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rassegna stampa politica

Quelli che ci stanno rovinando, in Italia, sono gli obbedienti: un’intervista

Si prepara a tornare in scena Giulio Cavalli, dopo una pausa artistica dovuta anche alla parentesi politica in Regione Lombardia. Lo fa con uno spettacolo liberamente ispirato alla vita di Marcello Dell’Utri, accompagnato dalle musiche di Cisco Bellotti, eseguite dal vivo. Lo spettacolo, insieme ad un romanzo, è una produzione sociale attivata su produzionidalbasso.com e conclusasi con successo. Il ritorno “molto teatrale” dell’attore, drammaturgo e scrittore di Lodi, partirà presto dal Nuovo Teatro Sanità di Napoli.

photo by  giuliocavalli.net

Marcello è un giovane e intraprendente siciliano, nato da una famiglia borghese, ma decadente, del centro di Palermo. Marcello e il fratello Alberto vivono in simbiosi una giovinezza di lusso apparente, mentre subiscono le difficoltà economiche di un padre che si ritrova fuori gioco negli ambienti che contano, per l’arresto di alcuni elementi a cui faceva riferimento. Per questo Marcello cresce con un insito odio nei confronti della magistratura, vista come la causa della decadenza famigliare. Silvio è uno studente prepotente, egocentrico e scaltro che è stato educato dal padre ad una continua ossessiva ricerca delle scorciatoie ad ogni costo. Vive in un paese della provincia milanese, ma lo stesso giorno che ha l’occasione di accompagnare il padre nella banca in cui lavora, nel cuore della Milano bene, si innamora di questa città di eleganza, soldi e affari e decide di diventare, da adulto, un uomo a cui tutti sognano di stringere la mano. Vittorio è mafioso, figlio di mafiosi. Senza giri di parole e senza nascondenti anzi: con una venerazione assoluta per i codici medievali che gestiscono i meccanismi sociali e imprenditoriali di Cosa Nostra in Sicilia. E’ conosciuto tra gli amici per la sua abilità nell’esercizio della prepotenza che sia vocale, manesca o armata. Si diletta in missioni di prepotenza che lo rendono temuto e affascinante per molti e sviluppa un astio per la borghesia siciliana a cui aspira. Come la volpe con l’uva. Tutti e tre amano il calcio.

Perché hai scelto di attivare una produzione sociale per “L’amico degli eroi”?

Guarda, perché la produzione di uno spettacolo in un paese così complesso per le produzioni teatrali come l’Italia, complesso nel senso peggiore del termine, cioè ricco di condizionamenti politici, non è una cosa facile. Questi ultimi, bene o male, poi ne dettano la linea. “L’innocenza di Giulio”, spettacolo a cui io sono molto legato, ci ha raccontato perfettamente come essere ospiti di un teatro “stabile” nel circuito teatrale convenzionale, risultasse molto difficile per questioni politiche, che poi fondamentalmente sono delle beghe tra assessori, il “mestruo” di un dirigente dell’ufficio cultura, non c’è un isolamento concordato e organico. Allora, a questo punto, poiché il mio circuito è sempre di più fortemente politico, non partitico, e molte delle mie date non sono organizzate da un teatro, ma il teatro è solo il luogo che viene affittato da comitati cittadini o associazioni, ci siamo chiesti: perché non stringiamo un patto fin dall’inizio direttamente con loro? Inoltre, credo che andare in giro, come è capitato a me con il logo di Regione Lombardia su una produzione, sia anche abbastanza ipocrita. Purtroppo vieni macchiato come colui che ha intrattenuto rapporti con la pubblica amministrazione e che, avendo beneficiato di contributi, spesso a pioggia e non elargiti da una precisa scelta artistica, va in scena grazie a loro.

E tra l’altro se metti in scena uno spettacolo che racconta di “Stato e politica” potrebbe esserci anche un lieve conflitto d’interessi nel ricevere fondi pubblici…

Si, perché poi o tu mi produci “Andreotti” (L’Innocenza di Giulio, ndr) perché concordi sull’idea civile dello spettacolo o altrimenti non funziona. Il teatro civile solo in Italia è l’ammorbidente dell’indignazione generale. Nasce in realtà per “essere contro” qualcuno, ognuno con le proprie modalità. Il 99 per cento delle volte la postura di chi ti ospita, parlo di una pubblica amministrazione, è solo un attestato di fiducia per il teatro civile come se fosse avulso poi il tema che vai a trattare. Quando ho messo in scena “Linate” (monologo sul “disastro aereo” dove persero la vita 118 persone, ndr), spettacolo prodotto da tanti piccoli comuni, quelle amministrazioni concordavano con noi sul fatto che fosse stata una strage e non un incidente. Andreotti, invece, non concorda nessuno di quelli che lo hanno prodotto o che sono stati costretti a comprarlo, sul fatto che sia stato un criminale etico di questo Paese. Ti dicono che è giusto dare voce anche a Cavalli che lo considera un criminale.

photo by www.giuliocavalli.net

Quindi avevi bisogno del crowdfundig per poter raccontare di Marcello Dell’Utri?

