poveri, lavoratori e nullafacenti, belli e brutti, bianchi e neri, comunisti e liberal (dicono così) e poi tutto un resto di etichette che non vale nemmeno la pena trascrivere tutte per non rubare troppo spazio a questo articolo e alla vostra mattinata.

Il maestro della vita reale del video che girava ieri era Flavio Briatore che tutto baldanzoso dichiarava: «Quelli al governo vivono in una bolla, non hanno idea della vita reale!» e poi dava tutto un elenco di consigli su come governare l’Italia, come fare funzionare questo Paese e come rendere felici tutti gli italiani. La cosa curiosa è che i maestri della vita reale vengono invitati più o meno sempre negli stessi programmi e piacciono più o meno sempre agli stessi politici. Briatore è un imprenditore con sede legale a Londra, sede fiscale a Dublino, produzione in Pakistan, residenza a Montecarlo ed è molto curioso che ci dia lezioni sulla “vita reale” in Italia dall’alto delle sue bollicine extra lusso. Ti aspetteresti che un maestro di vita reale sia qualcuno che fatica, che si porta addosso le sue cicatrici, che riconosce di avere compiuto errori e cose buone e invece i maestri di vita reale che ci propinano sono quelli che vorrebbero convincerci che nella vita o si vince o si perde e chi perde è un fardello di cui bisogna liberarsi.

Facciamoci un favore, curiamo l’ecologia sociale, liberiamoci dei maestri di vita reale e occupiamoci della nostra vita che, reale o no, è quello di cui ci dobbiamo occupare.

Buon martedì.

Commenti

commenti

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Abbas intanto è recluso, per niente

Abbas Mian Nadeem, un ragazzo pakistano con regolare permesso di soggiorno, è finito per errore nel Cara di Isola Capo Rizzuto insieme a migranti trovati positivi al Covid. Lui è sieropositivo, malato di epatite, immunodepresso e in quel luogo la sua salute è fortemente a rischio

È una storia che inizia con una pesca a strascico solo che si pescano uomini, mica pesci. L’hanno raccontata Alessia Candito e Floriana Bulfon per Repubblica e inizia a Amantea, in Calabria, dove i giorni scorsi molti cittadini sono scesi in piazza per protestare contro il trasferimento di alcuni migranti trovati positivi al Covid. Immaginate la scena: arrivano i mezzi per trasferire 11 persone da Amantea al Cara di Isola Capo Rizzuto. La struttura di Amantea è presidiata dai militari e molta gente esulta per essere riuscita a liberarsi dal peso di questi negri, sporchi e forse malati. Ma fin qui la storia non stupisce, è una storia che abbiamo già sentito in questi anni.

I militari arrivano a raccogliere le persone e a un certo punto una donna da una finestra si mette a urlare «Anche lui! Anche lui! Prendete anche lui!» e indica un altro ragazzo, lì nei pressi della struttura, anche lui nero per cui nella pesca a strascico il nero va con il nero. Prendono anche lui.

Lui è Abbas Mian Nadeem, un ragazzo pakistano con regolare permesso di soggiorno che vive da qualche anno a Amantea, si arrangia con qualche lavoretto e si trovava in quel momento in quel posto perché sa bene cosa significhi attraversare il mare e quindi aveva deciso di portare supporto e qualcosa di utile ai suoi compagni di sventura. Una persona legittimamente sul suolo italiano e legittimamente impegnata a portare solidarietà. Nel dubbio l’hanno caricato ed è finito anche lui al Cara di Isola Capo Rizzuto, una struttura in condizioni vergognose dove qualche materasso dovrebbe sembrare un letto. Il Cara di Isola Capo Rizzuto, tanto per capirsi, è lo stesso che stava nelle mani del clan di ‘ndrangheta Arena con un prete come prestanome.

All’arrivo al Cara qualcuno si accorge che le persone sono 12 rispetto alle 11 programmate, si prova a fare notare l’errore, Mian Nadeem prova a spiegarsi non accade niente. Niente. Il ragazzo, illegalmente recluso, contatta giornalisti e associazioni ma non si riesce a sbrogliare questa kafkiana situazione. Ma c’è di più: Mian Nadeem è sieropositivo e malato di epatite quindi immunodepresso e in questo momento sta con persone in quarantena per rischio coronavirus. Immaginate l’odore della paura.

