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Sicilia, Fava a TPI: “Musumeci fa lo scaricabarile. Ma sui migranti il governo ha paura di decidere”

Nello Musumeci insiste. Il governatore della Sicilia non ha intenzione di fermarsi sulla sua ordinanza che chiede lo sgombero degli hotspot dell’isola e risponde al no del governo parlando di responsabilità sanitarie. Si finirà probabilmente con un ricorso al tribunale amministrativo ma intanto la provocazione ha preso piede tra i sostenitori di destra e corre sul web. TPI ha intervistato Claudio Fava, deputato dell’Assemblea Regionale Siciliana.
Fava, il governatore Musumeci insiste. Come legge questa ultima uscita sullo svuotamento degli hotspot e la chiusura ai nuovi arrivi?
È già un pezzo di campagna elettorale, perché ha riannodato i fili di una coalizione piuttosto frammentata e lasca e naturalmente ha ottenuto le benedizioni della destra alla quale Musumeci continua a rivolgersi. Manifesta la sua indole, la sua cultura politica: è un autoritario, convinto che la migliore forma di governo sia quella di affidare al podestà le chiavi della vita dei cittadini. Anche se si affida ai poteri di tutela della salute lui sa perfettamente che intervenire sui porti, sulle prefetture, sugli hotspot è competenza esclusiva del governo nazionale, segnatamente del Ministero dell’Interno. Ma è un modo per rimettere al centro una parola che sia una calamita e che ha bisogno di nemici facili, l’immigrato portatore di contagi.

Quindi è tutta campagna elettorale…
L’altra ragione è che c’è un fallimento complessivo su tutta la politica di investimento del post-Covid, le risorse promesse per il settore del turismo non sono mai arrivate, nemmeno un centesimo, le condizioni dell’isola sono abbastanza allo sfascio quindi un giorno ci si inventa il ponte, un giorno il tunnel, un giorno chiudiamo gli hotspot. Tutto pur di non parlare di quello che accade a casa nostra: c’è un’ordinanza di controlli per chi arriva dai Paesi considerati focolai poi però in aeroporto, nei porti e nelle stazioni i controlli sono minimi e anche in questo Musumeci dice che la responsabilità non è sua ma del Ministero dei Trasporti.
Una responsabilità che palleggia…
Su alcune cose dice “la responsabilità non è nostra”, su altre dice “la responsabilità non è nostra ma me ne occupo direttamente io”. In questo un po’ ci è un po’ ci fa.

Sembra seguire un po’ il copione di certe Regioni di centrodestra che giocano sul Covid per scontrarsi con il governo e fare parlare di sé. Non è simile all’atteggiamento della Lombardia con Fontana?
Sì. In più nel suo caso c’è una sfumatura di carattere politico, di identità politica. Gli piace fare il podestà. Dopo il Covid ha preteso e ottenuto dalla sua maggioranza il voto su un emendamento infilato in una legge che gli dà, in caso di emergenza sanitaria, pieni poteri e la possibilità di emanare delibere di giunta anche in contrasto con la legislazione vigente. Ed è una cosa abbastanza bizzarra, decidono loro a quale normativa possano derogare senza passare dal Parlamento regionale. È la sua idea di ventennio e ha utilizzato il Covid per ritrovare quei toni, quel cipiglio. Un tempo era un atteggiamento inoffensivo e invece oggi interviene su un tema vero, reale.

Esiste comunque un problema immigrazione in Sicilia?
Esistono problemi concreti nelle città che sono il punto di approdo naturale per i profughi. Non lo risolvi chiudendo, lo risolvi cercando di avere un livello di partecipazione da parte di tutte le Regioni. Anche perché non possiamo lamentarci dell’Europa che non fa la propria parte e poi in Italia lasciare che siano le Regioni di frontiera a occuparsene perché le altre non vogliono rotture di coglioni. Abbiamo un sistema geopolitico basato sul principio dell’egoismo: non a casa mia. È una questione che va affrontata da un governo che non riesce e non è riuscito a ottenere una linea di condivisione e di consapevolezza e di disciplina partecipata da tutti i presidenti di Regione. Qui tutti, in nome della salute, hanno deciso a casa loro.

