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Pippo Fava

Mafia: rinviato a giudizio a Catania il “cavaliere” Mario Ciancio. Finalmente.

E il commento migliore non poteva non essere di Riccardo Orioles, ovviamente:

Il signor Mario Ciancio, proprietario di quattrocentomila catanesi nonché di un numero indefinito di centri commerciali, sindaci, giornali, politici, tv, massoni, imprese edili e rare monete antiche è stato rinviato a giudizio, poco fa, per concorso esterno in associazione mafiosa. Il processo comincerà il 20 marzo 2018: dieci mesi dunque, ciascuno di 30 giorni, per un totale di circa 300 giorni durante i quali, dedicando alla lettura diciamo tre ore al giorno, potrà riuscire a rileggersi tutto ciò che I Siciliani, negli ultimi trentacinque anni, hanno scritto di lui. Non è una lettura noiosa, e con l’ausilio di essa riuscirà certamente ad arrivare in gran forma al giorno del processo. Buon lavoro.

Quanto ci manchi Pippo Fava

(scritto per Fanpage)

Trentatré anni che Pippo Fava è stato ammazzato. Trentatré anni di resistenza etica da parte dei suoi carusi per non lasciare che la morte di Fava si atrofizzasse in un santino antimafioso buono per una commemorazione all’anno, trentatré anni a lavorare perché Pippo Fava non è solo un giornalista ammazzato dalla mafia ma è soprattutto un modello di giornalismo e una forma mentale di una curiosità che sembra così difficile provare ad immaginare ancora. Ammazzato, certo. Quei cinque colpi sparati da dietro (senza farsi vedere in faccia, come nella migliore tradizione della vigliaccheria mafiosa) sono il morso di una belva che non riesce a immaginare altro modo per farlo stare zitto: Pippo Fava viene assassinato in via dello Stadio, di fronte al Teatro Verga di Catania dove era appena arrivato, cronicamente in ritardo, per vedere recitare il nipote in Pensaci, Giacomino! Cinque colpi ordinati da quel Nitto Santapaola che di Catania era il “padrone” oltre che il boss di Cosa Nostra e che stupidamente pensò che davvero la polvere da sparo bastasse per spegnere una storia oltre che uccidere una persona.

Un penna eretica, quella di Fava, per niente ubbidiente ai poteri e ai pensieri che garantiscono una carriera tranquilla, una casa, uno stipendio e la gratitudine di chi guadagna grazie anche alla disattenzione della stampa tutto intorno. «A volte basta omettere una sola notizia – scriveva Fava – e un impero finanziario si accresce di dieci miliardi; o un malefico personaggio che dovrebbe scomparire resta sull’onda; o uno scandalo che sta per scoppiare viene risucchiato al fondo»: il senso del suo scrivere è tutto qui, nell’inseguire ciò che non si vorrebbe detto. Quando nel 1956 viene assunto da “Espresso sera” per occuparsi da caporedattore di calcio e cinema non riesce a tacere di fronte alla cronaca e alla mafia: le sue interviste ai boss di Cosa Nostra Giuseppe Genco Russo e Calogero Vizzini sono i segnali di un’ossessione (per la legalità, la libertà e la giustizia) che non riesce a trattenere.

Quando nel 1980 diventa direttore del “Giornale del Sud” (portandosi in redazione come giovani collaboratori Rosario Lanza, Antonio Roccuzzo, Michele Gambino, Riccardo Orioles e suo figlio Claudio Fava) il quotidiano abbandona i lidi della sopravvivenza tranquilla per affrontare i temi più spinosi: si comincia a leggere dei traffici di droga su Catania gestiti da Cosa Nostra, si alza la voce contro la costruzione della base missilistica americana di Comiso, si osteggia apertamente il boss Alfio Ferlito invocandone l’arresto e si comincia a curiosare lì dove politica, imprenditoria e mafia si incontrano oscenamente per convergere nei loro affari. È il giornalismo che non teme nemmeno i suoi padroni, il giornalismo che non balbetta quando c’è da mettere in pagina i cognomi che contano; e infatti arriva il tritolo (con l’attentato fallito), la censura (di una prima pagina tutta sugli affari illeciti di Ferlito) e infine il licenziamento.

E che fa Pippo Fava? Si rimette in moto, instancabile: con il mensile “I Siciliani” (stampato con due rotative Roland comprate usate con cambiali) insiste e alza il tiro. La storia antimafiosa di questo Paese è segnata da chi piuttosto che farsi intimidire dalle minacce ne trae linfa per una lotta ancora più intensa contro le ingiustizie: accade con Fava, con Peppino Impastato, con Beppe Alfano. Lo storico primo articolo di Fava su I Siciliani (“I quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa”, in cui attacca la borghesia mafiosa catanese) è giornalismo color cristallo: c’è dentro la cronaca, l’inchiesta e la chiave di lettura di una città e di un’epoca. Perché Pippo Fava, nonostante si dimentichi in fretta, è stato un intellettuale a tutto tondo: dalla narrativa, alla saggistica, al teatro, alla televisione fino alla sceneggiatura cinematografica è stato uno sperimentatore in tutti i campi. Ha osato la penna, oltre che usarla. E ha osato la parola. Sempre.

Per questo Pippo Fava ci manca tantissimo: per quel suo essere capace di raccontare un Paese intero dalla cronaca di un vicolo di Catania, per quel suo intravedere un futuro terribile ma mantenere intatta la voglia di raccontarcelo con pazienza e arte. Un intellettuale, insomma. E quanto ci manca, oggi.

