Vai al contenuto

procura di palermo

Il Palazzo si riprende la Procura di Palermo

Ieri, con la nomina di Franco Lo Voi a successore di Francesco Messineo, il Palazzo si è ripreso la Procura di Palermo che aveva dovuto mollare 22 anni fa, dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, con la rivolta dei pm ragazzini cresciuti al fianco di Falcone e Borsellino che misero in fuga il famigerato Pietro Giammanco e propiziarono l’arrivo di Gian Carlo Caselli.

Ora quella stagione che, fra alti e bassi, aveva garantito risultati eccezionali nella lotta a Cosa Nostra e ai suoi tentacoli politico-affaristico-istituzionali, si chiude violentemente con un colpo di mano che ha nel Csm l’esecutore materiale e negli alti vertici dello Stato e dei partiti i mandanti. Un replay, ma in peggio, dell’operazione che nel 1988 portò l’anziano Antonino Meli e non l’esperto Giovanni Falcone al vertice dell’Ufficio Istruzione. In peggio perché, allora, prevalse nel Csm l’osservanza delle regole formali dell’anzianità.

Stavolta tutte le regole, fissate in precise circolari del Csm, sono state travolte per premiare il candidato più giovane, inesperto e totalmente sprovvisto dei titoli minimi richiesti per quell’incarico. Lo Voi ha 9 anni in meno dei due concorrenti – i procuratori di Messina, Guido Lo Forte, e di Caltanissetta, Sergio Lari – non ha mai diretto né organizzato un ufficio giudiziario, non è mai stato né capo né aggiunto, ma solo sostituto (e per tre anni appena). L’unico incarico di prestigio l’ha ottenuto per nomina politica: delegato italiano in Eurojust per grazia ricevuta dal governo B.

Il che, a prescindere dagli altri handicap, avrebbe dovuto escluderlo in partenza dalla corsa per la Procura che ha fatto condannare per mafia Marcello Dell’Utri e lo sta processando per la Trattativa. Invece è stato questo uno dei pregi che gli sono valsi la vittoria. Non è qui in discussione l’onestà personale né la capacità professionale di Lo Voi, che ha fama di buon magistrato.
Ma la violazione sfacciata della legalità da parte di un Csm che, totalmente asservito ai diktat della politica, ha rinunciato per sempre al ruolo costituzionale di “autogoverno” dei magistrati e ora non tenta neppure di spiegare perché non rispetta neppure le proprie regole. L’ordine partito dai piani alti era ben noto agli addetti ai lavori fin da luglio, quandoil Quirinale bloccò il Csm che stava per nominare Lo Forte (uscito primo in commissione Incarichi direttivi): normalizzare Palermo e commissariare la Procura che ha osato trascinare sul banco degli imputati boss, politici e alti ufficiali per la trattativa Stato-mafia, fino allo sfregio finale di disturbare il presidente Napolitano. E l’ordine è stato puntualmente eseguito da tutti i membri laici, cioè politici, di centrodestra e centrosinistra: il Patto del Nazareno con l’aggiunta sorprendente del “grillino” Zaccaria (complimenti vivissimi) e quella scontata dei togati di Magistratura Indipendente (la corrente di Lo Voi) e dei vertici della Cassazione. Cioè del presidente Giorgio Santacroce, già commensale di Previti; e del Pg Gianfranco Ciani, che due anni fa parlò con Piero Grasso di avocare l’indagine sulla Trattativa a gentile richiesta del Quirinale e dell’indagato Mancino.

Di fatto, Lo Voi è il primo procuratore di nomina politica della storia repubblicana, sulla scia di quel che accadde nel 2005 per la Procura nazionale antimafia, quando il governo B. varò tre leggi (poi dichiarate incostituzionali dalla Consulta) per eliminare Caselli e intronare il suo unico concorrente, Grasso. Dopo due anni di condanne a morte targateRiina e Messina Denaro – con tanto di tritolo già pronto – contro il pm Nino Di Matteo, e di minacce di servizi vari (“deviati”, si dice) al Pg Roberto Scarpinato, totalmente ignorate dai vertici istituzionali, Palermo attendeva un segnale da Roma. E quel segnale è arrivato: Lari, scortato col primo livello di protezione per le sue indagini su stragi e depistaggi, non può guidare la Procura di Palermo; e nemmeno Lo Forte, reo di aver processato Andreotti, Carnevale, Contrada, Dell’Utri & C.: rischiavano di sostenere il processo sulla trattativa e le indagini sui mandanti esterni delle stragi. Lo Stato di Mafia Capitale non se lo può permettere.

