Vai al contenuto

raccontano

La vigliaccheria fiscale

Aumento dei ricavi per Amazon Europa che nel 2020 è arrivata a 44 miliardi di euro. Ma zero tasse. Si diceva che dalla pandemia sarebbe uscito un “nuovo mondo”… Ecco, per ora è esattamente come prima, con i ricchi sempre più ricchi. E una questione enorme politica che passa sottovoce

Complice la pandemia che è stata tutt’altro che una livella per sofferenza dei diversi lavoratori e per danni alle diverse aziende la ricchissima Amazon del ricchissimo Bezos è diventata ancora più ricca aumentando di 12 miliardi i ricavi rispetto all’anno precedente in Europa e arrivando a un totale di 44 miliardi di euro.

Poiché i numeri sono importanti vale la pena ricordare che sono 221 miliardi circa tutti i soldi che l’Italia ha a disposizione dall’Europa per risollevarsi. Giusto per fare un po’ di proporzioni. L’ultimo bilancio della divisione europea di Amazon (lo trovate qui) racconta della società con sede legale in quel meraviglioso paradiso per ricchi che è il Lussemburgo gestisce le vendite delle filiali di Gran Bretagna, Germania, Francia, Italia, Spagna, Olanda, Polonia, Svezia. Ovviamente le tasse si pagano sui profitti, non certo sui ricavi, eppure le acrobazie fiscali di Amazon hanno permesso di risultare in perdita per 1,2 miliardi di euro nonostante un aumento del ricavo del 30%. «I nostri profitti sono rimasti bassi a causa dei massicci investimenti e del fatto che il nostro è un settore altamente competitivo e con margini ridotti», ha spiegato un dirigente di Amazon. Insomma, poveretti, lavorano per perderci. E infatti hanno accumulato 56 milioni di euro di credito d’imposta che potranno usare nei prossimi anni e che portano a 2,7 miliardi di euro il credito totale.

È incredibile che un’azienda che vale in Borsa quanto il prodotto interno lordo dell’Italia non riesca proprio a fare profitto o forse semplicemente i profitti vengono spostati altrove, complice la vigliaccheria fiscale di un’Europa che è sempre forte con i deboli ma è sempre piuttosto debole con i forti, come sempre. Attraverso compravendite fittizie infragruppo tra filiali dei diversi Paesi i guadagni vengono spostati da dove si realizzano a dove più conviene e le contromisure del Lussemburgo contro queste pratiche sono volutamente morbide.

In una nota la commissione Ue commenta: «Abbiamo visto quanto apparso sulla stampa, non entriamo nei dettagli, in linea generale la Commissione ha adottato un’agenda molto ambiziosa in materia di fiscalità e contro le frodi fiscali, nelle prossime settimane pubblicheremo una comunicazione e sul piano globale siamo impegnati con i partner internazionali nella discussione in corso» sull’equa tassazione delle imprese. Si tratta del negoziato per definire un’imposta minima globale per evitare la concorrenza fiscale al ribasso. Quanto agli aspetti di concorrenza, del caso Amazon/Lussemburgo il dossier resta in mano alla Corte di Giustizia Ue: il gruppo Usa e il Granducato hanno contestato la decisione comunitaria che nel 2017 concluse che il Lussemburgo aveva concesso ad Amazon vantaggi fiscali indebiti per circa 250 milioni di euro, un trattamento considerato illegale «ha permesso ad Amazon di versare molte meno imposte di altre imprese». Peccato che contro la decisione europea abbia ricorso Amazon (e questo ci sta) e perfino il Lussemburgo.

Sono numeri spaventosi che raccontano perfettamente come la guerra tra poveri e tra disperati non riesca mai a guardare in alto dove si consumano le ingiustizie peggiori. Vi ricordate quando si diceva che dalla pandemia sarebbe uscito un “nuovo mondo”? Ecco, per ora è esattamente come prima, con i ricchi sempre più ricchi. E invece una questione politica enorme passa sottovoce mentre i nostri leader stanno litigando sul bacio a Biancaneve.

Buon giovedì.

Commenti

commenti

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

L’ultimo record del “nuovo Rinascimento”: l’Arabia saudita è il maggior acquirente di armi al mondo

Va forte il “nuovo Rinascimento” in Arabia Saudita, non c’è che dire, se è vero che il Paese ha scalato velocemente la classifica mondiale che racconta meglio di tutto quale sia l’aria da quelle parti: lo Stato del principe ereditario Mohammed bin Salman, quello che è stato presentato al mondo come fautore di nuovi diritti e nuove primavere dal senatore Matteo Renzi, è diventato il primo Paese importatore di armi al mondo, raggiungendo l’11% dell’import mondiale di armi ricevute.