Lui ha girato anche un video per mostrare le terribili condizioni in cui si ritrova ma ieri hanno tolto l’elettricità e non riesce nemmeno a caricare il suo telefono per comunicare con l’esterno. L’associazione La Guarimba Film Festival si è mossa per chiedere un intervento della Croce Rossa e della Questura. Per ora tutto tace. Abbas intanto è recluso, per niente.

Il Paese che siamo.

Buon martedì.

Commenti

commenti

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Le macerie della pandemia nel mondo sono i bambini

Scusate se mi permetto di non seguire la polemica di qualche presidentessa di regione che cerca di lucrare su qualche decina di migranti, mi pare davvero troppo spendere qualche riga per una regione con un sistema sanitario completamente devastato dalla politica che si preoccupa di degli arrivi via mare mentre invoca a piene mani e senza controlli quelli via terra, ma ieri è uscito un rapporto di Save The Children che merita attenzione perché parla di un argomento che sfugge da qualsiasi discussione dei cosiddetti grandi del mondo e che rende perfettamente l’impatto della pandemia nel futuro un po’ più largo della visione del nostro semplice quartiere.

Dice il rapporto ‘Save our education – Salvate la nostra educazione’ che a oggi nel mondo sono 1,2 miliardi gli studenti colpiti dalla chiusura delle scuole e che la crisi provocata dal Covid-19 potrebbe costringere almeno 9,7 milioni di bambini a lasciare la scuola per sempre entro la fine di quest’anno, mentre milioni di altri bambini avranno gravi ritardi nell’apprendimento.

L’indice prende in considerazione in particolare tre parametri: il tasso di abbandono scolastico precedente all’emergenza, le diseguaglianze di genere e di reddito tra i bambini che lasciavano la scuola e il numero di anni di frequenza scolastica. L’analisi di questo indice mette in evidenza come in 12 paesi – Niger, Mali, Ciad, Liberia, Afghanistan, Guinea, Mauritania, Yemen, Nigeria, Pakistan, Senegal e Costa d’Avorio – il rischio di incremento di abbandono scolastico sia estremamente elevato. Anche in questo caso sono le donne quelle che rischiano di subire di più: sono 9 milioni le bambine in età di scuola primaria che rischiano di non mettere mai piede in una classe, a fronte di 3 milioni di bambini.

Ha detto Inger Ashing, ceo di Save the Children: «Circa 10 milioni di bambini potrebbero non tornare mai a scuola: si tratta di un’emergenza educativa senza precedenti. Proprio per questo i governi devono investire urgentemente nell’apprendimento, mentre al contrario siamo a rischio di impareggiabili tagli di bilancio, che vedranno esplodere le disparità esistenti tra ricchi e poveri e tra ragazzi e ragazze. Sappiamo che i bambini più poveri ed emarginati che erano già i più a rischio hanno il danno maggiore, senza accesso all’apprendimento a distanza o qualsiasi altro tipo di istruzione, per metà dell’anno accademico».

È qualcosa di spaventosamente mostruoso, una di quelle situazione di cui non ci occupiamo perché ci appare così grande rispetto ai nostri piccoli problemi locali e che poi invece torna qui, sulle nostre coste. No?

Buon martedì.

Commenti

commenti

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

La storia di Adnan, il ‘George Floyd italiano’ ucciso a coltellate in silenzio

Adnan Siddique è stato ucciso la sera del 3 giugno nel suo appartamento, in via San Cataldo a Caltanissetta. Viveva in Pakistan, a Lahore, una cittadina di 11mila abitanti con suo padre, sua madre e i suoi 9 fratelli. Adnan era la punta di diamante su cui la sua famiglia aveva investito tutto, tutto quel poco che ha, perché trovasse fortuna. Aveva 32 anni e in Italia lavorava come manutentore di macchine tessili. Era molto conosciuto in città, tutte le mattine passava al bar Lumiere per un caffè e i gestori del locale lo raccontano come un ragazzo pieno di sogni e di preoccupazioni. Quali preoccupazioni? Avere cercato giustizia per un gruppo di connazionali che lavoravano nelle campagne da sfruttati come capita in tutta Italia, da nord e sud. Adnan si era messo in testa di liberare i suoi amici dallo sfruttamento e aveva addirittura accompagnato uno di loro a sporgere denuncia. Troppo, per qualcuno che evidentemente continua a credere che la schiavitù sia qualcosa di cui scrivere e parlare solo quando si svolge lontano da noi. Era stato minacciato più volte e non era tranquillo. Aveva anche denunciato le minacce ma evidentemente non è bastato.