(da ‘Il Fatto Quotidiano’ del 18 dicembre 2014)

Quanto Napolitano c’è nella scelta di Lo Voi alla Procura di Palermo (e quel voto del “tecnico” scelto dal M5S)

Un articolo che pone ottime domande:

E’ l’ultima vittoria del Presidente della Repubblica. O forse tra le ultime prima delle sue dimissioni. Certo è che Giorgio Napolitano si può dire soddisfatto. Un magistrato considerato “vicino” ad ambienti del Quirinale è diventato il nuovo Procuratore di Palermo. Senza nulla togliere all’onestà personale e alla preparazione professionale di Franco Lo Voi, la sua nomina a Capo della Procura più importante d’Italia è uno schiaffo alle regole più basilari. Che sono state stracciate dall’ingerenza politica all’interno di un Csm già piagato da logiche correntizie. O meglio: da logiche di potere. Quando questa estate il Colle è entrato a gamba tesa per impedire la nomina dell’attuale procuratore di Messina, Guido Lo Forte, dato per favorito alla reggenza della procura palermitana, lo scenario che si prospettava era quasi del tutto delineato. Certo, mancavano le “chicche” come il voto a favore di Lo Voi partorito dal “tecnico” scelto dal M5s Alessio Zaccaria (Grillo non dice nulla a proposito?), ma le linee guida di un diktat quirinalizio c’erano tutte. L’avversione – financo fisica – che Napolitano ha nutrito in questi mesi nei confronti del processo sulla trattativa Stato-mafia si è tradotta in veri e propri attacchi nei confronti del pool che investiga su questo pactum sceleris. Attacchi più o meno mascherati da conflitti di attribuzioni o, più semplicemente, da moniti, avvertimenti, e soprattutto da gravissimi silenzi.

Nei libri di storia Napolitano verrà ricordato come un Presidente della Repubblica incapace della benchè minima solidarietà umana nei confronti di un magistrato condannato a morte da Cosa Nostra. Ma soprattutto come colui che ha contribuito a indebolire un’inchiesta tanto delicata arrivando a imporre un vero e proprio braccio di ferro con il pool di Palermo pur di non essere interrogato davanti ad una Corte di Assise. E, una volta che (bontà sua) ha dato il benestare alla sua deposizione, ha annacquato i suoi ricordi in merito alle confidenze del suo ex consigliere giuridico Loris D’Ambrosio. La sua ultima mossa è stata quella di “ventilare” la candidatura di Franco Lo Voi all’interno di una metodologia che, paradossalmente, è del tutto “coerente”. Perché mai Napolitano avrebbe dovuto preferire Guido Lo Forte? Per il suo ruolo di pubblico ministero al processo contro Giulio Andreotti (che invece Lo Voi aveva rifiutato)? O perché Lo Forte aveva lavorato sull’inchiesta “Sistemi criminali” che di fatto aveva anticipato quella sulla trattativa Stato-mafia? Forse il “patto del Nazareno” prevedeva anche “l’assestamento” della Procura di Palermo? Il Capo dello Stato – grande sostenitore di quel patto – conta i giorni che lo separano dalle sue prossime dimissioni e si diletta a lanciare altri moniti. Ma sono anche i cittadini onesti a contare i giorni che restano fino alla fine del suo mandato. In questo disgraziato Paese, corrotto fin nelle sue fondamenta, c’è ancora una parte sana di società che auspica il ritorno di un Presidente al di sopra di ogni sospetto, che abbia realmente a cuore la ricerca della verità. Nel frattempo il nuovo Procuratore di Palermo viene chiamato ad un compito che in un altro Paese rientrerebbe nell’ovvietà: sostenere un processo dall’importanza storica. In Italia, invece, il Capo di questa Procura si ritroverà sotto il fuoco incrociato di gran parte delle istituzioni e di una larghissima fetta del mondo della politica del tutto ostili al raggiungimento della verità. Il neo Procuratore di Palermo sarà quindi di fronte ad un bivio: fare il proprio dovere seguendo i dettami della Costituzione, oppure entrare lentamente nel “gioco grande” come semplice pedina che verrà utilizzata a tempo determinato.