Il primo fornitore dell’Arabia Saudita – secondo l’ultimo rapporto dell’Istituto internazionale della Ricerca sulla Pace – sono gli Stati Uniti, che coprono il 79% di tutti i loro acquisti: solo nel 2020 i sauditi hanno acquistato 91 aerei da combattimento.

In Europa per ben 5 volte sono state votate delle risoluzioni contro le esportazioni di armi verso l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi: l’ultima proprio a febbraio per chiedere “un divieto a livello europeo per quanto concerne l’esportazione, la vendita, l’aggiornamento e la manutenzione di qualsiasi forma di equipaggiamento di sicurezza a destinazione dei membri della coalizione, compresi l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, in considerazione delle gravi violazioni del diritto internazionale umanitario e del diritto internazionale in materia di diritti umani commesse nello Yemen”. Una guerra che a oggi conta 133mila morti e 3,6 milioni di sfollati interni.

In Italia lo scorso 29 gennaio il governo ha deciso di revocare le autorizzazioni per l’esportazione di missili e bombe d’aereo verso Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, revocando di fatto almeno 6 diverse autorizzazioni, già sospese a luglio del 2019, tra le quali la licenza Mae 45560 decisa verso l’Arabia Saudita nel 2016 durante il Governo Renzi relativa a quasi 20mila bombe aeree della serie MK, per un valore di oltre 411 milioni di euro.

L’atto del Governo Conte fece seguito alla mozione delle parlamentari della commissione Esteri della Camera Yana Chiara Ehm (M5s) e Lia Quartapelle (Pd), approvata il 22 dicembre 2020 dal Parlamento italiano.

L’Europa fa blocco, ma l’Arabia Saudita continua comunque a rifornirsi e a riempire gli arsenali da altre fonti. Del resto avere l’armadio stipato di missili e bombe deve essere la prima caratteristica del “nuovo Rinascimento”: quello che da quelle parti ha l’odore degli oppositori fatti a pezzi e della polvere da sparo. E forse questi numeri raccontano benissimo quali siano gli interessi del brillante principe ereditario.

Leggi anche: 1. Cinque domande a cui Matteo Renzi deve rispondere (a un giornalista) / 2. Omicidio Khashoggi, Renzi ribadisce che è “giusto avere rapporti con l’Arabia Saudita” / 3. Se Renzi vivesse in Arabia Saudita (di Selvaggia Lucarelli)

 

L’articolo proviene da TPI.it qui

Commissariate la Lombardia

La sentite intorno quest’aria tutta concorde? Sembra una pacificazione e invece è lo stallo che si crea quando partiti e poteri si allineano, lo fanno spesso in nome di una non meglio precisata “unità nazionale”, quando tutti insieme si deve uscire da una “crisi” e questa volta funziona perfettamente in nome dell’epidemia. Accade che partiti lontanissimi tra loro si trovino seduti nello stesso governo, quelli che si erano sputati addosso fino a qualche minuto prima e quelli che hanno spergiurato un milione di volte “mai con quelli là” e accade che anche l’osservazione di ciò che non funziona improvvisamente si ottunda.

La Lombardia, ad esempio. La campagna delle vaccinazioni anti Covid in Lombardia è una drammatica sequela di errori e di ritardi, di incomprensibili scelte e di gravi inadempienze. Qualcosa che grida vendetta ma che soprattutto meriterebbe un dibattito politico nazionale, una parola, un ammonimento, almeno uno sprono, qualcosa qualsiasi.

In Lombardia accade che alcune persone che non hanno diritto al vaccino riescano a prenotarlo e a farlo tranquillamente per un link del sistema regionale che presenta un’evidente falla. L’ha scoperto Radio Popolare e lo confermano lombardi che raccontano di averlo ricevuto nei gruppi di watshapp. «Ho fissato l’orario – racconta una testimone – e dopo dieci minuti ho avuto la mail di conferma per andare lunedì 8 marzo alle 12.05 all’ospedale militare di Baggio. Non ci credevo fino in fondo, ma quando sono arrivata lì incredibilmente ho verificato che ero davvero in lista». I direttori sociosanitari dicono che non hanno nessun modo per controllare le liste che sarebbero tutte in mano all’Asst. Tutto bene, insomma.