Adnan è stato ucciso con cinque coltellate: due alle gambe, una alla schiena, una alla spalla e una al costato. Quella al costato, secondo la perizia sul cadavere, gli è stata fatale. Sono bastate poche ore anche per trovare l’arma, un coltello di circa 30 centimetri. Ci sono anche quattro pakistani fermati per l’omicidio, un quinto è accusato di favoreggiamento. «Una volta è stato pure in ospedale – racconta la famiglia Di Giugno, titolare del bar frequentato da Adnan – lo avevano picchiato». Jaral Shehryar, pakistano di 32 anni, titolare di una bancarella di frutta e verdura, racconta: «Era bravissimo, gentile, quelli che lo hanno ucciso no. Si ubriacavano spesso. Qualche volta andavano a lavorare nelle campagne ma poi passavano il tempo ad ubriacarsi e fare baldoria». Anche suo cugino Ahmed Raheel, che vive in Pakistan e con cui Adnan Siddique si era confidato, sembra avere le idee chiare: «Aveva difeso una persona e lo minacciavano per questo motivo – riferisce all’Ansa – Voleva tornare in Pakistan per la prima volta dopo tanti anni per una breve vacanza ma non lo rivedremo mai più. Adesso non sappiamo neanche come fare tornare la salma in Pakistan. Noi siamo gente povera, chiediamo solo che venga fatta giustizia».

Il presidente dell’Arci di Caltanissetta Giuseppe Montemagno chiede che «si faccia piena luce sui motivi alla base dell’omicidio di Adnan Siddique e sulla diffusione dello sfruttamento dei braccianti agricoli nelle campagne tra le provincie di Caltanissetta ed Agrigento. Oltre ai responsabili materiali – chiede il presidente dell’Arci – dell’atroce delitto chiediamo agli inquirenti di accertare quali siano le proporzioni del fenomeno del caporalato nel territorio nisseno ed individuare eventuali altri responsabili». Perché la storia di Adnan, al di là di quello che accerterà l’autorità giudiziaria sta tutta nelle pieghe di un caporalato che sembra non avere paura di nessuno, che continua a cavalcare impunito interi settori dell’agroalimentare e che tratta gli stranieri in braccia. Tutti sono solo le loro braccia: le braccia per raccogliere la frutta e la verdura e le braccia da armare per punire un connazionale che ha deciso di alzare troppo la testa.

E in questi tempi in cui da lontano osserviamo gli Usa che si ribellano al razzismo forse sarebbe il caso di cominciare a osservare anche le profilazioni che avvengono qui da noi, dove l’essere pakistano ti relega al campo o sul cantiere senza il diritto di avere diritti, dove una storia di violenza che si trascina da tempo finisce per essere sottostimata dalle Forze dell’ordine e da certa stampa, dove un omicidio non merita nemmeno troppo di finire in pagina perché anche se parla un’altra lingua in fondo parla di noi. Parla tremendamente di quello che siamo.

L’articolo La storia di Adnan, il ‘George Floyd italiano’ ucciso a coltellate in silenzio proviene da Il Riformista.

Fonte

Quel barbecue di Pasqua laggiù nel Pakistan

Sì, ho volutamente scegliere un titolo forte per il mio #buongiorno di #Left di oggi. E lo rivendico con tutta la forza che sta nelle parole. Comunque se vi interessa altro oltre al titolo l’editoriale è qui. O cliccando sulla straziante foto qui sotto.

