«Se pensiamo che l’uomo possa tornare a essere non il centro o il padrone ma «la misura di tutte le cose»
(un testo preziosissimo di Piero Bevilacqua)
Viviamo certamente e da spettatori spesso impotenti, nell’epoca dei paradossi. Se ne potrebbe stilare un elenco esemplare. Uno di questi, davvero clamoroso, è la foga di accumulazione di nuovi beni da parte dei contemporanei. Una bulimia consumistica che crede di acquisire, di impossessarsi, di conquistare, e invece non si accorge di quante perdite va accumulando nel suo vorace avanzare.
L’agricoltura del nostro tempo è un ambito eccellente per scorgere il vasto continente di beni perduti mentre ci si schiude al presente un’abbondanza da sovrapproduzione. Ricade nell’esperienza di tutti. Mai, in nessuna epoca del passato, i banchi dei mercati, al chiuso e all’aperto, erano stati così traboccanti di verdure, di legumi, di frutta. Un’abbondanza abbagliante. Eppure essa maschera un grave processo di impoverimento generale. L’abbondanza in bella mostra è solo di quantità, non di qualità e soprattutto non di varietà. Pensiamo alla frutta, che è il bene agricolo più familiare ai consumatori.
Certo, oggi la velocità dei vettori di trasporto e la rete del commercio internazionale ci mettono a disposizione anche i frutti tropicali che non crescono nei climi delle nostre campagne. Ma le mele e le pere che mangiamo correntemente, quelle che dominano il mercato, si esauriscono in quattro, cinque varietà, come le Golden, le Gala, l’Annurca, le Renette e, per le pere, l’Abate Fetel, le Decane, le William, le Kaiser e poche altre. Da tempo vivaisti e amatori hanno rimesso in circolazione un po’ di varietà antiche.
Quel che qui si vuol ricordare è che fino a poco più di mezzo secolo fa, le varietà sia di mele che di pere, susine, ciliegie, ecc, erano centinaia e centinaia, non solo sui banchi del mercato, ma nel paesaggio delle nostre campagne. Costituivano il frutto secolare della straordinaria produttività biologica della natura modellata dalla creatività e dal genio di infinite generazioni di contadini.
La perdita, però, non è solo di ordine materiale. Non è solo un vasto patrimonio genetico, accumulato in millenni di storia, che è stato rovinosamente intaccato per far posto a un’abbondanza seriale e senza qualità. Non meno grave è la mutilazione estetica e culturale che abbiamo subito. La varietà della piante coltivate costituiva anche la condizione della varietà e ricchezza del nostro territorio.
Sotto il profilo del paesaggio agrario il Bel paese – quello oggi in gran parte cancellato dalle uniformi e monotone piantagioni industriali – si identificava con l’agricoltura promiscua della società contadina. Un paesaggio vario e multiforme, in cui si alternavano i seminativi al frutteto, il pascolo all’uliveto, l’orto alla macchia. La varietà era componente intrinseca della bellezza.
In Italia la fuoriuscita dalla penuria e dalle fatiche della società contadina – mai abbastanza lodata per le sue componenti di umana liberazione – ha reso tuttavia insensibili i contemporanei di fronte alle gravi perdite di beni immateriali che si andavano nel frattempo accumulando.
Chi non ricorda la solitaria lamentazione di Pier Paolo Pasolini per la «scomparsa delle lucciole»? Oggi la rammentiamo soprattutto perché quella scomparsa era un segnale dell’inquinamento provocato dall’avanzare della chimica nelle nostre campagne. Ma Pasolini recriminava però una perdita più grande e struggente: la scomparsa di una visione del mondo notturno, il buio formicolante di migliaia di lumi che parlava alla fantasia di chi osservava, che aveva popolato per millenni l’immaginario delle popolazioni contadine.
Non costituiva una perdita rilevante la privazione di quella umana esperienza fatta di fascino, fantasticheria, incanto, poesia, che si dileguava per sempre?
Ma l’avanzare dell’agricoltura industriale ha prodotto una perdita culturale gigantesca e assai meno visibile di quella del paesaggio. Nel 1983 un autorevole storico inglese, Keith Thomas nel suo Man and the natural world (Einaudi, 1994) rivelò , e forse fu il primo storico a farlo, la mirabolante conoscenza che i contadini inglesi ed europei avevano della infinita varietà delle piante presenti nelle campagne in età moderna.
Prima della classificazione tassonomica operata da Linneo nel XVIII secolo, che esemplificava l’intricata foresta di nomi di piante e animali, designati con nomi locali, gli agricoltori possedevano una sapienza vernacolare delle piante che noi oggi stentiamo a percepire. Col tempo la riduzione della biodiversità naturale e di quella agricola si è accompagnata alla perdita del patrimonio di cognizioni e di parole che l’accompagnava e l’aveva trasmesso nel corso di millenni.
Insieme alle varietà della flora e della fauna si sono a poco a poco estinte anche le parole, il ricchissimo dizionario che aveva tessuto la lingua geniale che le aveva catalogate e che le faceva quotidianamente vivere nelle comunità. Un processo di perdita giunto fino ai nostri giorni, che non è stato solo di parole, ma come al solito anche di immaginario, di senso, di emozioni, di rapporto della mente con le cose, di relazione tra il corpo umano e le altre creature viventi.
Una vicenda di desertificazione del sopramondo fantastico che accompagnava la vita quotidiana che oggi possiamo certificare in tutta la sua ampiezza. Gian Luigi Beccaria, in un libro prezioso, un archivio della nostra memoria linguistica (I nomi del mondo. Santi, demoni folletti e le parole perdute, Einaudi 1995) ha ricordato che «Il mondo totalmente profano, il Cosmo completamente desacralizzato è una invenzione recente dello spirito umano. Sono cadute da pochissimo dalla memoria collettiva, insieme alle parole, le leggende di un ieri non lontano, radicate in una Europa cristiana fittamente gremita di racconti, con ogni momento della giornata, ogni data dell’anno che traeva con sé una folla di credenze e di parole che vi alludevano».
Di fronte alla sbornia consumistica, che fa da battistrada al nichilismo contemporaneo, non è oggi tempo di guardare, non con nostalgia a un passato non tutto da rimpiangere, ma alla ricchezza dello spettro dell’umana spiritualità, di cui dobbiamo sempre più tener conto in un’epoca unidimensionale di abbondanza e di sperpero? Se pensiamo che l’uomo possa tornare a essere non il centro o il padrone ma «la misura di tutte le cose».
(fonte: il manifesto, 25 maggio 2017)