Il magico software regionale tra l’altro convoca i cittadini (vale la pena ricordare: quasi tutti anziani) con un preavviso di poche ore, la sera precedente. Alcuni sono costretti a fare chilometri e chilometri nonostante abbiano punti vaccinali molto più vicini. Alcuni addirittura hanno ricevuto invece due messaggi: «Ho ricevuto la convocazione dopo pochissimi giorni dall’iscrizione – racconta Maria Grazia alla consigliera regionale (Lombardi Civici Europeisti) Elisabetta Strada – ahimè però ho ricevuto due sms, a distanza di qualche ora, il primo mi convocava in piazza Principessa Clotilde alle ore 11 e il secondo ad Affori alle 16. Non sapevo quale dei due messaggi fosse corretto e al numero verde mi hanno risposto che non lo sapevano nemmeno loro. Sono andata dove mi era più comodo». Ovvio che se la gente non si presenta all’appuntamento i vaccini poi a fine giornata vadano buttati. In Regione giacciono interrogazioni che chiedono conto di quante dosi siano state sprecate finora: nessuna risposta, ovviamente.

All’8 marzo su oltre 720mila over 80 lombardi circa 575mila hanno aderito alla campagna e ne sono stati vaccinati 150mila. Dei 140mila che non hanno aderito non si sa nulla: non sono riusciti a prenotarsi? Non sono informati? Rifiutano il vaccino?

Poi ci sono gli errori di gestione degli spazi: ad Antegnate, provincia di Bergamo, è stato previsto un punto vaccinale nel centro commerciale del paese. Per un errore di pianificazione domenica 28 febbraio c’erano in coda quasi duemila persone. Sempre anziani, ovviamente assembrati. A Chiuduno, sempre nella bergamasca, il punto vaccinale è invece in un centro congressi che potrebbe gestire 2600 vaccinazioni al giorno e si viaggia a un ritmo di 800.

Perfino Bertolaso ha dovuto ammetterlo: «Il sistema delle vaccinazioni degli over 80 continua a funzionare male, a creare equivoci, ritardi», ha dichiarato. Addirittura Salvini: «Problemi nella campagna vaccinale della Lombardia? Se qualcuno ha sbagliato paga, e quindi anche della macchina tecnica di Regione Lombardia evidentemente c’è qualcuno che non è all’altezza del compito richiesto». Ora la Regione Lombardia ha deciso di appoggiarsi al portale delle Poste, scaricando di fatto il gestore Aria, un carrozzone voluto da Fontana e soci per “guidare la trasformazione digitale della Lombardia”. Ottimo, eh?

Stiamo parlando della regione che ha collezionato un terzo dei morti per Covid di tutta Italia, della regione che ancora oggi sta vedendo i suoi dati peggiorare più di tutti. Serve una testimonianza? Eccomi qui: padre dializzato, invalido al 100%, ovviamente ultraottantenne e per ora l’unico segno di vita è un sms di scuse per il ritardo.

Tutto questo dopo un anno di sfaceli politici e organizzativi. Ma davvero, ma cosa serve di più per commissariare la Lombardia?

Buon mercoledì.

Commenti

commenti

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Papa Francesco in Iraq ha fatto politica. Quella che non sanno fare i potenti

Forse ci metteremo anni a capire l’importanza storica della visita di Papa Francesco in Iraq e chissà che non si possa imparare in fretta come la diplomazia, parola sgraziata e scarnificata in questi anni di commercio con una spolverata di finti diritti, è un esercizio serissimo che richiede il coraggio di andare controvento.

Papa Francesco è atterrato in Iraq e in pochi giorni ha infilato il dito nelle ingiustizie di quella parte di mondo che pochi si prendono la briga di raccontare, in mezzo alle macerie che stanno lì ma che sono partorite da tutto l’Occidente. Gli avevano sconsigliato di andare, i venditori di morte occidentali, fingendosi consiglieri apprensivi ma non riuscendo a non apparire ipocriti.

È entrato a pregare in Mosul, l’ex capitale delle milizie del Califfato da cui il Daesh ha sparso morte e ha ripetuto a voce alta che non esiste nessuna possibile guerra in nome di nessun Dio, che non è consentito “odiare i fratelli” e che non bisogna cedere ai “nostri interessi egoistici, personali o di gruppo”.

Al di là del credo di ognuno quelle parole sono un atto politico potentissimo. Così come rimarrà nella storia l’incontro con Ali al Sistani, la massima autorità religiosa sciita del paese, in una stanza spoglia che profuma di sala d’attesa, e in cui si è stretto l’impegno di una collaborazione tra comunità religiose che troppo spesso la politica gioca a brandire l’una contro l’altra.