(fonte)

Dove sono tutti? (Di Matteo)

Schermata 2013-04-09 alle 10.53.57
Ma c’è un altro ringraziamento che invece elaboro più col cervello ed in tanti anni di indagini di questo tipo. 
Ed è il grazie di chi sa che l’attenzione dell’opinione pubblica, della parte più informata e sensibile, costituisce per noi tutti da una parte uno scudo vero e reale e dall’altra un ulteriore sostegno per andare avanti nel nostro lavoro. È confortante vedere e sapere che una parte bella della nostra città si mobilita quando non c’è stato ancora nessun evento luttuoso. E questo probabilmente nella storia italiana era accaduto poche volte. Siete un segno di una mentalità che cambia. Siete il segno di una città, di una terra, di un Paese che vuole lottare contro la mafia e vuole anche cambiare quella mentalità mafiosa che si è insinuata troppo nell’esercizio del potere, anche del potere ufficiale.
Io credo che noi vi possiamo solo ringraziare, sopratutto perchè ci ricordate la cosa essenziale del nostro lavoro e del nostro ruolo: che non è un ruolo di potere ma di servizio nei confronti della collettività. E questo credo sia il segnale più bello che potevate darci.

Sono le parole di Nino Di Matteo al sit in di solidarietà organizzato per lui a Palermo. E sono parole importanti che forse avrebbero meritato qualche riga in più sugli organi di informazione e qualche momenti di riflessione politica. Forse. In un Paese più equilibrato nelle sue priorità.

Trattativa Stato-Mafia, il vuoto stretto intorno a Di Matteo

Scritto per Il Fatto Quotidiano

VNzEloqKahUGJXm-556x313-noPadNino Di Matteo cammina per Palermo con la scorta rafforzata che sembra un film degli anni ’80. Siamo un Paese che ultimamente ha ingoiato scorte patetiche dei signorotti o dei lacchè del re, che ha fantasticato sulle scorte “poetiche” da farci un film con un pizzico di commozione e che ha subito le sirene per un comizio in piazza di qualche Ministro. Di Matteo no: Di Matteo ha intorno il rischio a forma di paura, quello che a Palermo non si annusava dagli anni bui di una mafia che si lasciava andare con facilità alla polvere da sparo.

Forse non è un caso che Nino Di Matteo sia anche il magistrato che si occupa del delicato processo sulla trattativa Stato-Mafia, che prima è esploso in faccia ai negazionisti furibondi da talk show e oggi si è risotterrato tra le “cose che riguardano il passato”. Un processo che nell’informazione sta diventando un argomento per collezionisti e non importa se alla sbarra ci siano (alla stessa sbarra) politici e boss mafiosi che insieme disegnerebbero una foto devastante per la credibilità della democrazia italiana degli ultimi vent’anni.

Quando Salvatore Borsellino parlava di trattativa nei suoi incontri pubblici (lui e pochi altri “forsennati”) era facile relegarlo tra gli “allarmisti professionisti”. L’allarmista ha sostituito negli ultimi tempi il “professionista dell’antimafia” nel computo degli insulti istituzionali volti a delegittimare le battaglie antimafia. Allarmisti, rimestatori nel torbido, esagitati e visionari: chiunque parlasse di trattativa veniva fatto salire in fretta e furia nella “nave dei folli”.

Ora che quella perversione è diventata un processo sarebbe da tenere tra le mani con la cura di un buon padre di famiglia, sarebbe da osservare con l’attenzione di uno Stato che vuole essere garante della consapevolezza collettiva ed è, soprattutto, da proteggere.

Per questo la paura intorno a Nino Di Matteo è soprattutto la paura che si vorrebbe iniettare negli ultimi decenni politici per smussare la curiosità che ci dobbiamo e il vuoto intorno a Di Matteo sarebbe la latitanza più grave.

