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Poveri, ovvero ricchi che non ce l’hanno fatta

Forse sarà che abbiamo una classe politica più dedita alla rappresentazione che alla rappresentanza ma questa estate la ricorderemo come la stagione dell’esplosione definitiva della pauperofobia. Non si tratta di un’irrazionale paura della povertà, come ci si potrebbe perfino aspettare in un Paese di aspiranti borghesi sempre sul limite del bonifico, dove l’autopreservazione è la realizzazione più alta a cui aspirare. È piuttosto una paura epidermica e nervosa di poveri, un’irritazione sociale che provoca reazioni scomposte ogni volta che se ne incontra qualcuno. Come per quelli che temono i ragni e agitano le tende con le dita, terrorizzati che la bestiolina possa saltare fuori.

Che paura, i poveri. Li incroci girando l’angolo di qualche periferia, li trovi in mandria che prendono il primo treno del mattino. E ogni volta una vocina nella testa ripete che no, non è tutto così serenamente previsto. Per evitarli, fisicamente e intellettualmente, i pauperofobici fanno il giro lungo. Non è volontà di disinfestazione (anche i pauperofobici sanno che senza poveri non esisterebbero i ricchi), piuttosto il sogno di una modalità di vita e di mondo che gli permetta di non doversene curare, di poter adottare un distanziamento sociale, politico e culturale utile ad alimentare l’illusione che non esistano.

La retorica sul reddito di cittadinanza e sulle colpe di chi è in stato di indigenza è il mezzo dei politici per scacciare la paura dei poveri
Milano, un “muro della gentilezza” (Getty)

La povertà come punizione giusta per un fallimento

Il pauperofobico, poi, ha bisogno di trovare le colpe. Per lui la povertà non esiste ma è solo una punizione giusta per un fallimento. Così si rincuora, scoprendo ogni volta quale sia il peccato mortale che ha ridotto qualcuno in cenci. «Se conosco gli errori da non fare e poiché sono sicuro della mia capacità di non compierli, allora non rischierò mai di diventare povero», si ripete ossessivamente e, in quest’estate di pauperofobia, tutti i malati si sono strizzati le meningi per scovare le cause e dormire sereni. Le cause, appunto. Va forte l’indolenza, un sempreverde che dura da decenni e sostiene una visione del mondo per cui se fai quello che devi allora non avrai problemi di sorta (sì, ciao). Va forte la mancata educazione: «beh, con una famiglia così», dicono i pauperofobici dandosi pacche sulla spalla, convinti che lo scopo di uno Stato sia quello di assegnare il marchio doc alla famiglia giusta. E del resto se qualcuno paga lo scotto di nascere in una famiglia così (che significa povera, ma il pauperofobo non ha il coraggio di una parola che gli risuona come bestemmia) è normale diventi così anche lui.

La vera novità però è il reddito di cittadinanza. Il duo dei Mattei ha capito benissimo che i poveri sono tali perché ne hanno ricevuto lo status. E poiché, secondo loro, la parola genera realtà, si ingegnano per dire ai poveri che non sono solo poveri ma semplicemente colpevoli. Hanno passato tutta l’estate a ripeterci che non si trovavano lavoratori perché i poveri sono dei privilegiati che possono cullarsi della loro situazione. Poi è accaduto che l’Inps abbia dato i numeri  – 142mila contratti per gli «stagionali che non si trovano», mai così tanti in 8 anni – e loro abbiano fatto finta di niente. I pauperofobici sono così, scollegati da una realtà che altrimenti li schianterebbe.

I pauperofobici vorrebbero solo un bidone in più per la differenziata

Poiché odiano i poveri, i pauperofobici non sopportano nemmeno che esista un dibattito sulla povertà, vorrebbero semplicemente un bidone in più nella raccolta differenziata per buttarceli dentro e di solito quel bidone si chiama periferia. Sostengono, poi, che il reddito di cittadinanza sia discriminatorio: se esiste un sostegno per i poveri allora perché non pensarne uno anche per i biondi oppure per i cittadini che hanno troppo spazio tra i denti?