Sono due uomini che si battono contro le divisioni e che riportano il discorso finalmente a un livello più alto, abbandonando i bassifondi di un razzismo religioso che anche dalle nostre parti si è acuito sempre di più. È il viaggio in cui Papa Francesco ha ascoltato le parole del padre di Alan Kurdi, naufragato su una spiaggia turca nel settembre del 2015 mentre con la madre e con il fratello tentava di raggiungere l’Europa.

Una foto che ha fatto il giro del mondo ma di cui ancora nessuno ha chiesto scusa, nemmeno tra i responsabili politici di una tragedia che ancora oggi continua a rinnovarsi. Le cronache raccontano di un Papa che “ha ascoltato, più che parlare”: quella è una storia che va ascoltata e raccontata, ascoltata e raccontata.

Papa Francesco, comunque la si pensi, si è preso una responsabilità politica enorme gettando luce là dove molti vorrebbero convenientemente mantenere il buio esercitando la diplomazia nel suo senso più alto, guardando negli occhi e quindi legittimando le vittime. Mentre tutti sono concentrati sul proselitismo ascoltare diventa perfino un atto rivoluzionario.

Leggi anche: 1. La prima volta di un Papa in Iraq: Francesco va nei luoghi che furono dell’Isis per costruire la pace

L’articolo proviene da TPI.it qui

La strage degli invisibili, il freddo uccide 25 senza tetto

Ci sono vite che non si incrociano, che non hanno voce da alzare, che scivolano fuori dal dibattito politico perché vengono considerate poca roba, che non spostano molti voti, che si affievoliscono. Quando l’11 marzo dell’anno scorso per motivi di sicurezza nazionale, con lo spettro del virus che incombeva, il primo di una lunga serie di Dpcm lanciava l’appello #iorestoacasa per più di 55mila persone quel consiglio non era perseguibile: una casa non l’avevano. Sono vite precarie che ciondolano tra problemi di salute, fragilità relazionali e condizioni di vita assai difficile, sono il percolato di una paradigma sociale in cui se ti lasci andare finisci schiantato senza nessuna rete di protezione.

La pandemia non è uguale per tutti e non è nemmeno l’occasione per romanticizzare la solitudine nonostante più di qualcuno abbia provato a inquinare lo sguardo: la pandemia ha reso i poveri ancora più poveri, i precari ancora più schiacciati e ha annientato quelli che non avevano niente e ora insieme al peso del niente si portano anche la paura o le conseguenze del virus: «È stata un acceleratore per la costruzione di risposte e soluzioni organizzative, ma rimane il fatto che vi sono case vuote e tante persone in strada. Dare una casa a queste persone significa salvare la loro esistenza, significa dare loro forza e coraggio per riprendere in mano la propria vita, riallacciare relazioni ed affetti, reinserirle nel tessuto sociale», spiega la Fio.Psd (Federazione italiana organismi per le persone senza dimora) che con Iref (istituto di ricerche educative e formative) e in collaborazione con la Caritas ha redatto un report sulla situazione dei senza tetto in Italia lo scorso 26 novembre e che ora lancia un appello al Governo e al ministro Orlando per chiedere di agire subito. «Non dimentichiamoci degli ultimi!», dice Cristina Avonto, presidente della Fio.Psd, ricordando come con le temperature sotto zero siano già 25 i morti in strada.

L’organizzazione ricorda che l’Housing First (l’opportunità di entrare in un appartamento autonomo “senza passare dal dormitorio” godendo dell’accompagnamento di una equipe di operatori sociali direttamente in casa) costa in media 26 euro al giorno rispetto ai 30 euro giornalieri dei dormitori e i beneficiari vedono garantiti i loro diritti fondamentali: casa, residenza, lavoro e reddito. Le ricerche raccontano che in 8 casi su 10 la persona esce dall’isolamento, stabilizza il proprio benessere psico-fisico, si prende cura della propria salute, si impegna in attività di training e occupazioni di svago e in molti casi riprende i legami con familiari e amici. Sono storie di riscatto che ridisegnano il prodotto interno lordo della dignità di un Paese.

C’è Gian Maria, ad esempio, che per strada ci ha vissuto per cinque anni perché il suo orgoglio l’aveva sempre spinto a non chiedere aiuto ai dormitori pubblici. Gian Maria ha perso il lavoro, ha perso la casa ed è sopravvissuto fra i vagoni di un binario abbandonato frequentando le mense cittadine finché un suo compagno una notte non gli morì di fianco. Quando gli offrirono una casa la rifiutò, pretendeva un lavoro: «E come me la pago una casa se non ho un lavoro?», disse ai volontari. A 59 anni ora Gian Maria, che si sentiva a capo di un manipolo di soldati traditi dallo Stato, ha ricominciato piano piano a reinserirsi, ad affidarsi alle cure di uno psichiatra, a occuparsi di tutti i documenti che smettono di renderlo invisibile, ad appoggiarsi al reddito di cittadinanza e ora ha l’occasione di un lavoro.