Credo proprio di sì. Dopo aver fatto politica l’isolamento a livello artistico, intorno a me, si è acuito. Quello che mi ero costruito, e parlo anche delle relazioni economiche poi, è andato via via sparendo. Ma non per la posizione politica. Gli isolatori in Italia sono tutti coloro che hanno paura di dover prendere una posizione, non che non condividono la tua, e quelli che condividono il tuo punto di vista hanno paura di sclerotizzarsi su quest’ultimo. E’ banale tutto questo. Inoltre, la mia attività quotidiana di giornalismo o blogging, prende molto spesso posizioni nette. Ogni scritto, magari aumenta la fiducia e la vicinanza dei lettori ma fa crescere anche il sospetto da parte delle istituzioni. Quindi, anche se sarebbe molto più eroico dire di no, dal punto di vista economico, senza il crowdfunding, avrei fatto più fatica. Sarei dovuto scendere a un compromesso, anche taciuto o sottointeso. E poi, mi fa piacere sapere che c’è stata della gente, non necessariamente miei elettori, che la mia pausa artistica dovuta anche alla politica, l’ha vissuta con tranquillità e che si è resa disponibile nel partecipare con me alla produzione de “L’amico degli eroi”.

Credo ci sia un po’ di confusione su quello che artisticamente sei, forse proprio perché hai fatto politica, o perché fai un tipo di teatro particolare in Italia…

Perché qui abbiamo bisogno di categorizzazioni semplici e facilmente leggibili. I teatranti non mi amano, al di là delle mie posizioni politiche, dicono che Cavalli è un giornalista. Se fai l’attore devi fare solo l’attore e così via. Se decidi di esprimerti su diversi fronti, quasi nessuno ha le chiavi di lettura per osservare se c’è una coerenza di base, un filo rosso.

La produzione, comunque, comprende oltre allo spettacolo anche un libro…

Si, sembra che in questo Paese ci sia una guerra tra editoria tradizionale ed “editoria a km 0”. Perché devo essere costretto a scegliere? C’è il Cavalli scrittore, quindi romanziere, e allora il mio libro uscirà con “Rizzoli”, ad esempio, e quella è una strada che mi interessa percorrere. Poi c’è il libro che invece nasce da un mio spettacolo e che inevitabilmente non sarà mai un romanzo, perché nascono insieme. E quando le persone mi chiedono se lo spettacolo è tratto dal libro, io rispondo che non lo so. Questa è una semplificazione che abbiamo noi operatori culturali e penso il pubblico non abbia. Il mio poi è un teatro che va molto letto, è poco recitato, vado in giro a fare lo spettacolo per promuovere la parola. Sono fratelli spettacolo e libro, secondo me.

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Ma quando andrà in scena “L’amico degli eroi”?

Entro la fine del mese dovremmo essere pronti. Saremo a Napoli e sarà una sorta di “numero zero” al Nuovo Teatro Sanità, poi cominceremo a girare l’Italia.

Perché hai scelto di fare teatro civile?

Dario Fo mi dice sempre che noi teatranti facciamo sul palco quello che avremmo dovuto fare nella vita. Probabilmente io nella vita avrei dovuto fare il giornalista d’inchiesta e quindi uso il palco per questo. Ho sempre sofferto la mancata contemporaneità del teatro italiano. Mi annoia tutto ciò che è elegiaco, quindi ho sempre pensato che il teatro, con lo spettacolo e i suoi spettatori riuniti, dovesse avere la valenza di un’agorà e dovesse essere “sul pezzo”. Ad esempio, mi capitava spesso di discutere dell’andreottismo e mi chiedevo perché queste discussioni molto spesso ricche e stimolanti, non dovessero andare in scena… Poi, purtroppo, la mia vicenda privata mi ha spinto ad una certa specificità anche nei temi, che però sono quelli che amo…

Quindi l’aver ricevuto minacce mafiose e l’essere diventato tuo malgrado testimonianza hanno solo accentuato la voglia di approfondire certe tematiche?

Bè, sì, ma penso che avrei fatto gli stessi spettacoli, forse sarebbero stati più puliti dal punto di vista scenico perché avrei avuto meno ansia di difesa sul palco. I temi però sostanziali anche oggi sono questi: corruzione, criminalità, uno Stato che non è credibile e soprattutto un Paese a cui sono stati sottratti i termini per riuscire a capire e raccontarsi ciò che sta accadendo. “L’ amico degli eroi” è un mio ritorno molto teatrale, dentro non c’è ansia di raccontare la mia storia declinandola su questa storia, capisci? Quindi è meno documentale di quello che si aspettano, non ci interessa raccontare gli episodi che indicano come colpevole Dell’Utri, c’interessa raccontare un’umanità di cui Dell’Utri è paradigma e che su ampia scala e con diverse potenze si esprime nella quotidianità.