Sapete perché odiano i poveri? Perché, in fondo in fondo, hanno la netta sensazione di non conoscere davvero le chiavi del proprio successo. In cuor loro, anche se non lo diranno mai, sanno benissimo che la ricchezza non è un merito (nonostante insistano nel gridarlo) ma spesso una concatenazione di fattori, dal censo alle possibilità che altri non hanno avuto. Come gli artisti che non riescono a governare la propria ispirazione temono fortissimamente di svegliarsi una mattina scoprendo di averla persa. I pauperofobici odiano i poveri perché hanno una paura fottuta di diventarlo. Hanno costruito un’architettura di tesi che non stanno in piedi per rassicurare la loro ossessione nascosta. Convinti se non esisteranno più poveri, svanirà anche l’incubo di risvegliarsi tale. Solo che hanno ammantato questa loro giustificazione rivendendola per tesi politica. Che povertà, di spirito.

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Odiano i poveri, mica la povertà

I 422 lavoratori della Gkn di Campi Bisenzio (Firenze) licenziati via mail: la dimostrazione che in Italia la legge del profitto non può essere messa in discussione da nessuno

Forse il nostro compito sarebbe quello di raccontare proprio questi spigoli, forse aveva davvero ragione Horacio Verbitsky quando diceva che giornalismo è diffondere ciò che qualcuno non vuole si sappia mentre il resto è solo propaganda. Perché forse si potrebbe interrompere questo flusso tossico della narrazione dopata e pervertita che fa sponda con patriottismi su un campo da gioco e deliberate mistificazioni della realtà.

Scusate il disturbo mentre voi discutete della finale di pallone e di come è andata o di Wimbledon e della nostra speranza ma soprattutto scusate il disturbo mentre propagandate un’Italia seduta cullata dal reddito di cittadinanza e fiaccata dai sussidi che sono la regola in tutto Europa: davanti ai cancelli della Gkn di Campi Bisenzio, sullo stradone che dovrebbe ricordare i fratelli Cervi, è in corso un pellegrinaggio laico e altamente costituzionale di un territorio che non riesce proprio a sopportare che 422 persone oltre a qualche centinaio dell’indotto siano stati licenziati con una mail dei padroni di Melrose che li avvertiva della chiusura a freddo della fabbrica di semiassi. E mentre i sindaci del territorio decidono di presentarsi al presidio permanente indossando la fascia tricolore per significare come la disperazione dei singoli debba essere vissuta come ferita di un’intera comunità le reazioni dei politici nostrani è qualcosa che fa orrore per insensibile ferocia e per la distanza con la realtà. «La vicenda della Gkn è inaccettabile, l’intero sistema Paese, governo, Confindustria,  imprese, deve rendersi conto che se questo è l’andazzo del dopo 30 giugno, allora va cambiato» ha detto il segretario del Pd Enrico Letta, come se gli sfuggisse davvero che Confindustria abbia chiesto lo sblocco dei licenziamenti per poter licenziare (incredibile, vero?). Matteo Salvini riesce a buttarla sul tifo e interviene con una risposta che come al solito non risponde. Dice che ha già parlato «con il ministro dello Sviluppo economico (Giancarlo Giorgetti), che ha già 100 tavoli di crisi da seguire ma si interesserà anche di questa» (ma grazie, quale onore, che gentile concessione) e si augura che anche «la Regione Toscana faccia del suo, perché in queste vicende le Regioni hanno un ruolo fondamentale», buttando come al solito un po’ di fango sul nemico fottendosene delle vittime a terra.

Il punto vero è che no, l’Italia non è un Paese che non trova lavoratori per colpa del reddito di cittadinanza (a proposito, Matteo Renzi propone un referendum per abolirlo e i primi ad applaudirlo sono proprio Salvini e Crosetto di Fratelli d’Italia, basta questo per dire tutto): l’Italia è quel Paese in cui si pensa di abolire delle misure di sostegno e di difesa del lavoro senza nemmeno prendersi la briga di pensarne altre, di progettare delle alternative. La legge del profitto non può essere messa in discussione da nessuno, è solo una guerra tra il licenziamento in tronco (per poi riassumere con salari più bassi e con minori tutele) e il finanziare le imprese perché non licenzino in tronco. La discussione politica è incastrata tutta qui.