I “Mattarella” (secondo Pippo Fava)

da “I cento padroni di Palermo” di Giuseppe Fava (“I Siciliani”, giugno 1983):

Giuseppe Fava
Giuseppe Fava

Ecco: qui diventa perfetta la storia di Piersanti Mattarella, da raccontare tuttavia con umana sincerità affinché ognuno possa capire le cose come veramente accaddero e quindi trarre una ragione, un cifrario per le cose che continuano ad accadere.
Piersanti Mattarella, il cui personaggio oramai è entrato nella leggenda politica siciliana dell’ultimo decennio, era figlio di Bernardo Mattarella, padrone della Sicilia occidentale, quando Palermo ancora ammetteva un solo padrone. Saggio e collerico, amabile e violento, culturalmente modesto, ma irruento parlatore, Mattarella non disdegnava alcuna alleanza potesse servire al potere del suo partito ed a quello suo personale. Non aveva scrupoli. Se parte dei suoi voti provenivano dai ras delle province mafiose, che ben venissero, erano egualmente voti di cittadini italiani. E se quei grandi elettori chiederanno un favore in cambio, Bernardo Mattarella (come si suole dire) non si faceva negare. Contro di lui dissero e scrissero cose terribili, ma in realtà non riuscirono a provare praticamente niente, se non che la sua potenza, appunto per questa assenza di testimoni contrari, era perfetta.
Il vecchio Mattarella aveva eletto il figlio Piersanti, suo delfino ed erede, lo avvezzò al potere con la stessa puntigliosa prudenza, la medesima pignoleria, che la regina madre usa di solito per il principino di Windsor: prima buon studente, poi eccellente cavallerizzo, ufficiale della marina imperiale, un matrimonio di classe regale, un viaggio per tutto il Commonwealth ad affascinare sudditi. Al momento opportuno il trono. Piersanti era alto, bello, intelligente, amabile parlatore, ottimo laureato, viveva a Roma, parlava con buona dizione. Era anche un uomo molto gentile ed infine aveva una dote che poteva essere un difetto: era candido. O forse fingeva di esserlo.
Quando il padre ritenne il momento opportuno, lo fece venire a Palermo perché fosse candidato al consiglio comunale. Il Comune di Palermo è una palestra politica senza eguali, nella quale si apprendono tutte le arti della trattativa per cui l’affare politico è sempre diverso da quello che viene, ufficialmente discusso, e si affinano le arti della eloquenza per cui si dice esattamente il contrario di quello che è, anche gli avversari lo sanno e però fanno finta di non saperlo, e quindi l’oratore riesce a farsi perfettamente capire senza destare lo scandalo dei testimoni. Piersanti imparò quanto meno a capire quello che gli altri dicevano. Poi venne eletto dall’assemblea regionale siciliana, dove in verità – provenendo i deputati da tutte e nove le province dell’isola, le arti sono più grossolane, ci sono anche la cocciutaggine dei nisseni, la imprevedibile fantasia dei catanesi, la finta bonomia dei siracusani, tutto è più facile e difficile, e tuttavia anche qui Piersanti Mattarella fu diligente e attento. Valutava, ascoltava, sorrideva, imparava, giudicava. Venne eletto assessore alle finanze. Fu in quel periodo che vennero confermati gli appalti delle esattorie alla famiglia Salvo.
Esigere le tasse può sembrare odioso, e tuttavia è necessario, consentito, anzi preteso dalla legge. L’esattore deve essere avido, preciso e implacabile. I Salvo erano perfetti. Il loro impero esattoriale si estendeva da Palermo a Catania, un giro di centinaia di miliardi, forse migliaia. C’era una bizzarra clausola nell’accordo stipulato fra gli esattori Salvo e l’assessore regionale: cioé gli esattori avevano facoltà di scaglionare nel tempo i versamenti. Premesso che la Giustizia impiega magari due anni per riconoscere un’indennità di liquidazione a un povero lavoratore, ma ha una capacità fulminea di intervento contro lo stesso poveraccio che non paga le tasse), gli esattori Salvo avevano il diritto di esigere subito le somme dovute dai contribuenti, epperò la facoltà (detratte le percentuali proprie) di versare a scaglioni le somme dovute alla Regione. Praticamente per qualche tempo avevano la possibilità di tenere in banca, per proprio interesse, somme gigantesche. Non c’era una sola grinza giuridica. Avevano fatto una proposta e la Regione aveva accettato.
Infine Piersanti Mattarella venne eletto presidente della Regione. E improvvisamente l’uomo cambiò di colpo. Aveva studiato tutte le arti per diventare Mazzarino e improvvisamente divenne Pericle. Indossò tutta la dignità che dovrebbe avere sempre un uomo; dignità significa intransigenza morale, nitidezza nel governo, onestà nella pubblica amministrazione. Piersanti Mattarella fu capace di pensare in grande e pensare in proprio. Figurarsi la società palermitana degli oligarchi, i cento padroni di Palermo. Come poteva vivere un uomo così, e per giunta vivere da presidente? Nessuno capirà mai se Mattarella venne ucciso perché aveva fermato una cosa che stava accadendo, oppure perché avrebbe potuto fermare cose che invece ancora dovevano accadere.