lahore

Recessione e mafie (2). Le nuove frontiere del narcotraffico

di Carlo Ruta

Fin qui emerge un dato di fondo. In tutti i continenti, negli ultimi decenni le economie di origine illegale hanno vissuto i trend dei mercati da protagoniste, correlandosi alle Borse come entità finanziarie imprescindibili. È andato stabilizzandosi per ciò stesso il raccordo delle mafie con i maggiori business, dalla speculazione immobiliare all’industria dei metalli, dalle energie naturali e rinnovabili all’acqua. Le classifiche di Forbes, che hanno visto scalare un gran numero di magnati dell’est europeo e asiatico senza passato, oltre che autentici gangster, ne danno la misura. La crisi attuale rischia di aprire tuttavia scenari nuovissimi. Sta sollecitando infatti degli aggiustamenti nelle economie clandestine più forti: il narcotraffico, il commercio di armi, le tratte degli esseri umani. E gli effetti sul sistema potrebbero essere non da poco. Negli ultimi due decenni, è emerso un incremento di tali traffici su scala mondiale, nonostante le attività contrasto venute dai governi. A dispetto altresì delle iniziative di organizzazioni sovranazionali, a partire dall’Onu, che, per esempio, negli ultimi anni novanta ha sollecitato, per la prima volta, alcuni paesi produttori di sostanze stupefacenti, l’Afghanistan e Birmania per l’oppio, Colombia Perù e Bolivia per coca e cannabis, alla soppressione di tali colture in cambio di aiuti. Ma cosa sta accadendo di preciso in questo tempo di crisi? I dati che vanno rendendosi disponibili, offrono già delle indicazioni, a partire appunto dal narcotraffico.

I ritmi di modernizzazione, più o meno convulsi, dell’ultimo mezzo secolo hanno finito per incentivare il consumo di massa di stupefacenti, naturali e sintetici. Balzi decisivi di tale domanda sono andati correlandosi comunque con snodi particolarmente difficili. E quello di oggi è tale. Come documentano le cronache dell’ultimo anno, la recessione, che si vorrebbe considerare un capitolo chiuso, sta generando precarietà e vuoti di futuro in tutti i paesi, ricchi e poveri. Può essere in grado quindi di interagire a vari livelli con il mercato dei narcotici. È presto beninteso per poter comprendere l’incidenza degli eventi odierni sull’evoluzione del medesimo. Ma alcuni dati che emergono dal terreno, non del tutto concordanti con i numeri che di recente sono stati fatti dall’Unodc, Ufficio dell’Onu che sovrintende alla lotta al narcotraffico, appaiono significativi.

Nel Sud America, capoluogo strategico dei narcos, la crisi globale ha fermato cinque anni di crescita. Sono state colpite le economie del rame, del petrolio, di altre materie prime. È stato penalizzato l’interscambio con gli Stati Uniti. Milioni di persone sono finite quindi in povertà. Il narcotraffico continua però a progredire. Le aree di coltivazione di cannabis e coca lungo le Ande vanno estendendosi, malgrado le politiche di contrasto dei governi. La produzione di oppio ed eroina si conferma in attivo. In tutte le regioni aumenta infine il consumo di narcotici, mentre migliorano le facoltà di produzione di droghe sintetiche. È quanto emerge da un rapporto pubblicato nel marzo 2009 dalla Latin American Commission on Drugs and Democracy, diretta da Fernando Cardoso, già presidente del Brasile, César Gaviria, già presidente della Colombia, Ernesto Zedillo, già presidente del Messico. È quanto affiora altresì da ricerche specialistiche. Nei mesi scorsi, su incarico dell’associazione Libera, un team di economisti delle università di Bologna e Trento è intervenuto sulla situazione in Colombia, passando al vaglio 30 mila dati, oggettivi, tratti soprattutto dagli archivi giudiziari. Ha concluso che nel 2008 sono stati prodotti in quel paese da 2.000 a 4.500 tonnellate di cocaina, a fronte di una stima dell’Unodc di appena 600.

