Vai al contenuto

Pippo Civati

La dignità è Possibile

Mi spiace molto leggere in rete tutta questa sperticata ironia sulle dimissioni che Civati oggi ha rassegnato durante gli Stati Generali di Possibile. Mi spiace anche vedere la comunità di Possibile (perché sì, è un partito, una comunità, un luogo di talenti e intelligenze e di rapporti umani oltre che politici e ha i “pochi” iscritti di qualche partito che qui da noi viene invece preso terribilmente sul serio) relegata alle descrizioni di chi la vorrebbe disegnare come un’accolita di “amici di Civati” proprio mentre in giro i partiti si sono involuti in bande di sgherri al servizio del loro padrone. Oggi io invece avrei voluto esserci, a Bologna, avrei voluto non essere incastrato con il lavoro perché Pippo ancora una volta ha dato una lezione di dignità. Si è dimesso senza sventolare addii che poi vengono prontamente ritirati come un bonifico qualsiasi; ha ammesso colpe (molte non sue) e si è scusato con gli elettori, mica solo con i suoi elettori; si è caricato sulle spalle (sulle sue spalle) gli sbagli di tutta la dirigenza (e di solito si fa il contrario) e la classe dirigente di Possibile (“esiste una classe dirigente di Possibile?” chiede ironico qualcuno: sì, anch’io, ad esempio) gli ha rinnovato il vincolo di fiducia decidendo di dimettersi in blocco.

Poi, ancora una volta, Pippo ha spiegato con toni seri tutto quello che è successo in questa (brutta) campagna elettorale di Liberi e Uguali senza troppa falsa cortesia ma senza rancore. Dalla compilazione delle liste (siamo seri, basta la sua mancata elezione per capire il gioco) fino al fallimento comunicativo di chi ha avuto ruoli e spazi di primo piano Liberi e Uguali ha inanellato un’incredibile serie di errori che sarebbe troppo comodo considerare semplici gaffes.

«Con questo tracollo sono caduti anche tutti gli alibi, è finita la sinistra che fa la destra e anche la sinistra con gli occhi dietro la nuca. Il futuro è di chi sarà capace di pensare qualcosa di completamente nuovo e universale.», ha detto Civati nella sua relazione. E poi: «Ora però il punto non è ripartire, che saranno millemila anni che la sinistra riparte. Da cosa? Il punto è azzerare tutto. Questo il senso delle mie dimissioni, contestuali a quelle del comitato organizzativo.»

Si può dire tutto, insomma, ma la serietà è Possibile. Può non avere funzionato (e magari non funzionerà) ma già così è una pratica praticata, in mezzo alle parole. E io (che di Pippo mi ritengo amico, prima che compagno politico) anche oggi lo riconosco.

 

“Siate liberi”

Vale la pena riportare le parole che ha pronunciato oggi in Aula Pippo Civati. Vale la pena leggerle, al di là dei legittimi schieramenti politici di ognuno. Perché le truffe hanno bisogno di lucidità per essere smontate. Ecco qui:

 

È la seconda volta che si ripropone la stessa discussione. La prima volta me la ricordo bene: era il 2015 e uscii dalla maggioranza, non potendo più accettare certe scelte e non volendo conformarmi a comportamenti contrari al mandato elettorale.

Se quella era la volta dell’arroganza, questa è la volta della disperazione. Una mossa della disperazione dopo tanti fallimenti della legislatura che non esito a definire «vergogna».

Una legislatura-vergogna nei modi e nella sostanza. Dopo cinque anni siamo arrivati a una legge elettorale che non garantisce solo i nominati, garantisce soprattutto chi li nomina.

Una legge del Cipolla potremmo dire: una legge elettorale della stupidità, autoritaria nei modi con cui viene approvata, quanto autolesionistica nei risultati.

Pensata per penalizzare gli avversari di un movimento, lo fa crescere e fa crescere anche le destre che il partito del governo dice di volere fermare, proprio le destre con le quali la minoranza di governo – perché di minoranza ormai si tratta – è alleata in quest’operazione.