C’è Anita che dopo la fine di una relazione si è ritrovata a chiedere ospitalità in un dormitorio e che ha vissuto una convivenza difficile con altre 6 donne. Trovare una casa ha avuto un effetto sorprendente: un crollo degli elementi di tensione e conflitto e una gioia incontenibile per la novità di un luogo da sentire come “casa propria”. Adesso ha un lavoro, la residenza e può incontrare a casa i suoi figli. Ci sono i racconti di chi ha vissuto l’angoscia della pandemia moltiplicata dall’essere per strada. Antonio racconta: «Uscivamo la mattina e non sapevamo dove andare, per evitare di incontrare la polizia, vagavamo per la strada in metro. Ci sentivamo braccati, evitavamo di fermarci perché altrimenti ci davano degli appestati. Vedere il panorama di una città vuota, senza auto e né persone, solo gabbiani».

«Troppe persone che da anni sono bloccate nel circuito dei servizi rendono evidente che il sistema è inefficace per fronteggiare le crisi – dice Giuseppe Dardes, coordinatore della Community italiana dell’Housing First -. Non possiamo sprecare questa opportunità. Persona al centro e responsabilità diffusa nella comunità: questi sono i due fattori chiave dell’efficacia di Housing First sia nell’esperienza italiana sia in quella della rete internazionale a cui Fio.Psd aderisce. Crediamo che si possa e si debba ripartire da qui per una nuova stagione della programmazione degli interventi per il contrasto alla grave emarginazione adulta».

La pandemia sta bloccando e scoraggiando gli ingressi nei ricoveri caritativi notturni, rendendoli anche più complicati per l’obbligo di eseguire il tampone. Tra i morti congelati e soli che riempiono qualche riga di giornali c’è anche Mario, 58 anni, deceduto il 6 gennaio vicino alla stazione Termini, a Roma. A pochi passi da lui c’era un albergo, vuoto per l’emergenza Covid. È la foto perfetta di un accoglienza possibile che viene respinta e lasciata sul marciapiede.

L’articolo La strage degli invisibili, il freddo uccide 25 senza tetto proviene da Il Riformista.

Fonte

La marcia dei Mille, disperati

Nel gelo della Bosnia da settimane ci sono un migliaio di migranti che seguono la “rotta balcanica”. A pochi chilometri c’è la Croazia, la porta d’ingresso dell’Europa, ma chi prova a passare viene violentemente picchiato, spesso derubato, seviziato e rimandato indietro

Qualcuno di molto furbo e poco umano deve avere capito da tempo, dalle parti del cuore del potere d’Europa, che il primo trucco per sfumare l’emergenza umanitaria legata ai flussi migratori sia quello di fare sparire i migranti. Per carità, non è mica una criminale eliminazione fisica diretta, come invece avviene impunemente in Libia con il silenzio criminale proprio dell’Europa, ma se i corpi non sbarcano sulle coste, non si fanno fotografare troppo, non si mischiano ad altri abitanti, non rimangono sotto i riflettori allora il problema si annacqua, interessa solo agli “specializzati del settore” (come se esistesse una specializzazione in dignità dell’uomo) e l’argomento, statene sicuri, rimane relegato nelle pagine minori, nelle discussioni minori, sfugge al chiassoso dibattito pubblico.

In fondo è il problema dei naufragi in mare, di quelle gran rompiballe delle Ong che insistono a buttare navi nel Mediterraneo per salvare e per essere testimoni, che regolarmente ci aggiornano sui resti che galleggiano sull’acqua o sulle prevaricazioni della Guardia costiera libica o sui mancati soccorsi delle autorità italiane.

Nel gelo della Bosnia da settimane ci sono un migliaio di persone, migranti che seguono la cosiddetta “rotta balcanica”, che si surgelano sotto il freddo tagliente di quei posti e di questa stagione, che appaiono nelle (poche) immagini che arrivano dalla stampa in fila emaciate con lo stesso respiro di un campo di concentramento in un’epoca che dice di avere cancellato quell’orrore.