Non c’è nessuno ad esempio che faccia notare a Calenda (che propone di fare spazzare le strade ai percettori di reddito di cittadinanza) che basterebbe assumerli come spazzini con uno stipendio giusto e adeguati. Non c’è nessuno che faccia notare a Draghi (che parla di grande ripresa per le imprese italiane) che il suo compito sarebbe quello di uscire dalla pandemia tutti insieme. Non c’è nessuno che faccia notare al Pd che Letta è stato il primo a confermare la tesi (ne parlavamo in un buongiorno di qualche giorno fa) di questi leader che si sarebbero stupiti per una macelleria sociale che è solo all’inizio.

La quarta ondata della pandemia è la disuguaglianza con cui si divideranno le macerie delle ondate precedenti. È un dibattito che interessa l’economia ma che contiene dentro l’umanità  (ah, che schifo l’umanità). Il titolo Melrose, dopo la chiusura della Gkn, ha subito guadagnato il 4,55% in borsa: il vertici dell’azienda parlano di «costante contrazione dei volumi e della domanda» ma le loro stesse ricerche di settore parlano invece di un pieno recupero dei volumi di vendita pre Covid dal 2023, e poi di ulteriori incrementi.

Scusate il disturbo ma questa storia mi sembra molto più significativa e paradigmatica di un albergatore qualsiasi che non trova camerieri da sottopagare. Lo scriviamo ancora: combattere i poveri fingendo di combattere le povertà è immorale.

Buon lunedì.

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L’Istat calcola 5,6 milioni di poveri. Ma per certi politici e imprenditori i sussidi sono roba per fannulloni

Attenzione a giocare con i poveri, attenzione a giocare con i disoccupati e soprattutto attenzione a credere che la pandemia sia finita. L’ultima rivelazione Istat disegna un Paese molto diverso dalla retorica che gocciola un po’ dappertutto: quel Paese nel pieno di un “miracolo economico” come insiste nel ripetere Confindustria, quel Paese di “svogliati” circondati da quintali di occasioni che non vorrebbero cogliere per godersi le partite in televisione.

Dall’ultima rivelazione emerge che il 9,4% della popolazione italiana vive in povertà assoluta, per un totale di due milioni di famiglie, 5,6 milioni di persone di cui 1,3 milioni di minori. L’ultimo anno di Covid ha aumentato la percentuale delle famiglia dal 6,4% al 7,7% e gli individui dal 7,7 al 9,4%.

Come al solito è il Sud a pagare il prezzo più alto: l’incidenza varia dal 9,5% del Centro al 14,5% del Mezzogiorno. Le condizioni dei minori peggiorano a livello nazionale (da 11,4% a 13,5%) e in particolare al Nord (da 10,7% a 14,4%) e nel Centro (da 7,2% a 9,5%).

Il 20,5% delle famiglie con cinque o più componenti è in povertà assoluta, l’11,2% per quelle con quattro componenti e siamo all’8,5% se si è in tre in famiglia.

Come sempre la diffusione della povertà è inversamente proporzionale al titolo di studio: se la persona di riferimento ha conseguito almeno il diploma di scuola secondaria superiore, l’incidenza è pari al 4,4% mentre si attesta al 10,9% se ha al massimo la licenza di scuola media.

Tutti i dati sono in netto peggioramento rispetto al 2019, molto al di sotto delle previsioni e soprattutto a pochi mesi dallo sblocco dei licenziamenti che renderà ancora più difficile il quadro generale.

Il quadro reale della situazione, insomma, è una realtà completamente differente, se non addirittura opposta, rispetto alla narrazione iperottimistica di gran parte del governo e delle realtà industriali.

Sorge allora spontanea una domanda a cui la politica finge di poter non rispondere: mentre si continua con questa tiritera dei sussidi che sarebbero soldi sprecati, mentre si persevera nell’occuparsi di iniettare liquidità alle aziende, cosa si ha intenzione di fare per quelle milioni di persone che non hanno certo la sensazione di poter coltivare speranza?

Siamo sicuri che funzionerà ancora a lungo questa colpevolizzazione della povertà e questo continuare a volerla nascondere? Forse sarebbe il caso che qualcuno dalle parti del governo smetta i panni del moralizzatore dei poveri e se ne occupi come il suo ruolo gli impone. Occupatevi dei poveri piuttosto che bastonarli.