A dare conto delle cose sono altresì le emergenze civili sul terreno, che vengono riconosciute a tutti i livelli. Nelle favelas brasiliane, dove arrivano dalla Colombia grandi quantitativi di stupefacenti, i regolamenti fra bande, spesso con vittime innocenti, hanno raggiunto negli ultimi anni picchi inauditi, malgrado le iniziative di contrasto promosse dalla presidenza Lula. In Messico, anello di congiunzione fra le due Americhe, è stata registrata nel 2008 la cifra record di 6 mila uccisioni per affari di droga, mentre in Guatemala, El Salvatore e Venezuela il tasso di omicidi, nello stesso anno, è salito a oltre 100 per 100 mila abitanti, superiore cioè alla media mondiale di ben 16 volte. Per tali ragioni, il presidente dell’Organizzazione degli stati americani, José Miguel Insulza, ha potuto dichiarare che in Sud America il crimine organizzato uccide più della crisi economica e dell’Aids. Secondo il direttore dell’Unodc, Antonio Maria Costa, tali soprassalti di violenza proverebbero che il mercato della cocaina nei paesi latino-americani va contraendosi. In realtà la storia delle mafie, dalla Chicago anni trenta alla Palermo anni settanta, dalla Colombia degli anni ottanta alla Russia degli anni Duemila, indica che gli scoppi di tensione, pur originati da contesti di crisi e di rottura, recano spesso logiche e significati del tutto differenti, correlandosi con poste in gioco che, proprio in determinati frangenti, anziché ridursi, si fanno più attraenti e remunerative.

Alla luce dei fatti, la situazione non appare insomma rassicurante. Tanto più se si tiene conto delle riserve che proprio in questi mesi vanno manifestandosi in tante sedi, pure governative. Nell’ultimo rapporto del Government Accountability Office la guerra ai narcos sudamericani viene presentata come persa, con l’avallo del vice presidente degli Usa Joe Biden, a fronte dei miliardi di dollari che le precedenti amministrazioni hanno erogato ai paesi produttori. L’Office National Drug Control Policy suggerisce quindi svolte radicali, in senso strategico, a dispetto dei freni che permangono negli States. Il convincimento di una partita persa, che un recente sondaggio ha visto condiviso dal 71 per cento degli statunitensi, si fa largo altresì in America Latina, dove con forza sempre maggiore viene reclamata la sostituzione del paradigma, repressivo dalla produzione al consumo, che finora ha ispirato la lotta al narcotraffico. La Commissione di Cardoso, Gaveria e Zedillo ne indica uno nuovo, proponendo di trattare il consumo di droghe come problema di salute pubblica, con mezzi informativi ed educativi. E su tale linea convergono associazioni e altri alti esponenti della politica, come l’ex presidente del Cile Ricardo Lagos, che suggerisce, più espressamente, di legalizzare la cannabis. Orientamenti di questo tipo non mancano del resto nel governo brasiliano di Lula, oltre che nel Senato colombiano, con le rivendicazioni del liberale Juan Manuel Galan, mentre insiste nel programma di Evo Morales, presidente della Bolivia, l’obiettivo di legalizzare il consumo delle foglie di coca, recante radici etniche, per contrastarne il traffico illegale.

In definitiva, il business delle droghe, in Sud America, sta reagendo agli attuali frangenti con conferme e rilanci che risultano impossibili in altri ambiti. Ma non si tratta di un trend localizzato. Andamenti simili vanno registrandosi in ogni altre latitudini, con economie da narcotraffico che stanno riuscendo a imbrigliare i rovesci dei mercati, forti di una domanda che non demorde, di capitali ingenti e condizionanti, di guadagni che restano sicuri a dispetto della war on drugs.

La recessione in Asia va esprimendosi in modo eterogeneo. In Giappone i collassi della domanda, interna ed estera, corroborati dai crolli borsistici degli ultimi anni, stanno frustrando economie dal passato fiorente. Nei paesi del sud-est, dal Laos al Vietnam, riavutisi dal tracollo del 1997 con un iter espansivo che ha raggiunto cifre da miracolo, si conteranno a fine 2009 2 milioni in più di disoccupati. Perfino in India e in Cina, che per certi versi hanno fatto argine al crollo, con il Pil saldamente in attivo, in virtù pure dei cambi monetari a loro favore, si è avvertita la scossa, con una vistosa riduzione dei ritmi di crescita. Eppure le economie della droga, lungo tutto il continente, stanno mostrando di non temere la crisi. Come in America Latina, contano anzitutto sull’abbondanza del prodotto base: nel caso, sulle coltivazioni di papaveri da oppio che ricoprono l’Afghanistan, la Birmania, il Laos, la Thailandia, il Nepal. L’Onu ha conseguito beninteso dei risultati, soprattutto in Laos e in Birmania, dove nel 2008 sono andate distrutte piantagioni per migliaia di ettari. Ma i dati sul terreno sono ben lontani da annunciare svolte, tanto più se si considera che sono gli stati stessi, interlocutori delle Nazioni Unite, a garantire l’esistente, per il tornaconto, diretto o indiretto, che recano nel business, dal traffico in senso stretto al lavaggio di valute. Le movenze del regime di Than Shwe in Birmania sono nel caso esemplari. Le economie di questo tipo beneficiano comunque di altri fatti: l’aumento di produzione di droghe sintetiche, su scala continentale, e una corrispondente crescita nei consumi delle medesime. Non è poco, evidentemente.