Fare del male agli altri facendone però di più a se stessi e alla qualità del sistema in generale: questa legge contiene la propria condanna, perché chi di poltrona ferisce, di poltrona perisce.

Nata per tenere insieme uninominale e proporzionale, la legge non è né proporzionale, né uninominale: questa legge è solo pessima.

Sarebbe stato possibile sbloccarla, con il dibattito e con il voto dell’aula, questa legge, possibile e necessario. Con due schede, il voto disgiunto, l’abolizione delle coalizionila soglia unica e più consistente, la libera scelta dei candidati nella quota proporzionale.

Invece ci ritroviamo con un trucco, con un uninominale a grappolo in cui il voto non è libero e c’è di fatto un’unica lista bloccata in cui si vede bene il candidato del collegio, abbastanza bene il simbolo e molto poco le liste bloccate che sono ad essi collegate.

Ci ritroviamo con coalizioni fittizie, coalizioni che peraltro esistono solo in Italia, coalizioni precarie, temporanee: coalizioni della domenica. Ci si allea con qualcuno sapendo che poi ci si alleerà con qualcun altro. Coalizioni fedifraghe.

Anche in questo caso la legge fregherà chi si vuol far fregare: Giorgia Meloni lo ha capito, Matteo Salvini – corso in soccorso dell’omonimo – pare proprio di no.

Ci ritroviamo poi con una legge piena di clausole e di eccezioni e non a caso prevede un bugiardino (absit) sulla scheda, cosa più unica che rara.

All’insegna di una certa cultura politica – o, forse, meglio: una sottocultura politicasi rivendica con orgoglio il precedente della “legge truffa” del 1953: segnalo che fu una discussione tormentata e combattutissima, che finì con Andreotti con il cestino sulla testa, Ingrao ferito in piazza, il Presidente della Camera ferocemente contestato, le dimissioni del Presidente del Senato e con una profezia che nemmeno Fassino: perché la legge non raggiunse il suo scopo e fu abrogata l’anno dopo. E quella fiducia non portò certo fortuna a chi la pose, com’è accaduto anche con l’Italicum, peraltro, che qui fu votato.

L’ex premier – il vero franco tiratore di questa storia – impone e forza, com’è suo costume, e Gentiloni obbedisce: ecco non siate troppo gentili con il Capo, siate costituzionali, perché questo è un disastro che provoca sfiducia, non fiducia. È la legge della sfiducia: anche il vostro nume tutelare Giorgio Napolitano vi ha abbandonato.

Volenti non fit iniuria: siccome il voto dei cittadini non potrà essere libero e consapevole in questo marchingegno volutamente complicato e pensato da menti ossessionate dal potere a tutti i costi, lo sia il vostro.

Care colleghe, cari colleghi, almeno una volta in questa legislatura, siate liberi.

Sono tutti uguali

Ci siamo messi in testa una cosa che non si era mai vista. Ma, si sa, a me piace così. Quando mi viene. E poiché da tempo mi dicono che il mio teatro è troppo “politico” (me lo dicono di solito i detrattori avviliti, quelli che hanno bisogno che non ci siano in giro tipi diversi dai falsi cortesi che sono) allora mi sono detto che è vero: che sono terribilmente politico in quelli che scrivo e che recito. Per scelta.

E allora ci siamo detti che in fondo sarebbe proprio una cosa mai vista che la politica entri in teatro. Senza infingimenti. E alla fine lo facciamo davvero: lo spettacolo si intitolerà “Sono tutti uguali” e in scena ci sarà anche un politico, davvero. Che tra l’altro è un amico. E una gran bella penna. Pippo Civati.

E ieri ci siamo permessi di parlarne e mostrare un’anteprima piccola piccola. Ecco: se avete voglia è tutto qui.

Sipario. Poi ne parleremo.