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Dal bacio di Biancaneve a «è una vergogna signora mia…»

Era inevitabile ed è accaduto: a furia di moltiplicare iperboli per leccare anche l’ultimo clic indignato sul fondo della scatola perfino Enrico Mentana decide di dire la sua sulla “cancel culture” con due righe veloci, di passaggio, sui social paragonandola niente popò di meno che ai roghi dei libri del nazismo, con annessa foto di in bianco e nero di un rogo dell’epoca perché si sa, l’immagine aumenta a dismisura la potenza algoritmi del post.

Una polemica partita da un giornalino di San Francisco

La settimana delle “irreali realtà su cui pugnacemente dibattere” questa settimana in Italia parte dal bacio di Biancaneve cavalcato (in questo caso sì, con violenza amorale) da certa destra spasmodicamente in cerca di distrazioni e si conclude con gli editoriali intrisi di «è una vergogna, signora mia» di qualche bolso commentatore pagato per rimpiangere sempre il tempo passato. Fa niente che non ci sia mai stata nessuna polemica su quel bacio più o meno consenziente al di là di una riga di un paio di giornaliste su un quotidiano locale di San Francisco: certa intellighenzia Italiana si spreme da giorni sull’opinione di un articolo di un giornalino oltreoceano convinta di avere diagnosticato il male del secolo, con la stesa goffa sproporzione che ci sarebbe se domani un leader di partito dedicasse una conferenza stampa all’opinione di un avventore del vostro bar sotto casa. Un ballo intorno alle ceneri del senso di realtà per cui si son agghindati tutti a festa, soddisfatti di fare la morale a presunti moralisti di una morale distillata dall’eco dopata di una notizia locale.

Se la battaglia “progressista” si ispira a Trump

Chissà se i democraticissimi e presunti progressisti che si sono autoconvocati al fronte di questa battaglia sono consapevoli di avere come angelo ispiratore l’odiatissimo Donald Trump, il migliore in tempi recenti a utilizzare la strategia retorica del politicamente corretto per spostare il baricentro del dibattito dai problemi reali (disuguaglianze, diritti, povertà, discriminazioni) a un presunto problema utilissimo per polarizzare e distrarre. Nel 2015 Donald Trump, intervistato dalla giornalista di Fox Megyn Kelly su suoi insulti misogini via Twitter («You’ve called women you don’t like fat pigs, dogs, slobs and disgusting animals…») rispose secco: «I think the big problem this country has is being politically correct». Che un’arma di distrazione di massa venisse poi adottata dalle destre in Europa era facilmente immaginabile ma che si attaccassero a ruota anche disattenti commentatori e intellettuali (?) convinti di purificare il mondo era un malaugurio che nessuno avrebbe potuto prevedere. Così la convergenza di interessi diversi ha imbastito un fantasma che oggi dobbiamo sorbirci e forse vale la pena darsi la briga di provarne a smontarne pezzo per pezzo.

La banalizzazione delle lotte altrui è un modo per disinnescarle

C’è la politica, abbiamo detto, che utilizza la cancel culture per accusare gli avversari politici di essere ipocriti moralisti concentrati su inutili priorità: se io riesco a intossicare la richiesta di diritti di alcune minoranze con la loro presunta e feroce volontà di instaurare una presunta egemonia culturale posso facilmente trasformare gli afflitti in persecutori, la loro legittima difesa in un tentativo di sopraffazione e mettere sullo stesso piano il fastidio per un messaggio pubblicitario razzista con le pallottole che ammazzano i neri. La banalizzazione e la derisione delle lotte altrui è tutt’oggi il modo migliore per disinnescarle e il bacio di Biancaneve diventa la roncola con cui minimizzare le (giuste) lotte del femminismo come i cioccolatini sono stati utili per irridere i neri che si sono permessi di “esagerare” con il razzismo. Il politicamente corretto è l’arma con cui la destra (segnatevelo, perché sono le destre della Storia e del mondo) irride la rivendicazione di diritti.