Lo scorso 23 dicembre un incendio ha devastato il campo profughi di Lipa, un inferno a cielo aperto che proprio quel giorno doveva essere evacuato, e le persone del campo (nella maggior parte giovani di 23, 25 anni, qualche minorenne, provenienti dall’Afghanistan, dal Pakistan o dal Bangladesh) sono rimaste lì intorno, tra i resti carbonizzati dell’inferno che era, in tende di fortuna, dentro qualche casa abbandonata e sgarruppata, abbandonati a se stessi e in fila sotto il gelo per accaparrarsi il cibo donato dai volontari che anche loro per l’ingente neve in questi giorni faticano ad arrivare.

A pochi chilometri c’è la Croazia, la porta d’ingresso dell’Europa, ma chi prova a passare, indovinate un po’, viene violentemente picchiato, spesso derubato, seviziato e rimandato indietro. Gli orrori, raccontano i cronisti sul posto, avvengono alla luce del sole perché funzionino da monito a quelli che si mettono in testa la folle idea di provare a salvarsi. E le violenze, badate bene, avvengono in suolo europeo, di quell’Europa che professa valori che da anni non riesce minimamente a vigilare, di quell’Europa che non ha proprio voglia di spingere gli occhi fino ai suoi confini, dove un’umanità sfilacciata e disperata si ammassa come una crosta disperante.

«L’Ue non può restare indifferente – dice Pietro Bartolo, il medico che per trent’anni ha soccorso i naufraghi di Lampedusa e oggi è eurodeputato -. Questa colpa resterà nella storia, come queste immagini di corpi congelati. Che fine hanno fatto i soldi che abbiamo dato a questi Paesi perché s’occupassero dei migranti? Ai Balcani c’è il confine europeo della disumanità. Ci sono violenze inconcepibili, la Croazia, l’Italia e la Slovenia non si comportano da Paesi europei: negare le domande d’asilo va contro ogni convenzione interazionale, questa è la vittoria di fascisti e populisti balcanici con la complicità di molti governi».

È sempre il solito imbuto, è sempre il solito orrore. Subappaltare l’orrore (le chiamano “riammissioni” ma sono semplicemente un lasciare rotolare le persone fuori dai confini europei) facendo fare agli altri il lavoro sporco. Ma i marginali hanno il grande pregio di stare lontano dal cuore delle notizie e dei poteri. E molti sperano che il freddo geli anche la dignità, la curiosità e l’indignazione.

Buon mercoledì.

Commenti

commenti

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Il Natale di Salvini

Nella bieca rincorsa a ritagliarsi un posto al sole per ottenere un po’ di visibilità e per andare “contro” al governo Matteo Salvini si è inventato un’altra delle sue invitando tutti a disubbidire alla zona rossa natalizia: “tutti fuori a fare volontariato”, dice Salvini, nel tentativo di incastrare con i buoni sentimenti la sua fregola di essere irresponsabile.

Peccato che la frase, nonostante possa fare breccia tra i suoi fan, non significhi assolutamente nulla, che sia assolutamente priva di senso e sia in netto contrasto con il suo modo di agire, di pensare e di parlare. “Fare volontariato” è una cosa terribilmente seria che non ha nulla a che vedere con il farsi foto insieme a qualche senza tetto. Fare volontariato significa impiegare il proprio tempo e il proprio ruolo in attività organizzate che garantiscano la dignità, se non il benessere, delle persone in difficoltà. Fare volontariato ad esempio significa anche riconoscere la povertà, vederla, conoscerla, abitarla: l’esatto opposto di quello che fece il vicesindaco di Trieste Paolo Polidori quando dichiarò di avere buttato via le coperte dei senzatetto “con soddisfazione” (disse proprio così), l’esatto opposto di quello che fece l’assessora leghista di Como che tolse la coperta a un senza tetto pubblicando tutta fiera il video su Facebook (lì a Como dove nel 2017 venne vietato proprio dalla Lega di dare un latte caldo proprio ai clochard).

Se invece vogliamo rimanere su Salvini allora sarebbe da capire come intenda il volontariato se proprio i suoi senatori hanno acceso una gazzarra in Parlamento mentre si archiviavano quegli orrendi decreti sicurezza dell’ex ministro.

Se Salvini vuole fare volontariato allora potrebbe benissimo ascoltare volontariamente i racconti dei pescatori da poco liberati in Libia che raccontano come quella detenzione fosse al di fuori di qualsiasi diritto umano. Proprio quella Libia che Salvini ritiene “un porto sicuro” in cui ammassare tutti i senza tetto del mondo che provano a trovarlo, un tetto.

Oppure potrebbe ammettere che anche la bontà in fondo per lui è solo un feticcio da sventolare alla bisogna. E potrebbe riconoscere che con questa sua uscita da finto filantropo fa sanguinare le orecchie per la contraddizione che contiene. Perché i buonisti sono naturalmente molto aperti ma non sopportano le minchiate.