Quella sera che giocammo a Risiko (e intanto moriva Pippo Fava)

Quella sera eravamo in quattro. Noi quattro, come al solito, attorno al tavo­lo della cucina a casa della signora Roc­cuzzo. Riccardo scelse i gialli, che non vo­leva mai nessuno. Antonio e Miki rossi e neri, una vecchia sfida di colori domina­ti che non si risolveva mai. Io mi presi i ver­di, colore fesso, tiepido, di quelli che non la­sciano traccia.

Giocammo con candore e accanimen­to, come sempre, improvvi­sando allean­ze, attacchi e ripiegamenti, sacrifici, tradi­menti: tutto.

Il canovaccio prevedeva ruoli immutabi­li. Miki con la sua bella fac­cia da guappo dava la scala­ta al mon­do spostand­o armate attraverso oceani imma­ginari. Antonio, prudente come un segre­tario di sezione, puntava alla Cina, cuore immobil­e di un’Asia at­traversata da straordi­narie mito­logie, la Yacuzia, la Kamchat­ca, il Siam… Ric­cardo intanto s’ammas­sava da qualche parte e lì aspetta­va la guerra, sag­gio im­mobile, come se quell’unico territor­io pos­seduto fosse l’isola di Strom­boli, pro­tetta dal mare e dagli dei.

Di me non so, non ricordo: ap­plicavo le regole del gio­co, attaccavo, ar­retravo, pas­savo la mano. Pensavo che le guerre si vincono provando a non perder­le, facendo i ragio­nieri sulle baionette. Avevo ancora un’età onesta, mi era con­sentito non capi­re un cazzo.

Insomma la partita fu come altre cento prima di quella sera: lunga, sfacciata, rio­tosa. Nessuno vinceva, nessuno vin­se.

Non so chi, alle tre del mattino, prese il logoro cartone del risiko e lo fece sal­tare in aria mescolando definitivamente carri armati, territori, ambizioni. Per la prima volta scegliemmo di non arrivare fino in fondo: ci mandammo allegramen­te affan­culo e ce ne andammo a dormire strippati di amaro averna, sazi e giusti come chi crede di essere immortale.

Il giorno dopo ammazzarono mio pa­dre.

Dopo trent’anni, se dovessi portare con me una cartolina di quei giorni e degli anni che vennero dopo, sarebbe questa. Il tavolo della signora Roccuzzo, il cartone slabbrato del risiko, la faccia ancora im­macolata di quattro ragazzi che si stanno gio­cando l’ultima partita, prima che la vita gli precipiti addosso.

Tratto dal bellissimo libro di Claudio Fava Prima che la notte

(potete comprarlo qui)

Uno dei libri più belli mai letti

So che l’affermazione può sembrare forte ma Prima che la notte è un libro che mi è rimasto per intero nel cuore. Claudio Fava e Michele Gambino dimostrano di essere cuore e testa oltre che penna e la vicenda di Pippo Fava è raccontata come una dolorosissima poesia.

Ne vale la pena, credetemi. Potete comprarlo qui.

Pippo Fava non amerebbe questo Paese

Pippo_Fava30 anni fa moriva ammazzato Pippo Fava. Oggi sono da leggere le parole (come sempre bellissime) del figlio Claudio nella sua intervista per L’Unità (qui) e riprendendo un articolo memorabile scritto proprio per I Siciliani dopo la sua morte. Perché quei ragazzi di Fava oggi sono una lezione che sarebbe meglio perseguire piuttosto che commemorare:

Un uomo

da “I Siciliani”, gennaio 1984

Pippo Fava ha scritto un sacco di libri, e cose di teatro anche.

Però Pippo Fava non è mica uno importante.

Per esempio, arriva una centoventiquattro scassata, dalla centoventiquattro esce uno con la faccia da saraceno e un’Esportazione che gli pende da un angolo della bocca e ride e quello è Pippo Fava.

Bene, un giorno a Pippo Fava gli dicono di fare un giornale, è una faccenda strana affidare un giornale a Fava che, dice la gente perbene, è uno che non si sa mai che scherzi ti combina: comunque il giornale c’è, si chiama il Giornale del Sud e subito Pippo Fava lo riempie di ragazzi senza molta carriera ma in compenso mezzi matti come lui.

«Tu, come ti chiami?». «Così e cosà». «E cosa vorresti fare?».

«Mah, politica estera…». «Ok, cronaca nera».

La cronaca, al Giornale del Sud, la si fa all’avventura.

Non si conosce nessuno, si parte proprio da zero. Ci sono storie divertenti, tipo quella del povero emarginato napoletano che arriva in redazione e tutti fanno i pezzi commoventi sul povero emarginato e poi arriva Lizzio dalla questura per un paio di stupri…

Si chiude alle tre di notte; non si “buca” una notizia.

Con grande stupore, i catanesi apprendono che a Catania c’è una cosa che si chiama mafia. E che Catania è divenuta un centro del traffico di droga.

Dopo qualche mese, un attentato: un chilo di tritolo. Ma si va avanti.

La faccenda dura un anno. Poi succedono tre cose.

La prima è che gli americani decidono che la Sicilia va bene per coltivarci missili.

E questo a Fava non va bene, e lo scrive.

La seconda che a Milano acchiappano un grosso mafioso, Ferlito, parente di un assessore e uomo di molto rispetto;

e anche qua, Fava si comporta piuttosto – come dire – maleducatamente.