Correttori del politicamente corretto a caccia di clic

Poi c’è una certa fetta di artisti e di intellettuali, quelli che hanno sguazzato per una vita nella confortevole bolla dei salottini frequentati solo dai loro “pari”, abituati a un applauso di fondo permanente e a confrontarsi con l’approvazione dei propri simili: hanno lavorato per anni a proiettare un’immagine di se stessi confezionata in atmosfera modificata e ora si ritrovano in un tempo che consente a chiunque di criticarli, confutarli e esprimere la propria disapprovazione. Questi trovano terribilmente volgare dover avere a che fare con il dissenso e rimpiangono i bei tempi andati, quando il loro editore o il loro direttore di rete erano gli unici a cui dover rendere conto. Benvenuti in questo tempo, lorsignori. Poi ci sono i giornalisti, quelli che passano tutto il giorno a leggere certi giornali americani traducendoli male con Google e il cui mestiere è riprendere qualche articolo di spalla per rivenderlo come il nuovo ultimo scandalo planetario: i politicamente correttori del politicamente corretto è un filone che garantisce interazioni e clic come tutti gli argomenti che scatenano tifo e ogni presunta polemica locale diventa una pepita per la pubblicità quotidiana. A questo aggiungeteci che c’è anche la possibilità di dare fiato a qualche trombone in naftalina e capirete che l’occasione è ghiottissima. Infine ci sono gli stolti fieri, quelli che da anni rivendicano il diritto di essere cretini e temono un mondo in cui scrivere una sciocchezza venga additato come sciocchezza. Questi sono banalissimi e sono sempre esistiti: poveri di argomenti e di pensiero utilizzano la provocazione come unico sistema per farsi notare e come bussola vanno semplicemente “contro”. Chiamano la stupidità “libertà” e pretendono addirittura di essere alfieri di un pensiero nuovo. Invece è così banale il disturbatore seriale. Tanti piccoli opportunismi che hanno trovato nobiltà nel finto dibattito della finta cancel culture.

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La vigliaccheria fiscale

Aumento dei ricavi per Amazon Europa che nel 2020 è arrivata a 44 miliardi di euro. Ma zero tasse. Si diceva che dalla pandemia sarebbe uscito un “nuovo mondo”… Ecco, per ora è esattamente come prima, con i ricchi sempre più ricchi. E una questione enorme politica che passa sottovoce

Complice la pandemia che è stata tutt’altro che una livella per sofferenza dei diversi lavoratori e per danni alle diverse aziende la ricchissima Amazon del ricchissimo Bezos è diventata ancora più ricca aumentando di 12 miliardi i ricavi rispetto all’anno precedente in Europa e arrivando a un totale di 44 miliardi di euro.

Poiché i numeri sono importanti vale la pena ricordare che sono 221 miliardi circa tutti i soldi che l’Italia ha a disposizione dall’Europa per risollevarsi. Giusto per fare un po’ di proporzioni. L’ultimo bilancio della divisione europea di Amazon (lo trovate qui) racconta della società con sede legale in quel meraviglioso paradiso per ricchi che è il Lussemburgo gestisce le vendite delle filiali di Gran Bretagna, Germania, Francia, Italia, Spagna, Olanda, Polonia, Svezia. Ovviamente le tasse si pagano sui profitti, non certo sui ricavi, eppure le acrobazie fiscali di Amazon hanno permesso di risultare in perdita per 1,2 miliardi di euro nonostante un aumento del ricavo del 30%. «I nostri profitti sono rimasti bassi a causa dei massicci investimenti e del fatto che il nostro è un settore altamente competitivo e con margini ridotti», ha spiegato un dirigente di Amazon. Insomma, poveretti, lavorano per perderci. E infatti hanno accumulato 56 milioni di euro di credito d’imposta che potranno usare nei prossimi anni e che portano a 2,7 miliardi di euro il credito totale.

È incredibile che un’azienda che vale in Borsa quanto il prodotto interno lordo dell’Italia non riesca proprio a fare profitto o forse semplicemente i profitti vengono spostati altrove, complice la vigliaccheria fiscale di un’Europa che è sempre forte con i deboli ma è sempre piuttosto debole con i forti, come sempre. Attraverso compravendite fittizie infragruppo tra filiali dei diversi Paesi i guadagni vengono spostati da dove si realizzano a dove più conviene e le contromisure del Lussemburgo contro queste pratiche sono volutamente morbide.