Buon lunedì.

Commenti

commenti

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Caserma, manette, botte

Troppe cose non tornano nel caso di Emanuel Scalabrin, morto a 33 anni nella caserma dei carabinieri di Albenga

Ci sono tutte le caratteristiche per essere una di quelle brutte storie a cui purtroppo ci siamo abituati e per questo la vicenda di Emanuel Scalabrin va raccontata per bene, punto per punto, compresi i lati oscuri che ci sono tutti intorno.

Emanuel ha 33 anni e fa il bracciante agricolo. Ha problemi di dipendenza. Il suo arresto lo raccontano i suoi famigliari nelle parole pubblicate dalla Comunità San Benedetto al Porto, fondata da don Andrea Gallo, «Secondo il racconto dei parenti il 4 dicembre Emanuel verso le 12.30 si trova nella sua casa di Ceriale insieme alla compagna Giulia, mentre il loro figlio minore di 9 anni si trova presso una famiglia di amici. Ad un certo punto mentre si apprestano a pranzare viene a mancare la corrente elettrica ed Emanuel esce dalla porta di casa per verificare se si tratta di un’interruzione o altro. Improvvisamente viene spintonato all’interno dell’alloggio da alcuni agenti in borghese che erano lì appostati per l’irruzione, lui viene trascinato all’interno della casa fino alla camera da letto e qui gettato sul materasso dove viene colpito in ogni parte del corpo torace, addome, schiena, viso ed estremità».

Emanuel urla e chiede aiuto, dice che non riesce a respirare mentre Giulia la sua compagna implora i carabinieri del nucleo di Albenga di fermarsi.

L’arresto dura 30 minuti. Il ragazzo viene portato nella cella di sicurezza della caserma dei carabinieri di Albenga. Non si sente bene. Alle 21 viene chiamata la Guardia medica che lo visita per un’ora e che chiede di trasferire Emanuel in ospedale. Viene portato con l’auto di servizio dei Carabinieri e al Pronto Soccorso ci rimane per 5 minuti. Cinque. Non viene fatto nessun accertamento. Gli viene solo dato del metadone perché i medici del Pronto soccorso ipotizzano che si tratti di una crisi di astinenza.

Rientra in cella verso mezzanotte. Da lì, il buio. Verrà ritrovato morto alle 11 del mattino del giorno successivo, il 5 dicembre. Cosa sia successo quella notte non si può sapere perché la videocamera di sorveglianza della cella non aveva l’hard disk e quindi le immagini non sono state registrate.

La Procura di Savona ha aperto un fascicolo per omicidio colposo contro ignoti. Il pubblico ministero Chiara Venturi, appena giunta sul posto, ha prontamente chiesto non solo una ispezione del corpo al medico legale, ma anche un confronto con il fotosegnalamento con l’obiettivo di rilevare eventuali ecchimosi successive all’arresto.

Cosa è successo? Sperando di non ritrovarci di fronte ancora alla retorica delle mele marce. Intanto lo raccontiamo, vigiliamo, aspettiamo.

Buon venerdì.

Commenti

commenti

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Se l’Italia non si indigna per le agghiaccianti torture degli 007 egiziani su Giulio Regeni

Nel 2016 le commesse tra Italia e Egitto si aggiravano sui 10 milioni di euro l’anno. Nel 2019 gli scambi con l‘Egitto per l’Italia hanno superato gli 800 milioni, comprese due fregate della Marina Militare italiana che sono state vendute al Paese guidato da Al-Sisi. Ecco qui tutto il punto che dovrebbe farci indignare, gridare e continuare pervicacemente a scrivere sulla morte di Giulio Regeni, il ricercatore ucciso in Egitto dopo 9 giorni di sequestro.

E, se serve qualcosa per rendersi conto della feroce brutalità di cui si sta parlando, allora basta leggere le conclusioni dei pm di Roma che hanno chiuso l’inchiesta sull’uccisione del ricercatore friulano e che parlano di torture, di sevizie con oggetti roventi, di lame e di bastoni che causarono “acute sofferenze fisiche” uccidendo lentamente Giulio.

Ora ci sono, nero su bianco, anche i reati: sequestro di persona pluriaggravato, concorso in omicidio aggravato e concorso in lesioni personali aggravate. Nelle carte si legge di di violenze perpetrate per “motivi abietti e futili e con crudeltà”, che hanno provocato “la perdita permanente di più organi”: Giulio è stato torturato “con acute sofferenze fisiche, in più occasioni e a distanza di più giorni attraverso strumenti affilati e taglienti e di azioni con meccanismo urente”.