La terza è che nella proprietà del giornale arrivano amici nuovi, uno dei quali è…

– ok, avvocato, niente nomi –

… un importante imprenditore catanese coinvolto nel caso Sindona e un altro un importante politico catanese coinvolto nell’assessorato all’agricoltura.

Telegramma all’illustrissimo dottor Fava:

«Comunichiamo con rincrescimento a vossignoria illustrissima che il giornale ora ha un altro direttore».

I matti, i ragazzi della redazione vogliamo dire, occupano il giornale. L’occupazione dura una settimana, durante la quale gli occupanti ricevono la solidarietà di alcuni tipografi, di una telefonista, di un guardiano notturno e di un ragazzino dell’Ansa (a pensarci, anche un giornalista ha telefonato, allora). Poi arriva il sindacato e, molto ragionevolmente, l’occupazione finisce.
Senza Fava finisce anche, e alla svelta, il Giornale del Sud (perché non-leggere le stesse notizie su un giornale nuovo, se puoi già non-leggerle su quello vecchio?).

Ma Fava nel frattempo non s’è stato con le mani in mano. Ha raccolto una decina dei “suoi” matti: «Si fa un giornale».

Come, quando e se si farà non lo sa nessuno.

Ma intanto si mette su una bella redazione, con le sue brave “lettera ventidue” scassate.
Chi è disposto a investire qualche centinaio di milioni su due “lettera ventidue” scassate, dieci matti fra i venti e i venticinque anni e uno di sessanta? Ovviamente, nessuno.

D’altra parte dopo l’esperienza del GdS Fava e i suoi, a sentir parlare di padroni, si mettono a bestemmiare.

Allora si mette su una bella cooperativa – «Radar!». «E che vuol dire?».

«Suona bene!» – si disegna un bellissimo stemmino per la cooperativa e si firmano alcune tonnellate di cambiali.

Due mesi dopo arrivano due bellissime Roland di seconda mano, offset bicolori settanta/cento, e Fava se le cova con lo sguardo che se invece di essere due offset fossero due turiste svedesi lo denuncerebbero per stupro.

A fine novembre, Pippo Fava arriva in redazione, schiaccia l’Esportazione nel portacenere e fa:

«Ragazzi, si fa il giornale». «Quando?» «Con quali soldi?»

«Io faccio il pezzo sulla Procura!» «Come lo chiamiamo?» «Io ho un’idea per il pezzo di colore» «Ma i soldi…».

La vigilia di Natale, le Roland sputano una cosa rettangolare con scritto su

«I Siciliani».

Anno uno, numero uno, i cavalieri di Catania e la mafia, la donna e l’amore nel sud. Un tipografo porta il pupo in redazione. «Be’, potrebbe anche andare» fa uno dei redattori con nonchalance, e subito dopo si mette a ballare.
Il giornale arriva in edicola alle nove di mattina.

A mezzogiorno non ce n’è più (a piazza della Guardia, dicono, due fanno a cazzotti per l’ultima copia: ma onestamente non ne abbiamo le prove). Si brinda nei bicchieri di plastica, e si prepara il numero due; nel cassetto i mazzi di cambiali sembrano meno minacciosi.

Ed è passato un anno. La mafia, a Catania, c’è o non c’è?

«Ma no… al massimo un po’ di delinquenza…» (il signor Prefetto).

«Cristo se c’è! E sbrigatevi a fare qualcosa che qui finisce peggio di Napoli» (I Siciliani).

E quel signore, come si chiama quel signore là?

«Noto pregiudicato…» (la stampa per bene).

«Santapaola Benedetto, detto Nitto, MAFIOSO!» (I Siciliani).

 

E i missili, dite un po’, vi dispiace se lascio un paio di missili nel sottoscala? «Ma prego, si figuri, come fosse a casa sua!».

«Ahò! Ca quali méssili e méssili! I cutiddati a’ casa vostra, si vvi l’aviti a ddàri!»

 

E i cavalieri, vediamo un po’; anzi, i Cavalieri?

«Ecco dunque cioè nella misura in cui ma però… AIUTO diffamano Catania!»

«I cavalieri catanesi alla conquista di Palermo con la tolleranza della mafia.

Firmato Dalla Chiesa. Noi stiamo con Dalla Chiesa».

Ed è passato un anno.

C’è un ragazzino, a Montepò, che ancora non sa bene se andrà a fare il suo primo scippo o no. C’è una vecchia, in via della Concordia, che è rimasta fuori dall’ospedale perché non c’era posto. C’è una tizia, a viale Regione Siciliana, che costa ventimila lire ed ha quattordici anni. C’è un manovale, alla zona industriale, che ci ha rimesso una mano e dicono che la colpa è sua. C’è uno sbirro, in viale Giafaar, che ha una bambina a casa ma va di pattuglia lo stesso. C’è una bambina, da qualche parte allo Zen, che forse diventerà una puttana e forse una donna felice.

E c’è un’altra bambina, in un cortile pieno di sole, e ora Pippo Fava prende in braccio la bambina e la bambina ride.

«Nonno, nonno, ora faccio l’attrice».

«Qualche volta mi devi spiegare chi ce lo fa fare, perdìo. Tanto, lo sai come finisce una volta o l’altra: mezzo milione a un ragazzotto qualunque e quello ti aspetta sotto casa…

Beh, te lo prendi un caffé? E l’occhiello, vedi che dieci righe per un occhiello a una colonna sono troppe».