In una nota la commissione Ue commenta: «Abbiamo visto quanto apparso sulla stampa, non entriamo nei dettagli, in linea generale la Commissione ha adottato un’agenda molto ambiziosa in materia di fiscalità e contro le frodi fiscali, nelle prossime settimane pubblicheremo una comunicazione e sul piano globale siamo impegnati con i partner internazionali nella discussione in corso» sull’equa tassazione delle imprese. Si tratta del negoziato per definire un’imposta minima globale per evitare la concorrenza fiscale al ribasso. Quanto agli aspetti di concorrenza, del caso Amazon/Lussemburgo il dossier resta in mano alla Corte di Giustizia Ue: il gruppo Usa e il Granducato hanno contestato la decisione comunitaria che nel 2017 concluse che il Lussemburgo aveva concesso ad Amazon vantaggi fiscali indebiti per circa 250 milioni di euro, un trattamento considerato illegale «ha permesso ad Amazon di versare molte meno imposte di altre imprese». Peccato che contro la decisione europea abbia ricorso Amazon (e questo ci sta) e perfino il Lussemburgo.

Sono numeri spaventosi che raccontano perfettamente come la guerra tra poveri e tra disperati non riesca mai a guardare in alto dove si consumano le ingiustizie peggiori. Vi ricordate quando si diceva che dalla pandemia sarebbe uscito un “nuovo mondo”? Ecco, per ora è esattamente come prima, con i ricchi sempre più ricchi. E invece una questione politica enorme passa sottovoce mentre i nostri leader stanno litigando sul bacio a Biancaneve.

Buon giovedì.

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Caro Conte, anche tu hai tenuto i porti chiusi

La Mezzaluna Rossa libica (l’equivalente più o meno della nostra Croce Rossa) ieri ha annunciato altri 50 morti in un naufragio al largo della Libia. Poco prima l’Oim, l’agenzia dell’Onu per le migrazioni, aveva riferito della morte di almeno 11 persone dopo che il gommone su cui viaggiavano era affondato. La Guardia Costiera libica come al solito dice di non esserne informata. Una cosa è certa: nel Mediterraneo si continua a morire ma la vicenda non sfiora la politica nazionale, merita qualche contrita pietà passeggera e poi scivola via.

L’importante, in fondo, è solo mantenere ognuno la propria narrazione: ci sono i “porti chiusi” di Salvini che rivendica di averlo fatto ma poi in tribunale frigna chiamando in causa anche i suoi ex compagni di governo, c’è il “blocco navale” evocato da Giorgia Meloni, c’è il PD che finge di avere dimenticato di essere il partito che con Minniti ha innescato l’onda narrativa e giuridica che ci ha portati fin qui e c’è il Movimento 5 Stelle che si barcamena tra una posizione e l’altra.

A proposito di M5S: il (prossimo) leader Conte è riuscito a dire in scioltezza “con me porti mai chiusi” provando a cancellare con un colpo di spugna quel suo sorriso tronfio mentre si faceva fotografare al fianco di Salvini con tanto di foglietto in mano per celebrare l’hashtag #decretosalvini e la dicitura “sicurezza e immigrazione”.

Conte che sembra avere improvvisamente dimenticato le sue stesse parole su Sea Watch e sulla comandante Carola Rackete: “è stato – disse Conte – un ricatto politico sulla pelle di 40 persone”. Insomma, non proprio le parole di chi vuole prendere le distanze dalla politica di Salvini.

Oltre le parole ci sono i fatti: l’ultimo atto del Parlamento prima della caduta del primo governo Conte nell’agosto 2019 è stato il “decreto sicurezza bis” che stringeva ancora più i lacci dell’immigrazione. Sempre ad agosto 2019, 159 migranti sulla nave Open Arms sono stati 19 giorni in mare senza la possibilità di attraccare nei porti italiani.

Insomma: partendo dal presupposto che i porti non si possano “chiudere” per il diritto internazionale è vero che Conte a braccetto con Salvini ha sposato l’idea dei “porti chiusi” nel senso più largo e più politico. Ed è pur vero che nessun governo, compreso questo, sembra avere nessun’altra idea politica che non sia quella di galleggiare tra dittature usate come rubinetto per frenare le migrazioni in un’Europa che galleggia appaltando i propri confini. Gli unici che non galleggiano sono i morti nel Mediterraneo.