Per questo forse sarebbe meglio evitare gli editoriali sui pisolini in Parlamento e dedicarsi a questo vuoto istituzionale che si finge stretto intorno a Di Matteo. C’è un’aria grigia giù a Palermo. E una politica che può smettere di essere uguale a sé stessa.

(Ps per i fans delle “larghe intese con il Pdl: un’alleanza oggi con un processo del genere in corso è “concorso politico esterno”. Per dire.)

La verità

È un bene raro e prezioso. Per questo qualcuno tende a risparmiarla. Sugli anni 1992-1993, sulle conversazioni tra pezzi che dovrebbero combattersi piuttosto che dialogare. E, se il reato non c’è, sui processi politici che si erano aperti e quando, come e per mano di chi si sono incagliati.
Ma se quel qualcuno è lo Stato diventa tutto più difficile. Una firma per chiarezza forse vale la pena metterla. Anche se la narcotizzazione vacanziera non aiuta. Perché lo spiega bene Andrea Camilleri:
Eh certo, sarebbe bello, ma non facciamo gli ingenui: siccome chi ha trattato con la mafia è ancora al potere, non possiamo certo illuderci che si dia da fare per far emergere la verità. Sarebbe autolesionismo puro. Niente è più difficile che ammettere i propri errori e chiedere scusa. Per questo il potere sta facendo di tutto perché la verità su quel che accadde vent’anni fa non venga alla luce. Gli errori commessi nel 1992-’94 e forse anche dopo dai rappresentanti delle istituzioni sono gravissimi non solo in sé ma anche perché hanno prodotto metastasi cancerose vastissime, ramificate. Lo Stato, diceva Sciascia, non processa se stesso.

20120814-095157.jpg

I mille rivoli del processo Mori

A Palermo si sta sbriciolando un pezzo della storia d’Italia. Giuseppe Pipitone (che segue con attenzione il Processo Mori) ne scrive proprio oggi:

L’elenco degli indagati per la Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa Nostra nel periodo 1992 – 93 si allunga. Anche il generale dei carabinieri Antonio Subranni risulta infatti iscritto nel registro delle persone indagate nell’inchiesta della procura di Palermo. La posizione del generale Subranni è stata resa nota questa mattina durante l’udienza del processo che vede imputati davanti la quarta sezione penale di Palermo l’ex generale del Ros Mario Mori e il colonnello dei carabinieri Mauro Obinu, accusati di favoreggiamento aggravato a Cosa Nostra per la mancata cattura di Bernardo Provenzano a Mezzojuso nel 1995.

Il presidente della corte Mario Fontana ha infatti chiesto all’accusa se Subranni dovesse essere sentito semplicemente come teste o come persona indagata in procedimento connesso. “Attualmente – ha risposto il pm Di Matteo – Subranni è sottoposto a indagine in procedimento collegato a quello in corso”, ovvero l’inchiesta sul patto sotterraneo tra pezzi delle istituzioni e la mafia, su cui la dda palermitana indaga dal 2007. Subranni, generale dei carabinieri in pensione, si è quindi appellato alla facoltà di non rispondere, limitandosi a sintetizzare brevemente le inchieste giudiziarie in cui è stato coinvolto negli ultimi anni. A capo del Ros dal 1990 al 1993, Subranni era indagato nello stesso procedimento che ha portato alla sbarra Mori e Obinu per la mancata cattura di Provenzano. La sua posizione fu stralciata e la procura palermitana ne richiese l’archiviazione nel 2011. Appena due settimane fa, la sua posizione era stata archiviata per decorrenza dei termini anche dalla procura di Caltanissetta, che nell’ambito della nuova inchiesta sulla strage di via d’Amelio, lo aveva indagato per concorso esterno in associazione mafiosa.

Questa volta il reato ipotizzato per l’ex capo del Ros dagli inquirenti è quello disciplinato dall’articolo 338 del codice penale, ovvero violenza o minaccia a un corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato: lo stesso per cui risultano indagati nell’inchiesta sulla Trattativa anche lo stesso Mario Mori, il colonnello Giuseppe De Donnol’ex ministro Calogero Mannino, il medico Antonino Cinà, il senatore del Pdl Marcello Dell’Utri e i boss Totò Riina e Bernardo Provenzano.

Le parole che fanno riflettere sono quelle di Gaspare Mutolo: lì dentro potrebbe esserci il senso di via D’Amelio e della seconda Repubblica.