Forse mezzo milione, forse di più: il tizio, con l’altro tizio e quello che doveva dare il segnale, era là ad aspettare e ha alzato la 7,65 e ha sparato. Professionale.

Certo, in una villa di Catania, s’è brindato, quella notte.

Forse ha avuto il tempo di guardarlo negli occhi. Non pensiamo spaventato.

Forse, impietosito. Sapendo benissimo che il tizio pagato – uscito forse da un miserabile quartiere, uno di quelli che lui non era riuscito a salvare – sparava anche contro se stesso, contro la propria eventuale speranza.

Forse ha pensato che un giorno o l’altro quelli che venivano dopo di lui ci sarebbero riusciti a farli smettere di sparare, a…

Ma forse non gliene hanno dato il tempo.

***

E questo è tutto.

Ok, ringraziamo tutti quanti, grazie di cuore a tutti.

Adesso dobbiamo ricominciare a lavorare, c’è ancora un sacco di lavoro da fare per i prossimi dieci anni.

Mica possiamo tirarci indietro con la scusa che è morto uno di noi.

Se qualcuno vuole dare una mano ok, è il benvenuto, altrimenti facciamo da soli,

tanto per cambiare.
Va bene così, direttore?

Elena Brancati, Cettina Centamore, Santo Cultrera, Claudio Fava, Agrippino Gagliano, Miki Gambino, Giovanni Iozzia, Rosario Lanza, Nanni Maione, Riccardo Orioles, Nello Pappalardo, Tiziana Pizzo, Giovanna Quasimodo, Antonio Roccuzzo, Fabio Tracuzzi, Lillo Venezia.

La pelle d’oca su Pippo Fava

L’ha scritta Claudio, il figlio, ed è stupenda:

Quella sera eravamo in quattro. Noi quattro, come al solito, attorno al tavo­lo della cucina a casa della signora Roc­cuzzo. Riccardo scelse i gialli, che non vo­leva mai nessuno. Antonio e Miki rossi e neri, una vecchia sfida di colori domina­ti che non si risolveva mai. Io mi presi i ver­di, colore fesso, tiepido, di quelli che non la­sciano traccia.

Giocammo con candore e accanimen­to, come sempre, improvvi­sando allean­ze, atacchi e ripiegamenti, sacrifici, tradi­menti: tutto.

Il canovaccio prevedeva ruoli immutabi­li. Miki con la sua bella fac­cia da guappo dava la scala­ta al mon­do spostand­o armate attraverso oceani imma­ginari. Antonio, prudente come un segre­tario di sezione, puntava alla Cina, cuore immobil­e di un’Asia at­traversata da straordi­narie mito­logie, la Yacuzia, la Kamchat­ca, il Siam… Ric­cardo intanto s’ammas­sava da qualche parte e lì aspetta­va la guerra, sag­gio im­mobile, come se quell’unico territor­io pos­seduto fosse l’isola di Strom­boli, pro­tetta dal mare e dagli dei.

Di me non so, non ricordo: ap­plicavo le regole del gio­co, attaccavo, ar­retravo, pas­savo la mano. Pensavo che le guerre si vincono provando a non perder­le, facendo i ragio­nieri sulle baionette. Avevo ancora un’età onesta, mi era con­sentito non capi­re un cazzo.Insomma la partita fu come altre cento prima di quella sera: lunga, sfacciata, rio­tosa. Nessuno vinceva, nessuno vin­se.

Non so chi, alle tre del mattino, prese il logoro cartone del risiko e lo fece sal­tare in aria mescolando definitivamente carri armati, territori, ambizioni. Per la prima volta scegliemmo di non arrivare fino in fondo: ci mandammo allegramen­te affan­clo e ce ne andammo a dormire strippati di amaro averna, sazi e giusti come chi crede di essere immortale.

Il giorno dopo ammazzarono mio pa­dre.

Dopo trent’anni, se dovessi portare con me una cartolina di quei giorni e degli anni che vennero dopo, sarebbe questa. Il tavolo della signora Roccuzzo, il cartone slabbrato del risiko, la faccia ancora im­macolata di quattro ragazzi che si stanno gio­cando l’ultima partita, prima che la vita gli precipiti addosso.

[Claudio Fava per I Siciliani Giovani]

L’Era Alemanna: il conto alla rovescia

coverAlemannaBNScrivere un libro che è anche un contenitore di progetti diversi. E’ la sfida (vinta) di Pietro Orsatti che esce tra poco con “L’Era Alemanna”.

Esce il 25 aprile, e non è un caso, L’Era Alemanna, un ebook scritto da Pietro Orsatti e edito dalla testata I Siciliani – giovani http://www.isiciliani.it (ne avete letto qui sul blog) che si ispira a quel mensile fondato e diretto nei primi anni ’80 da Giuseppe Fava. Un ebook che racconta il degrado dei 5 anni della peggiore amministrazione che abbia mai avuto la capitale: quella guidata dal sindaco Gianni Alemanno.

Esce a un mese dalle elezioni amministrative, come contributo al dibattito e narrazione di quello che ha vissuto la città. E anche per sostenere il progetto de I Siciliani – giovani. Perché il progetto della testata è anche quello di riportare in edicola e in libreria un prodotto collettivo rigorosamente eretico e che vuole investire sul lavoro e la creatività dei tanti giovani che vi hanno aderito.