Però la propaganda di Musumeci sembra funzionare: cosa dire a quelli che lo applaudono, come riuscire a parlar con loro?
Non è semplice perché se dall’altra parte hai un governo pavido che non è capace di fare un passo e di prendere una direzione risolutiva è chiaro che poi è difficile parlare solo sul piano di principio e della linea della condotta morale. Il cittadino alla fine si trova confortato da un decisionista che può anche essere incostituzionale ma che è una risposta alla preoccupazione. Come per le discoteche si registra una certa inerzia da parte di figure chiave del governo nazionale di affrontare con coraggio i problemi che si presentavano. Ora il tema sono gli immigrati e il tema ha bisogno di un tavolo di soluzione che non può essere affidato a ciascun presidente di Regione. Avere un nemico, un untore, qualcuno su cui scaricare le proprie frustrazioni in tempo di crisi conforta molti, anche chi non ha nulla a che fare con quella cultura politica. Poi magari un giorno ti svegli e ti accorgi che gli untori sono i tuoi figli che sono andati a fare un party e sono tornati asintomatici e carichi di virus.

Leggi anche: 1. Sicilia, ordinanza di Musumeci: “Entro le 24 di domani migranti fuori dall’isola”. Ma il Viminale lo blocca: “Non può farlo” / 2. Sicilia, Musumeci non molla: “Il governo vuole un campo di concentramento per migranti, vado dalla magistratura”

L’articolo proviene da TPI.it qui

Lettera al Teatro che avrei dovuto studiare

criticiAmmetto che c’erano tutti i segnali per aspettarselo: un teatro così, sempre attento a non infilarsi sporcizia tra i denti e non sgualcire la piega della pettinatura. Mettici anche che non era per niente male il party tutto ossigenato e invecchiato finto con le vernici dell’ultimo “teatro civile” così glamour e chic da diventare popolare per davvvero dalla parte più eletrizzante ed economizzante del termine. Ho passato gli ultimi anni a sfilare con gli eroi concettuali della denuncia da proscenio, perchè in fondo era un segreto tutto nostro che il coraggio querelabile o pallottolabile (se si potesse dire così, come da cerimoniale, delle pallottole), quel coraggio che rischia di scolorire il fondotinta dell’arte bastava farselo intervistare e poi fingere di dimenticarlo in quinta.

Riconosco anche che sbucciarsi il cervello sulle sentenze piuttosto che i manuali di dizione, o bere duecento caffè e mezzo spritz con i giornalisti, nemmeno buoni per abbinarci un cappello tronfio o una borsa biennalina, non è drammatirgucamente abbastanza cremoso per i convivi degli attori che chissà cosa avrebbero potuto essere.

Aggiungici anche i critici, quelli che in quarant’anni di criticabilissima carriera a criticizzarsi con il carisma sotto al palato che puzza ancora dell’ultimo buffet, mettici che i critici non hanno mica bisogno di disabituarsi a volare via, adesso che si sono convinti di  uscirsi in volo così bene da credere di essere davvero in alto e a pancia in giù.

Dal finestrino della macchina blindata, mentre fischiamo lampeggiando blu appesi primitivi alle maniglie d’appiglio, il Teatro che avrei dovuto studiare mi gira lo stomaco.

Tutto un zumpapa di attori scarsi che mi capiscono, dieci volte di sottotesto ad ogni battuta.

Tutto festival di lodi che si sciolgono al sole perchè d’estate il teatro è un doposole.

Tutta una militanza che si spegne al primo colpo di tosse del prossimo bonifico.

Tutto a sinistra, e subito il giorno dopo a destra perchè lei intendeva il lato dal senso di chi guarda e comunque solo gli idioti non barattano l’idea perchè bisogna pur lavorare. Se possibile di spalle.

Intellettuali alle feste, fallotropi in tournée, nordisti al nord, sudisti al sud e centristi al momento del contratto.

Rivoluzionari nel comunicato stampa, balbettanti sul copione (per esigenze di purezza), con la lingua sulle scarpe (per una replica pagata in pizze) e infine mimi muti come da esigenze di scena.

Tutto a tessere seta e barattarla per flanella per un occhiello in terza pagina.

Tutto che mi capisce, che chissà come deve essere difficile, che è il trionfo della parola, che è il teatro che allora funziona, che se ho bisogno mi ha promesso che come un teatro che si rispetti è sempre a disposizione.

Appena finiscono di smontare l’ultimo studio di quanto piove in testa a Shakespeare o il prossimo debutto del ludico brodino dialettale.

Dal finestrino della macchina blindata, mentre fischiamo lampeggiando blu appesi primitivi alle maniglie d’appiglio, il Teatro che avrei dovuto studiare è uno sbadiglio. Muto e spento.