Leggi anche: I poveri sono falliti e i ricchi sono radical chic: così Salvini non risponde mai nel merito a chi lo critica

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La sparizione del salario minimo

Solo lo scorso 16 marzo la Commissione Lavoro del Senato approvava la direttiva Ue volta a garantire l’adozione del salario minimo legale ai lavoratori degli Stati membri. Il testo impone l’individuazione di soglie minime di salario che possono essere introdotte per legge (salario minimo legale) o attraverso la contrattazione collettiva prevalente, come sottolineato anche dal ministro del Lavoro e delle Politiche sociali Andrea Orlando.

Il salario minimo (su cui Partito democratico e Movimento 5 Stelle hanno depositato diversi disegni di legge negli ultimi anni) è proprio scomparso nella versione del Piano nazionale di ripresa e resilienza inviata alla Commissione europea nonostante fosse presente nel testo entrato in Consiglio dei ministri.

Nella bozza che circolava pochi giorni fa si parlava di una «rete universale di protezione dei lavoratori» e del «salario minimo legale», oltre alla garanzia di una retribuzione «proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto» per tutti i lavoratori non coperti dalla contrattazione collettiva nazionale. Perfetto: è sparito tutto il paragrafo. Non si tratta di correzioni, di aggiustamenti, no, è sparito tutto.

La cancellazione difficilmente può arrivare dall’Europa vista la direttiva che è stata approvata solo un mese fa in Commissione Lavoro e viste le parole durante il proprio discorso allo Stato dell’Unione 2020, che von der Leyen aveva a riguardo, dicendo che «il dumping salariale danneggia i lavoratori e gli imprenditori onesti, mette a repentaglio la concorrenza sul mercato del lavoro – aveva aggiunto – per questo faremo una proposta per un salario minimo in tutti gli Stati dell’Unione. Tutti devono avere accesso ai salari minimi o attraverso la contrattazione collettiva o con salari mini statutari, è arrivato il momento che il lavoro venga pagato nel modo equo».

Qualcuno prova a teorizzare che la cancellazione in extremis potrebbe essere il risultato degli incontri con le parti sociali nella fase finali della stesura, ipotizzando che un eventuale salario minimo possa indebolire le trattative sindacali poiché alcune aziende potrebbero così semplicemente accontentarsi di essere a norma di legge. Peccato che sia da tempo sotto gli occhi di tutti la moltiplicazione di accordi sottoscritti da soggetti non del tutto rappresentativi che hanno contribuito alla corsa al ribasso per certe categorie. Del resto il problema dei contratti pirata (soprattutto nelle zone più depresse del Paese) è sempre poco dibattuto nonostante abbiano affiancato spesso il lavoro nero.

L’ex ministra del lavoro Catalfo disse: «Il salario minimo è da sempre un obiettivo mio e di tutto il Movimento 5 Stelle. Una risposta essenziale per contrastare il cosiddetto dumping salariale, riequilibrare il sistema di concorrenza interna fra le imprese e ridare dignità e futuro ai “working poor” (i lavoratori poveri) e alle loro famiglie. Una risposta che la crisi innescata dalla pandemia ha reso ancora più urgente e necessaria e sulla quale, come Italia, dobbiamo investire con determinazione nel nostro progetto di rilancio».

E quindi? E ora? Il Pd e il M5s che dicono?

Buon giovedì.

(nella foto il ministro del Lavoro Andrea Orlando)

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Il fascino della divisa

Ve lo ricordate Sandro Gozi? Un “traditore dello Stato”, un “nemico dell’Italia”, un “meschino”, un “disertore”, “uno a cui bisognerebbe togliere la cittadinanza”: sono solo alcune delle definizioni che sono state usate da esponenti di Lega e Fratelli d’Italia quando l’ex sottosegretario dei governi Renzi e Gentiloni assunse un ruolo politico per Macron in Francia. Sia chiaro: tutto alla luce del sole, al di là dell’opportunità su cui ognuno può avere la sua idea.