Ne diamo l’annuncio anticipatamente anche perché intendiamo promuovere a Roma una serie di incontri e presentazioni per aprire un dibattito vero su quello che sono stati questi 5 anni e su cosa fare per uscirne. Quindi invitiamo a contattare l’autore sul suo blog http://www.orsattipietro.wordpress.com o la testata attraverso il sit o http://www.isiciliani.it e, ovviamente, ad acquistare attraverso il sito o attraverso le piattaforme http://www.lulu.com e http://www.amazon.com che lo distribuiranno. A un prezzo indicativo di 3 euro.

Ecco la premessa al libro scritta da Pietro:

Questa non è un’inchiesta, anche se spunti di inchiesta se ne troveranno e non pochi, quanto un reportage e diario politico e personale realizzato fra il 2007 e il 2013 e che mira a raccontare  gli effetti che ha avuto la giunta Alemanno sulla vita sociale, economica, morale e culturale della capitale.

Sei anni, perché il racconto parte appunto nel luglio 2007 con l’apparizione di Gianni Alemanno, in compagnia del suo allora camerata di partito Francesco Storace, alla manifestazione dei tassisti al Circo Massimo e si conclude con l’arresto nel marzo 2013  di Mancini, suo uomo di fiducia al vertice per lungo tempo dell’Ente Eur – forse il più ricco in termini di patrimonio immobiliare a Roma – per una storiaccia di presunte tangenti ricevute da un’azienda della galassia Finmeccanica, la Breda Menarini.

E in mezzo ci sta Roma. E i romani vecchi e nuovi, che siano nati al Testaccio o a Bucarest, a Primavalle o a Karachi.

Scrivevo un anno fa, all’epoca del fattaccio brutto di Torpignattara, quello in cui perse la vita un commerciante cinese e sua figlia nel corso di una rapina per strada: “Una città senz’anima, che ha perso il treno per diventare davvero capitale. Cupa, egoista, provinciale, sporca di una sporcizia immateriale. Una sporcizia morale”.

L’Era Alemanna fa impallidire il disastro messo in piedi dal sindaco Giubilo negli anni ’80. Quel Giubilo che era diventato democristiano dopo una lunga militanza in quella destra (proprio la stessa) da cui proviene Gianni Alemanno. Giubilo creatura dello “squalo”, Vittorio Sbardella, passato alla storia per la sua giovanile partecipazione all’assalto della libreria Rinascita e poi per le 1200 delibere approvate nella notte che precedette la cessazione dei suoi poteri e l’insediamento del commissario prefettizio. Alemanno è riuscito a superare perfino quelle vette che si credevano irraggiungibili.

Oltre alle due parentopoli Ama e Atac c’è una lista impressionante di fatti e episodi: il consulente del suo Gabinetto Giorgio Magliocca indagato per concorso esterno alla Camorra in seguito e dopo un lungo iter giudiziario scagionato da ogni accusa e anzi probabile vittima di una “mascariata” messa in piedi dalla criminalità organizzata per colpire lui e forse condizionare in qualche modo le azioni future di Alemanno, la moglie Isabella Rauti indagata anche lei per concorso in abuso di ufficio, gli ex terroristi NAR assunti nelle partecipate, le presunte truffe sul sale della celeberrima emergenza neve del 2012 con il corollario grottesco di gaffe e polemiche propagandistiche mentre la città collassava in pochi centimetri di neve, le gare pubbliche con un solo partecipante (parlo di quella relativa alla Tevere SPA e all’affidamento di parte consistente del trasporto pubblico su gomma), le figuracce del GP di automobilismo e delle Olimpiadi (e delle ipotesi di speculazioni immobiliari mai abbastanza indagate come motivazione di quelle due candidature e probabilmente collegate alle ipotesi divariazioni de PRG se le due iniziative fossero andate in porto), E ancora, il suo addetto stampa che misteriosamente compare sul luogo di uno stupro alla vigilia delle elezioni, la prova di forza in consiglio comunale – sfregio al risultato del referendum sull’acqua pubblica – per la privatizzazione della partecipata Acea, il tentativo fallito, in concerto con il governatore della Regione Renata Polverini, sulla gestione dei rifiuti di favorire i soliti noti nell’effare colossale della gestione dei rifiuti della capitale fino all’inevitabile  collasso (con tanto di pricedura di infrazione avviata dall’Unione Europea) cercando prima di far partire una discarica davanti alla Villa D’Este di Tivoli (contro la quale si è pronunciata perfino l’Unesco) poi di favorire – dopo un balletto patetico mirato a determinare come unica scelta possibile davanti a un’emergenza da loro stessi creata e alimentata –  la proprietà della discarica di Malagrotta (ormai satura) con la creazione di un’altra discarica in un territorio già compromesso e a rischio da decenni. Ovviamente con tanto di conflitto con il governo nazionale.

E come potremmo dimenticare poi, gli affari e affarucoli della sua corte fra “magnate” di pajata con Bossi e feste dei cortigiani? Un’orgia di sottopotere esplosa sotto il suo regno e di quello della sua “socia” Renata Polverini governatrice della Regione.

E non dimenticherò di certo quella guerra di mafia in corso da almeno due anni per il controllo del racket e del traffico di droga negata a ogni morto ammazzato per strada (e ormai si parla di decine e decine di omicidi). Negata perché “la mafia a Roma non esiste”.