Gaspare Mutolo, l’ultimo pentito interrogato da Borsellino prima che il giudice venisse assassinato nella strage di via d’Amelio il 19 luglio del 1992. Mutolo ha raccontato che “durante un interrogatorio il dottor Borsellino mentre parlava con delle persone delle istituzioni nel corridoio gridò all’improvviso: questi sono dei pazzi, questi sono dei matti. Era disgustato e arrabbiato, era incazzato nero con personaggi dello Stato e delle istituzioni perché volevano offrire ai mafiosi una eventuale dissociazione. Sapeva che c’erano questi contatti in corso. C’erano persone delle istituzioni che avevano fatto capire di essere d’accordo. Ho capito che c’era un accordo tra i mafiosi che si dovevano dissociare in cambio di una specie di amnistia”.

Il collaboratore di giustizia ha anche ripercorso lo storico interrogatorio del primo luglio ’92. ” Quel giorno, durante il colloquio – ha spiegato – il dottor Borsellino ricevette una telefonata e mi disse che doveva andare al Ministero e che sarebbe tornato dopo poco. Tornato dal ministero il dottor Borsellino era turbato e nervoso: a un certo punto mi misi a ridere perché stava fumando contemporaneamente due sigarette, una la teneva in bocca e l’altra in mano. Dopo Borsellino mi raccontò di aver incontrato il dottor Bruno Contrada che gli aveva detto: dica a Mutolo che se ha bisogno di chiarimenti sono a disposizione. A quel punto ho capito che il mio interrogatorio, che doveva restare segretissimo, era in realtà il segreto di Pulcinella”. Mutolo fu il primo accusatore di Contrada, ex numero tre del Sisde, che sta scontando una condanna a dieci anni per concorso esterno in associazione mafiosa.

Giovanna Maggiani Chelli, presidente dell’Associazione tra i familiari delle Vittime della strage di Via dei Georgofili, coglie il punto con il suo comunicato stampa di oggi:

Gaspare Mutuolo testimonia che il Giudice Borsellino nel 1992, poco prima di morire era sconvolto all’idea che uomini dello Stato volevano la Dissociazione per la mafia. Figuriamoci quanto ci siamo sconvolti noi quando il 3 luglio del 1996 – dalle pagine di riviste quali Famiglia Cristiana, e quotidiani importanti, abbiamo letto le parole di soggetti che invocavano una legge sulla Dissociazione. Infatti , il 12 giugno del 1996 eravamo appena andati all’udienza preliminare per la strage di via dei Georgofili contro “cosa nostra” che aveva massacrato i nostri figli e pensare ad una dissociazione dei mafiosi stragisti come fu per le BR ci sconvolse a tal punto che pensammo al tradimento per vili trenta denari. Secondo alcuni che non vogliamo neppure nominare, senza dire nulla , senza pagare il giusto prezzo in termini di rivelazioni ed economici, “ cosa nostra” poteva semplicemente dire con una norma ad hoc “non appartengo più alla mafia”. Ancora oggi inorridiamo al pensiero di ciò che abbiamo sofferto in quei momenti davanti alla richiesta di una legge che sotto il tritolo non seppelliva solo le nostre vittime, ma anche le nostre speranze di giustizia. Gaspare Mutuolo ha rinnovato oggi tutta la nostra rabbia contro chi della dissociazione concessa alla mafia con una norma, voleva fare una bandiera di garantismo e della confisca dei beni alla mafia, solo un ritorno elettorale e non il sostegno alle vittime di cosa nostra. Quello del 1996 non fu l’unico tentativo di consentire alla mafia la dissociazione, ci hanno provato oltre anche fino al 2002 e chissà quante altre volte ancora. Siamo più vicini che mai alla figura del Giudice Borsellino, che ben conosceva la mafia e così anche la politica , gli siamo riconoscenti per quanto ha cercato di fare per tutti noi. Purtroppo Borsellino ha pagato un prezzo altissimo in quel luglio 1992, come poco dopo pagheranno i nostri figli a maggio del 1993, perché Borsellino non fu ascoltato, ma ucciso.

Stiamoci attenti e prendiamoci cura di questo processo. E’ una lezione di storia.