I colpevoli? Uomini della National Security egiziana, vicinissimi al governo: rischiano il processo il generale Tariq Sabir, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, Uhsam Helmi e Magdi Ibrahim Abdelal Sharif: “È lui ad aver torturato e ucciso Giulio”, scrivono i pm, che hanno raccolto le testimonianze di cinque testimoni oculari. Uno dei testimoni racconta di avere visto Giulio Regeni “incatenato nella sede della National Security. Era magro e aveva i segni delle torture”.

È tutto l’orrore del mondo che la mamma di Giulio Regeni aveva dichiarato alla stampa di avere ritrovato sul viso del figlio. È l’orrore di una violenza che si è burlata della giustizia italiana (i magistrati non hanno ottenuto nessun tipo di collaborazione dall’Egitto) e della nostra politica. È una storia che sanguina anche della mollezza e dell’indifferenza dei nostri governi, che con le mani sporche di sangue di Al-Sisi continuano a firmare contratti e a stringere affari.

Abbiamo le carte che ci raccontano di uno Stato assassino che noi continuiamo a rifornire di armi. Non c’è da girarci troppo intorno: l’omicidio Regeni è un granello di sabbia in un meccanismo che continua serenamente a funzionare. Ma a volte la sabbia riesce a ottenere risultato insperati. La magistratura ha fatto la sua parte, il governo invece latita.

LEGGI ANCHE Omicidio Regeni, inchiesta chiusa: quattro 007 egiziani verso processo. “Giulio legato con catene di ferro”

L’articolo proviene da TPI.it qui

Calabria, tutti attaccano Morra: così, però, non si parla più dell’arresto di Tallini

Possiamo tornare al punto, gentilmente? Perché l’arresto di Mimmo Tallini e il quadro indiziario che emerge dall’ordinanza del gip Giulio De Gregorio (che ha accolto la richiesta della Direzione distruttale antimafia di Catanzaro guidata da Nicola Gratteri) disegna un contesto, al di là di quello che dirà l’eventuale processo, su cui varrebbe la pena riflettere. Perché ora sotto la lente dei Ros ci sono anche le comunali di Catanzaro del 2017, le politiche del 2018 e le elezioni regionali del 2020. Nelle carte di legge del Consorzio Farma Italia e della collegata Farmaeko che sono tenute in pugno dalla cosca Grande Aracri di Cutro, nate e subito fallite, come immagine di una regione in cui la malapianta continua a raccogliere frutti.

“Tutto ciò avverrà – scrive il gip De Gregorio – perché l’enorme profittabilità prospettata inizialmente non era riferita a particolari capacità imprenditoriali dei criminali che la dovevano governare, ma allo sfruttamento dei contatti con politica ed economia, all’accesso a risorse finanziarie illecite senza dover corrispondere interessi, alla sostanziale irregolarità delle condizioni di lavoro, ai metodi truffaldini di approvvigionamento”.

C’è un antennista vicino alla cosca come Domenico Scozzafava, legato a Grande Aracri ma anche a Pierino Mellea, il nuovo boss dei Gaglianesi, che votava e faceva votare Domenico Tallini: uno che andava in giro a piazzare bottiglie incendiarie con un pistola con matricola abrasa ed è diventato uomo vicino al presidente del consiglio regionale Tallini. Sono le solite commistioni che raccontano di funzionari in regione che se non eseguono gli ordini del politico di turno vengono rimossi in favore di qualcuno più accondiscendente. L’abbraccio perverso tra economia, politica e ‘ndrangheta è un tema che, al di là degli esiti giudiziari, esce con forza dal punto di vista etico.

Quindi, al di là del caso Morra e della sua infelice uscita, cosa hanno da dire su questo i leader del centrodestra? Oltre alle parole del grillino hanno qualcosa da dirci su un politico già segnalato dalla commissione antimafia diventato così facilmente presidente del consiglio regionale? Salvini che ora lo scarica sa che sono i suoi alleati con cui governa la Calabria? Giorgia Meloni, tutta ordine e disciplina, che ne pensa della fotografia che emerge? Perché tra poco in Calabria si vota e dalle parti del centrodestra qualcuno ha il coraggio di pensare al sindaco di Catanzaro Sergio Abramo come candidato, un uomo vicinissimo proprio a Mimmo Tallini.

Leggi anche: ‘Ndrangheta, arrestato presidente del Consiglio regionale della Calabria, Domenico Tallini

L’articolo proviene da TPI.it qui