E ancora la beffa del comune che si presenta parte civile al processo sull’Ama ma solo per difendere l’immagine del sindaco danneggiata da quella vicenda. La sua immagine non la città, non confondiamoci.

Tutto questo c’è nell’Era Alemanna, ma non descritto attraverso un’esposizione asettica di fatti, ma nel racconto  di questa città che si degrada giorno per giorno grazie a questa gestione disastrosa. Un racconto partigiano. Come scriveva Saverio Lodato nell’introduzione del libro Quarant’anni di Mafia, non troverete in questo libro non troverete qui “un resoconto algido e asettico di quelle vicende, non essendo stato, io, inviato in terra straniera”.

Il racconto che state per leggere è costruito per frammenti non in ordine cronologico. Avanza per immagini, sensazioni, dati, racconti. È, credo, il modo migliore per rendere giustizia parziale a quello che abbiamo vissuto. A come l’ho vissuta io.

Pietro Orsatti, Roma, marzo/aprile 2013

29 anni fa: Pippo Fava

Ricorrono oggi i ventinove anni dall’assassinio di Pippo Fava. In occasione dell’anniversario, riporto qui un estratto del mio libro NOMI, COGNOMI E INFAMI (Verdenero, 2010) , dedicato anche alla sua vicenda.

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PIPPO FAVA 2Ho riso incazzato sulle parole di Peppino Impastato, ho studiato con meraviglia l’integrità politica di Pio La Torre ma, più di tutto, sono rimasto incastrato per stima sulla vita di Pippo Fava. Incastrato da una stima immobilizzante che mi consola. Sarà che Giuseppe Fava era un giornalista, un drammaturgo, uno scrittore e un politico anche senza scranno. Politico nel senso di guardare la politica negli occhi e scriverne senza smancerie. Sarà che Pippo Fava l’ho visto per la prima volta in una fotografia in bianco e nero  con quel naso troppo grosso sopra una barba tagliata male mentre si apre in un sorriso pensieroso. Sarà che se c’è una forma che mi colpisce è sempre stato un uomo serio che riesce a distendere un sorriso.

O forse di Pippo mi colpisce soprattutto il carisma. Il carisma che non si riesce mica a sparare anche se l’hanno provato ad ammazzare a Catania il 5 gennaio del 1984. Un direttore che si è inventato il suo giornale (I Siciliani) che ancora oggi continua a vivere nelle penne dei suoi “carusi” che, ormai cresciuti, militano nelle testate più diverse del nostro panorama. Un giornale mica fatto solo con la carta da giornale ma vissuto come una missione. Un giornale con una stanza di militanti e senza nemmeno i pennivendoli. Lo racconta bene il suo ex collega Riccardo Orioles: “Chi non ha sentito parlare dei Siciliani di Giuseppe Fava? Un piccolo giornale, eppure ancora oggi – trent’anni dopo la fondazione – quando si parla di giornalismo antimafia si pensa a loro. Un giornale “anti” mafia ma in realtà “per” un sacco di altre cose. La democrazia della “polis”, i diritti dei poveri, la pace, il riscatto del Sud come rinnovamento profondo politico e morale: quante cose stavano in quelle duecento pagine che ogni mese uscivano, senza pubblicità e senza stipendi, da una città della Sicilia per parlare all’Italia intera!

È una storia lunghissima, quella di Pippo Fava e dei suoi “carusi”; non è mai finita. Vive tuttora in tanti gruppi di giovani – professionali e “militanti”, come allora”. Il proprio lavoro vissuto come l’unico vestito disponibile nell’armadio. Fieramente incapace di smetterlo e di dismet terlo. L’editoriale del primo numero de I Siciliani nel 1983 è il manifesto di una vita. Scrive Fava

“I Siciliani vengono avanti nel grande spazio della informazione e della cultura, nel momento preciso in cui il problema del Meridione è diventato finalmente, anzi storicamente, il problema dell’intera Nazione…I Siciliani vuole essere appunto il documento critico di una realtà meridionale che profondamente, nel bene e nel male, appartiene a tutti gli italiani. Un giornale che ogni mese sarà anche un libro da custodire. Libro della storia che noi viviamo. Scritto giorno per giorno”. Giorno per giorno, con quella quotidianità della battaglia che è il sale di tutte queste storie. La concezione etica del proprio lavoro come unica strada percorribile. Ogni tanto, quando mi prende lo sconforto, rileggo Fava nel silenzio della mia solitudine che non ha mai meno di tre persone. Leggo la sua caparbietà che ha la forma di un polso forte. Ripenso a quel sorriso nonostante (come diceva spesso lui stesso) “qualche volta mi devi spiegare chi ce lo fa fare, per dìo. Tanto, lo sai come finisce una volta o l’altra: mezzo milione a un ragazzotto qualunque e quello ti aspetta sotto casa…”

C’è un’altra dichiarazione che oggi, in questo paese in alcuni pezzi ancora così disgraziato e analfabeta (o colluso) sulla questione delle mafie, andrebbe stampata e distribuita fuori dalle scuole, sopra i tram o dentro i bar. È dell’undici 1981 ottobre mentre Fava dirigeva il Giornale del Sud.