Il caso Pell e la soluzione politica

Perché la politica è più semplice di quello che si crede. Cardinali inclusi. E il mio applauso del giorno va a Andrea Maestri e Pippo Civati. Fa bene avere amici (e compagni) così. Ecco l’agenzia di stampa:

L’incriminazione del cardinale Pell, nominato da Bergoglio prefetto degli Affari economici del Vaticano e quindi figura di spicco della gerarchia ecclesiastica, per reati di pedofilia e per la copertura di altri prelati pedofili, riaccende i riflettori sulla tutela dei minori vittime di reati consumati da uomini appartenenti alla Chiesa. Anche in conferenza stampa il cardinale, nel rigettare le accuse, parla di ‘atti immorali’. Si continua a considerare questi come reati contro la morale e non contro la persona. Fatto grave da un punto di vista culturale, etico e giuridico“.

Lo affermano in una nota Pippo Civati e Andrea Maestri (entrambi deputati di Sinistra italiana-Possibile). “Pochi mesi fa – spiegano – abbiamo presentato una mozione che impegna il Governo a superare la norma concordataria, secondo la quale ‘gli ecclesiastici non sono tenuti a dare a magistrati o ad altra autorità informazioni su persone o materie di cui siano venuti a conoscenza per ragione del loro ministero’. Questa esenzione dall’obbligo di denuncia costituisce un ostacolo oggettivo al perseguimento penale, in Italia, di queste condotte odiose“.

I due deputati chiedono dunque alla presidente della Camera Laura Boldrini “di farsi parte attiva per la tempestiva calendarizzazione di questa mozione, la cui approvazione porterebbe ad una più efficace tutela dei piccoli violati o abusati”.

Due anni dopo. Quando Pippo mi disse che sarebbe uscito dal PD.

(scritto per i quaderni di Possibile qui)

Io me lo ricordo bene, il 6 maggio del 2015, quando Pippo (Civati) di mattina presto è arrivato in redazione per dirmi che sarebbe uscito dal PD. E per me non è un ricordo solo politico ma, in fondo, era anche il cerchio che si chiudeva dopo tutti quegli anni che avevamo passato insieme sfregando la nostra idea (che la politica sia terribilmente importante e bella) contro le croste di un Partito Democratico usurante per chi cercava un’architettura di uguaglianza, solidarietà e giustizia sociale. Mi ricordo bene anche la matematica certezza di scontare quella scelta con la chirurgica indifferenza di chi sminuisce tutto ciò che non è vincente e vittorioso. Eravamo già un Paese ammaestrato a spargere la bava del padrone e anche oggi, due anni dopo, il servilismo è tremendamente “pop”.

Uscire dal PD allora significava prendersi la responsabilità di sapere che ciò che serve per racimolare un po’ di consenso immediato difficilmente è ciò che serve al Paese e significava prendersi la responsabilità di coltivare uno sguardo lungo anche se tutto intorno gli altri stavano piegati sul consenso fast food e sui pruriti più pelosi. Due anni fa si intravedeva già che sarebbe finita così: la riforma Boschi, il Jobs Act, le larghe intese e lasvolta a destra sui temi di immigrazione e sicurezza non sono le improvvise svolte di un momento ma l’approdo naturale dell’involuzione di un centrosinistra che ha deciso di cambiare riferimenti sperando di simulare sempre gli stessi connotati.

Abbiamo passato anni al limite della potabilità provando a cambiare un processo irredimibile, ci hanno apostrofato come “troppo curiosi”, “guastafeste”, “rompipalle” e “signor no” per arrivare ad oggi. Ora si accorgono di avere perso voti, elettori e fiducia. Eppure questi due anni non sono solo i tentativi di erosione e esclusione subiti e non sono nemmeno la sterile soddisfazione di averci visto giusto. Non lo sono per niente. Sono due anni di elaborazione politica sui diversi temi in cui si è provato a costruire un pensiero senza inseguire le urgenze (spesso solo percepite o costruite ad arte) e ostinatamente non occuparsi dello storytelling ma dedicandosi ai contenuti.