Le amfetamine e le metamfetamine contano oggi su una produzione distribuita in tutti i continenti. E ovunque la domanda è sostenuta dal basso prezzo, dalle mode edonistiche, dagli inarrestabili passaparola, probabilmente pure dal disagio, dal deficit di futuro che è proprio delle crisi. Centri strategici ne sono divenuti diversi paesi dell’Europa, ma ancor più il Canada, in cui si confezionano forse i maggiori quantitativi di ecstasy. La diffusione del prodotto asiatico, corroborata appunto da un sensibile aumento di consumo nel continente, costituisce comunque un sintomo. Si consideri un’area di forte concentrazione, quella del Grande Mekong, infeudata ai gruppi che trattano l’oppio: pakistani, thailandesi, indiani, birmani, cinesi. Lungo tale linea, che dallo Yunnan della Cina percorre l’intero territorio del Laos, con riverberi comunque nello Shan birmano, vengono prodotte, in quantità notevolissime, pasticche di crystal meth e di una variante detta ketamina, destinate in buona misura all’estero. Quale può esserne la logica, in una terra che abbonda fino all’inverosimile di papaveri da oppio? Di certo, non è la prova che le droghe tradizionali stiano entrando in crisi, perché il consumo di oppiacei, di eroina in particolare, nei primi mercati al mondo, l’Europa e il Nord America, proprio non demorde. Potrebbe essere invece l’esito di una studiata diversificazione, legata a un orizzonte di domanda che va ampliandosi, con esiti sempre maggiori nei paesi in via di sviluppo, in favore delle droghe meno costose. Il dato testimonia in ogni caso che le economie degli stupefacenti, anche in contesti di crisi, possono essere mosse da logiche aggiuntive ed espansive. E in altre regioni asiatiche le cose vanno appunto in tale direzione.

Un caso emblematico è quello dell’Arabia Saudita. Diversamente che in Iran e in altri stati vicini, in tale paese il narcotraffico ha incontrato nei decenni passati ostacoli che apparivano irriducibili, di tipo culturale anzitutto, per gli stili di vita che vi reggono, legati alla tradizione islamica. Il controllo ferreo delle frontiere sul golfo Persico ha impedito altresì che i grandi deserti della penisola divenissero corridoi di transito degli oppiacei da Oriente a Occidente, contigui a quelli che collegano l’Afghanistan alla Turchia e all’Europa, attraverso le repubbliche ex sovietiche dell’Asia. Negli ultimi anni le cose sono mutate tuttavia in modo dirompente. L’Arabia Saudita risulta essere uno dei paesi in cui più vengono prodotti e si consumano droghe sintetiche, soprattutto ecstasy e amfetamine del tipo captagon. Prova ne è che nel 2007 ne sono stati sequestrati quantitativi record, pari a un terzo di quelli scoperti globalmente, a fronte dell’1 per cento registrato lungo il perimetro arabo nel 2001. Le droghe sintetiche, ma in una misura discreta pure le tradizionali, dal momento che le sfere di produzione e di distribuzione di massima coincidono, stanno intaccando insomma le frontiere più solide dell’Islam. E, sulla scorta dei dati che vanno emergendo, c’è motivo di ritenere che la recessione, pur trattandosi di aree ben compensate dalle economie del petrolio, stia alimentando tale trend.