«Io ho un concetto etico del giornalismo. Ritengo infatti che in una società democratica e libera quale dovrebbe essere quella italiana, il giornalismo rappresenti la forza essenziale della società. Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza della criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili. pretende il funzionamento dei servizi sociali, tiene continuamente allerta le forze dell’ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo. Se un giornale non è capace di questo, si fa carico anche di vite umane. Persone uccise in sparatorie che si sarebbero potute evitare se la pubblica verità avesse ricacciato indietro i criminali: ragazzi stroncati da overdose di droga che non sarebbe mai arrivata nelle loro mani se la pubblica verità avesse denunciato l’infame mercato, ammalati che non sarebbero periti se la pubblica verità avesse reso più tempestivo il loro ricovero. Un giornalista incapace – per vigliaccheria o calcolo – della verità si porta sulla coscienza tutti i dolori umani che avrebbe potuto evitare, e le sofferenze, le sopraffazioni, le corruzioni, le violenze che non è stato capace di combattere. Il suo stesso fallimento! Ecco lo spirito politico del Giornale del Sud è questo! La verità! Dove c’è verità, si può realizzare giustizia e difendere la libertà! Se l’Europa degli anni trenta-quaranta non avesse avuto paura di affrontare Hitler fin dalla prima sfida di violenza, non ci sarebbe stata la strage della seconda guerra mondiale, decine di milioni di uomini non sarebbero caduti per riconquistare una libertà che altri, prima di loro, avevano ceduto per vigliaccheria.  È una regola morale che si applica alla vita dei popoli e a quella degli individui. A coloro che stavano intanati, senza il coraggio d’impedire la sopraffazione e la violenza, qualcuno disse: “Il giorno in cui toccherà a voi non riuscirete più a fuggire, nè la vostra voce sarà così alta che qualcuno possa venire a salvarvi!”».

Vorrei riuscire a tenermelo sempre nel portafoglio, questo suo spirito. E poi sarà che sono inchiodato su Pippo Fava perché anche lui ha dovuto subire l’onta di una morte distorta e calpestata. Fava viene ucciso alle 10 di sera del 10 gennaio 1984. Era in auto per andare a prendere la nipote che stava calcando le scene del Teatro Verga di Catania. Mi gioco tutto che era in auto con la soddisfazione a forma di sorriso della vecchia foto in bianco e nero, con una nipotina che seguiva le orme dello zio che i teatri li aveva abitati con la giacca del drammaturgo. In via dello stadio gli sparano cinque pallottole calibro 7,65 alla nuca. Come si usa per le bestie prima di passarle al macello. In Catania rimbombavano ancora le parole dell’articolo su “I quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa”, un pezzo sulle attività illecite di quattro imprenditori catanesi, Carmelo Costanzo, Gaetano Graci, Mario Rendo e Francesco Finocchiaro, e di altri personaggi come Michele Sindona collegati al boss Nitto Santapaola. Addirittura dopo quell’articolo Rendo, Salvo Andò e Graci avevano cercato di comprarsi il giornale, per zittirlo. Non si era ancora spento l’eco degli spari che già colava fango sopra al cadavere: il sindaco Angleo Munzone sposò subito la tesi dei giornalisti che parlavano di delitto passionale (tesi sostenuta sulla base dell’arma diversa da quelle solitamente usate per delitti mafiosi). L’onorevole Nino Drago addirittura esibì la propria pochezza istituzionale chiedendo una chiusura rapida delle indagini perché “altrimenti i cavalieri potrebbero decidere di trasferire le loro fabbriche al Nord”. Ma la denigrazione che mi più mi sanguina e mi lascia questo nodo alla gola è un passo di due articoli de La Sicilia nei giorni successivi alla morte. Quando li ho letti per la prima volta ero nel pieno della frana di silenzio e minaccia che mi aveva seppellito la famiglia e passavo ore a provare a raccontare il mio lavoro sempre in bilico tra la notizia, la scena, la parola, la risata e la favola. Sbattevo la testa per difendermi dal recinto dell’attore in cui sarebbe stato facile sminuirmi. Gridavo che era un gesto insulso e senza dignità. Non lo credevo possibile, prima di leggere gli articoli di Tony Zermo su Pippo Fava

“L’hanno ucciso da mafiosi. E non è facile capire il motivo, perché lui era sì scrittore di mafia, era sì uomo libero, e battagliero, ma era soprattutto un artista. […] Non era per naturale vocazione un inquisitore della mafia, era un uomo a cui piaceva profondamente vivere[…] Si possono fare tante ipotesi sul perché è stato ucciso. Tutto lascia credere che si tratti di un agguato mafioso. Ma perché la mafia ha deciso di eliminarlo? Cosa ha fatto, cosa ha scritto che ha portato alla sua eliminazione? Forse per le sue ultime parole pronunciate nell’ultima trasmissione  di Enzo Biagi?[…] Lui vedeva la mafia da artista[…]”. “Probabilmente bisognerà cercare, si dovrà cercare in quello che ha scritto sulla sua rivista[…] E però anche in questa direzione si troverebbe poco perché lui non aveva scoperto nulla di particolarmente importante[…] Sono parole di un uomo di cultura, di un giornalista che vede la realtà con l’occhio dello scrittore civilmente impegnato: ma non sono denunce precise, non ci sono nomi e cognomi, non c’è nulla che possa far presumere un delitto per ritorsione[…] Rappresentava un pericolo non per quello che aveva scritto, ma per quello che poteva ancora dire o scrivere[…] Non è facile, comunque, capire questo delitto[…]”.

Dentro la storia di Pippo Fava ci vedo il riflesso della stessa pochezza.