Come scrive Pippo “bisogna essere liberi per diventarlo” e ci vuole coraggio e costanza. Perché non si realizzano solo gli sfaceli. Poi viene il tempo delle proposte che si scoprono al passo del futuro.

Per fare chiarezza su cosa succede a sinistra.

Una delle fortune del mio lavoro (anzi, di uno dei miei lavori) è di sciogliere i dubbi direttamente. Negli ultimi giorni per Fanpage ho intervistato le due anime di Sinistra Italiana (Nicola Fratoianni e Arturo Scotto) e Pippo Civati e ne è uscito un quadro generale che, condivisibile o meno, può risultare utile per orientarsi su ciò che accade anche alla luce della “discesa in campo” di Giuliano Pisapia.

In ordine cronologico:

l’intervista a Scotto è qui

l’intervista a Fratoianni è qui

l’intervista a Civati è qui

L’intervista a Pisapia arriva nei prossimi giorni.

 

Alleanze chiare, amicizie lunghe

“Unite la sinistra”, mi scrivono. E io ogni volta a spiegare che la sinistra si fa, non si dice e che molti di quelli che ce l’hanno sempre in bocca spesso poi hanno fatto cose di destra. Parlare di alleanze senza politica è un fallo di simulazione (ne avevo già scritto qui) e forse varrebbe la pena allearsi con le idee chiare:

Ci vogliamo alleare con tutti coloro che vogliono cambiare completamente l’impostazione del Jobs Act, della Buona Scuola, dello Sblocca Italia. Quindi, non con chi li ha votati. Semplice.

Non è questione di sigle, ma di sostanza. Di scelte, non di posizionamenti. Di sincerità, non di tattica.

Ci vogliamo alleare con le persone che hanno un’idea meno pervasiva del potere, all’insegna di una politica che non si risolve in esso, che è cultura e partecipazione. E trasparenza.

Ci vogliamo alleare con chi vuole applicare la Costituzione e la legge (già in vigore) sulla vendita di armi ai paesi in guerra.

Ci vogliamo alleare con chi vuole dare una misura di civiltà e di efficienza all’accoglienza, nella gestione più consapevole dei flussi migratori.

(continua qui)

Cannabis. E la politica che fa cultura.

Ho un sogno. Da sempre. Immaginare di vivere in un Paese in cui la politica fa cultura nel senso più pieno informando, raccogliendo dati, proponendo soluzioni e, soprattutto, raccontando storie possibili. Penso a una politica che non assoldi intellettuali e artisti ma piuttosto coinvolga le menti migliori del Paese per proporre oltre ai soliti programmi elettorali anche delle visioni sociali e culturali. Sembra un’idea folle di questi tempi, lo so, ma l’alfabetizzazione dovrebbe essere un dovere della classe dirigente e mi piace pensare che sia un prospettiva attuabile. Da parte di tutti, ancora meglio: destra, sinistra e i centrodestri e i centrosinistri e quelli che “né destra né sinistra”.

La questione della legalizzazione della cannabis, ad esempio, si sta svolgendo in Parlamento con una colpevole strumentalizzazione dell’ignoranza: si può essere d’accordo o meno ma è necessario conoscere. Sapere e far sapere. Per questo credo che farne un libro (che per lunghezza e densità non permette di limitarsi alla propaganda pubblicitaria) sia un atto opportuno.

Pippo Civati l’ha scritto per i tipi di Fandango, con la nota introduttiva di Roberto Saviano. Cannabis. Dal proibizionismo alla legalizzazione. Ecco la presentazione:

«Esiste una legge migliore di quella che consentirebbe di riportare nella legalità milioni di italiane e italiani, di separare il mercato dalla cannabis da quello delle droghe pesanti, di ridurre il finanziamento alla criminalità organizzata (oggi pressoché inevitabile per gran parte di coloro che fanno uso di cannabis), di far emergere una quota consistente di economia sommersa e di ricavare una cifra tutt’altro che banale per le casse dello Stato, con particolare riguardo a ciò che si potrebbe spendere per la prevenzione e, più in generale, per la Sanità?