Vanno giocandosi in sostanza due partite, congiunte. Le droghe tradizionali formano un mercato stabile, che procede oggi senza scosse, si direbbe in modo ritmico, tanto più nei paesi d’Occidente, dove può contare su un consumo inesausto. Il mercato dei prodotti sintetici, che muove già 100 miliardi di dollari all’anno, circa un terzo cioè del giro d’affari globale delle droghe, si manifesta invece, a fronte di minori investimenti, elastico, veloce, in grado di insinuarsi appunto nei paesi e nelle culture più difficili. Le mappe del narcotraffico vanno aggiornandosi di conseguenza, in favore delle aree e delle mafie che meglio stanno riuscendo a combinare tradizione e innovazione. E tutto questo, riguardo al continente asiatico, in cui la coesione fra i due livelli è probabilmente la più riuscita, evoca un mondo strutturato. Nel Grande Mekong, dove oppio e crystal meth formano appunto un continuum, un’offerta articolata, convergono, come si è detto, interessi molteplici: pakistani afgani, nepalesi, birmani, thailandesi. È decisiva comunque l’influenza delle Triadi cinesi, egemonizzate dalle compagini di Hong Kong e Taiwan: tanto più dopo gli accordi che le medesime hanno concluso con Khun Sha, che nel Triangolo d’Oro fa ormai da decenni le regole dell’oppio, forte di un esercito personale di 8 mila uomini. Il quadro degli interessi, per quanto diviso sul terreno, si dimostra in sostanza aperto. Se i potentati militari del narcotraffico, come nel caso dell’United Wa State Army birmano, usano muoversi infatti in spazi assegnati, perlopiù lungo le linee dei conflitti etnici, le Triadi, servite da un complesso di gruppi territoriali, sono in grado di animare scenari ben più ampi.

Non è possibile definire beninteso quali possano essere gli effetti di tale situazione in questo particolare passaggio. Nuovi balzi in avanti nei traffici da Oriente appaiono tuttavia nell’ordine delle cose, possibili, con guadagni aggiuntivi per i signori del Triangolo d’Oro, ma pure per le mafie potenti che hanno scortato i transiti dell’oppio: da quella russa, che con il narcotraffico ha costruito imperi, oggi stimati e quotati nelle maggiori Borse internazionali, a quella turca, che si potrebbe candidare a nuovi ruoli. È il caso di soffermarsi su questo punto. I boss turchi hanno recato sempre una posizione di prim’ordine lungo le vie dell’eroina che dal sud est asiatico puntano in Europa, attraverso i Balcani. Forti della loro posizione mediana, hanno stretto relazioni con le mafie di ambedue i continenti. Hanno stabilito basi in Iran, in Turkmenistan, in Kazakistan, in altre repubbliche dell’Asia Centrale. Rivendicano, in aggiunta, il dominio delle regioni dell’Asia sud-occidentale, decisi a proiettare la loro egida fino al Golfo Persico, mentre non dissimulano le loro mire egemoniche lungo il Mediterraneo, che potrebbero trovare un appoggio decisivo nell’ingresso di Ankara in Unione europea. Quale nesso può correre allora fra tale progetto di dominio e l’erompere delle metamfetamine in Arabia Saudita, come, probabilmente, in altri paesi del Vicino Oriente? Al momento non è possibile rispondere. Comunque va tenuto conto di un dato: in quelle regioni, penetrate appunto da una solida tradizione islamica, non vengono registrate mafie che per disponibilità finanziarie e, soprattutto, facoltà logistiche possano competere con quelle turche.

In definitiva, non sembra che la recessione abbia preso i gruppi del narcotraffico alla sprovvista, sulla scena globale. I capitalismi “normali” in tempi di crisi vanno in affanno, caracollano, si disorientano. Fatte salve le situazioni di conflitto di taluni paesi, come in Sud America appunto, peraltro cicliche in determinati contesti, quel che emerge nei giri delle droghe è invece la capacità di fare gioco comune. Fatta salva la tradizionale inimicizia fra le Triadi e la Yakuza giapponese, sono appunto le mafie asiatiche a darne esempio, mantenendo oggi, a dispetto di tutto, una integrazione sufficiente. Va preso atto d’altronde che i signori della droga si sono dimostrati previdenti, agendo d’anticipo sulla crisi, diversificando, delocalizzando, puntando alla conquista di nuove aree, di produzione e di consumo, stabilizzando infine i mercati fondamentali, con ogni sorta d’incentivo. L’ultimo decennio ne offre una rappresentazione scenografica con la conquista, pianificata dai sudamericani e non solo, di un intero continente, che era rimasto a lungo marginale nei traffico di narcotici: l’Africa.