Salvini e Meloni sono pronti a individuare “tradimenti dell’Italia” in ogni frangente, soprattutto quando si tratta di nemici politici. In questi giorni in Italia c’è l’ipotesi di un tradimento proprio bello e finito, roba quasi da film, un capitano di fregata, Walter Biot, sorpreso dai Ros a vendere segreti militari ai russi in un parcheggio di Roma: anche se fa piuttosto ridere comunque siamo di fronte a uno dei più gravi episodi di spionaggio degli ultimi anni.

Nessuna parola di Meloni e Salvini, ovviamente. È il fascino della divisa: se scorrete i loro social trovate le solite badilate sugli immigrati, sulla sinistra (più Giorgia Meloni ovviamente, poiché Salvini ora si deve fingere moderato), indignazione per la condanna ridotta a Kabobo ma niente sull’ufficiale. Eppure, oh, se ci pensate è proprio il prototipo del traditore perfetto. Ma niente di niente.

Curiosa anche certa stampa che da giorni ci racconta come Biot avrebbe venduto documenti riservati ai russi per problemi di soldi (la moglie ci dice che hanno “quattro cani da mantenere”, tra le altre cose). Parliamo di un dipendente dell’Esercito, eh. Provate a chiedere in giro per strada alla gente in pandemia, a proposito di povertà. Tutta la pietas che non hanno per i poveri senza divisa è esplosa per il capitano di fregata.

Che ipocrisia, che bassezza, che poca roba. Che peccato.

Buon venerdì.

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Cassieri, commessi e altri eroi dimenticati: l’insopportabile classismo nella corsa delle categorie ai vaccini

È tutta una questione di priorità, di scelte, di azioni: la trama di un tempo e della sua politica sta nell’agire svestito dalle parole che gli si mettono intorno per condire le sensazioni. Arriva il virus, arrivano i vaccini e decidere le priorità di chi mettere al sicuro è una cartina di tornasole che non consente troppe interpretazioni.

La Fondazione Gimbe, nella sua ultima rilevazione, racconta che oltre ai soggetti over 80 e a quelli ad elevata fragilità nella categoria “altro” dei vaccinati rientrano 572.692 dosi (il 39,6 per cento della categoria) somministrate a persone over 70 considerabili a rischio per fascia anagrafica e 873.787 (il 60,4 per cento) inoculate a soggetti di cui non è possibile rilevare altre indicazioni di priorità. Le percentuali degli “altri” sono addirittura al 19,5 per cento del totale in Sicilia, al 18,3 per cento in Calabria e al 16,4 per cento in Campania. Lì dentro, in base alle indicazioni regionali, ci sono le cosiddette professioni “a rischio” come insegnanti, magistrati, avvocati e così via.

L’essere umano è furbo in momenti di pace e diventa addirittura feroce in tempi di pandemia, quando c’è da correre per mettersi in salvo prima di tutti e in queste settimane abbiamo assistito alle diverse rivendicazioni (talvolta ridicole) delle diverse categorie professionali che smanacciano per superare la fila. 

Ora facciamo un passo di lato. Negli ultimi giorni solo a Roma sono morti due addetti alla vendita di supermercati: Rudy Reale era direttore di un Todis e prima di lui è mancato Riccardo, commesso di Carrefour. Qualche giorno prima era morta una commessa dell’IperSimply di Brescia.

Solo il 30 marzo, soltanto nella città di Roma, sono stati ufficializzati 20 nuovi contagi tra lavoratori di supermercati. E questi sono i dati ufficiali, quelli che sappiamo: «Faccio parte del Comitato Covid e nell’ultimo periodo mi hanno indicato 15 casi alla Coop di Roma Eur e altri 15 alla Coop di Roma Casilino. C’è omertà sui positivi ma questo non aiuta. E poi è saltato il tracciamento. Chi lavora nei supermercati non si ferma mai, neanche con la zona rossa. Per Pasqua rischiano di essere degli agnelli sacrificali», spiega Francesco Iacovone dei Cobas a Il Messaggero.

Ve li ricordate? Erano tra gli “eroi” della zona rossa (e lo sono ancora) eppure non vengono mai citati come priorità, non esistono nemmeno nella narrazione. Perché in fondo ci dicono che classismo sia una parola superata ma il concetto rimane sempre modernissimo: troppo poco nobili per essere prioritari.

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