Esiste una legge migliore di quella che permetterebbe di controllare la qualità di ciò che viene immesso nel mercato, di risparmiare costi per lo Stato nelle varie fasi di repressione, indagine, in ambito giudiziario e carcerario?

Sarebbe una buona legge, in particolare per il nostro Paese dove è alto il consumo della cannabis e dove è forte, in alcuni casi molto complicata da contrastare, la presenza diffusa su tutto il territorio nazionale delle mafie.

Una legge basata sui migliori esempi a livello internazionale, su regole chiare e semplici, sulla possibilità dell’autoproduzione, della costituzione di cannabis social club e di un accesso legale alla cannabis per i consumatori occasionali.»

Lo potete comprare (anche) qui.

Buona scuola, brave persone

Ci sono persone dietro gli algoritmi della cosiddetta “buona scuola” che si sta dimostrando feroce, sbagliata e poco efficace. Ci sono persone che hanno delle storie, belle o brutte che siano, che andrebbero rispettate e vanno ascoltate. Perché la politica sono le persone, sempre, e anche se ultimamente sembrano tutti così concentrati sulle persone che governano la politica come piace farla a noi invece è quella delle persone governate. Diciamo che ci interessano governati felici più che governanti soddisfatti, anche se sembra un’eresia.

Per questo stiamo raccogliendo le storie (leggetele qui, per farvi un’idea) e chiedendo tutte le spiegazioni necessarie (qui c’è l’interrogazione presentata dai parlamentari di Possibile). Perché la politica noi la facciamo così. La continueremo a fare così finché saremo considerati degni di rappresentare qualcuno. E fa niente se forse risultiamo essere terribilmente seri o addirittura “sofisticati” per il nostra fare senza cianciare. Se per caso ci riusciamo sarebbe una rivoluzione, anche culturale.

Intanto continuiamo a girare l’Italia. Da mesi. Venite a trovarci. Seguiteci qui.

(Qui trovate tutti gli articoli e le iniziative)

Chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori. Una bella morale, non c’è che dire.

Vale la pena leggere il post di Pippo, stamattina:

«Si è preso un risultato elettorale, quello del 2013, e lo si è rovesciato. Si sono scelti argomenti tipici del populismo tanto quanto quelli che si intendevano, a parole, superare. Si è scelto un tono trionfale mentre si attraversavano le macerie. Si è cercato di risolvere tutto con la dialettica nuovo e vecchio, quando sono sempre i vecchi a dettare il nuovo. Si è pensato che fosse sufficiente la comunicazione, in termini prima quantitativi che qualitativi, per risolvere un gigantesco problema politico. Si è associato il progetto politico al percorso delle riforme, con non poche contraddizioni e la sensazione, sempre più diffusa, che in causa fosse solo il potere e chi lo rappresenta.

Si è spiegato che si vogliono ridurre i politici (che di per sé è già un messaggio equivoco e demagogico e populistico quant’altri mai) e in realtà si riduce la politica e la fiducia che dovrebbe sempre ispirare il rapporto – anzi, la relazione – tra elettori ed eletti. Si è formato un unico grande centro, dimentico di destra e sinistra ma che ovviamente preferisce la prima, pensando che con un unico centro di gravità tutti ne sarebbero stati attratti.

Ed eccoci qui, a leggere editoriali di banchieri poco informati, di industriali che quantificano il valore delle riforme senza alcun fondamento scientifico, a politici che confondono argomenti che non c’entrano proprio nulla, a dirigenti sindacali che ci si chiede se abbiano mai parlato con quelli che dovrebbero rappresentare, per nascondere l’irragionevolezza dei contenuti che hanno prodotto e dei metodi che hanno seguito, illustrandoci una ‘riforma’ fatta per il Paese che il Paese divide almeno a metà, se non di più.

Chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori. Una bella morale, non c’è che dire.»

(continua qui)