All’inizio della tua carriera, ti saresti aspettato di andare incontro ad una vicenda così complessa personalmente e professionalmente, scegliendo questo tipo di teatro?

Sai, il teatro civile è complessità. E’ raccontare un qualcosa sotto una visuale talmente inaspettata da poter riuscire a scoprire lembi di quella storia che ci sono sempre sfuggiti. E’ quindi inevitabile che i protagonisti di quei lembi, all’interno di questa complessità, non siano felici. Però non vedo differenza tra il proiettile spedito o la querela promessa, cioè non mi ha colpito di più la minaccia mafiosa rispetto ai detrattori organici con cui mi trovo ad avere a che fare. E me lo aspettavo, si. Del resto, quando ho scritto “Linate”, in parte abbiamo scontentato anche i familiari delle vittime, a cui era stato dato in pasto come unico colpevole un controllore di volo, invece abbiamo scoperto l’esistenza di colpe istituzionali, questo è servito ad un confronto civile tra le parti. Per cui poi abbiamo ricevuto pressioni dai controllori, dall’aeroporto di Linate, dall’ENAC, una cozzaglia di scarti politici parafascisti, ricevuto minacce dall’ENAV, che non ha adempito ai suoi doveri come ente preposto a controllare la sicurezza… Poi c’è il parente del familiare che affronta l’argomento a cuore aperto e si confronta con te, l’ENAV ti fa scrivere dall’avvocato; il mafioso invece ha metodi più brutali nella forma ma non nella sostanza. Io ho ricevuto atteggiamenti mafiosi anche da illustri componenti di associazioni antimafia e li trovo più pavidi di quelli che almeno avuto il coraggio di mandarmi la lettera minatoria. Tutti questi tasselli creano la complessità e non sono altro che gli spigoli di un dibattito. Gli spettacoli li scrivo per aprire un dibattito, altrimenti scrivo un romanzo. Se uno spettacolo mette tutti d’accordo penso di aver fallito il mio obiettivo.

Non è difficile però gestire il tuo lavoro e le complessità a cui vai incontro? Quanto incide sulla tua vita privata?

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Indipendentemente dalle minacce, la storia ci racconta che giornalisti, attori, drammaturghi, politici, che hanno deciso di seguire un professionismo nel proprio lavoro, sono sempre ben consapevoli che la propria vita privata sia intrecciata anche con esso. Mi spiego, i nostri intellettuali sono stati testimonianza (quelli credibili) di ciò che hanno scritto o prodotto. Solo in Italia esiste la figura dell’intellettuale ad interim nei dieci minuti di parentesi del programma in prima serata. Nel bene o nel male, per esempio, una figura controversa ma che non posso non amare, è stata Oriana Fallaci. Lo stesso Dario Fo è Dario Fo. Non è tutti i suoi spettacoli ma è lui. Nella sua storia, la vita privata, e quindi nel suo caso Franca Rame, è una componente essenziale come il più bel quadro che ha dipinto o il più bel testo che abbia scritto.

In una conferenza con Nino Di Matteo, nelle scorse settimane, al Teatro Apollonio di Varese, hai deviato il discorso legato alla scorta. Perché?

Perché non mi interessa parlare di scorta. Ne sono stato travolto dalla cronaca e poi quest’ultima si è fossilizzata in una simbologia per me senza senso. Inoltre continuo ad essere vittima del fatto di essere sotto protezione, dal punto di vista del giudizio pubblico. Ma questo è solo un tassello, un elemento della complessità e affezionarsi solo a questo è pericoloso, per me e per il mio lavoro ma anche per l’opinione pubblica. La stampa dimentica che tutti i prefetti sono sotto scorta e dovrebbe parlare di questo. La normalizzazione avviene non solo perché si parla di una situazione come la mia, ma perché non si parla delle altre. In Italia ci sono 800 persone sotto scorta e testimoni di giustizia rischiano la vita perché non riescono ad avere una tutela. Tu diventi l’attore con la scorta, il fenomeno da baraccone. Io sono sempre stato aspramente critico con il “savianismo” che si è voluto creare intorno alla figura di Roberto Saviano. Ma attenzione, non ce l’ho con Saviano, credo solo che il fenomeno, per molti versi indipendente da lui, gli sia sfuggito di mano. Per esempio che si parli di Giovanni Tizian, come giornalista scortato, ma si dimentichi che il padre di Giovanni è stato ucciso dalla ‘ndrangheta, significa adagiarsi su una spettacolarizzazione che oltre a rendere il banale importante, non ti fa vedere tutto il resto. Se apriamo una discussione sul fatto che in Italia la potenza del teatro è quella di disturbare ferocemente i potenti, allora è un confronto che mi interessa.

Sei stufo di essere legato a questo tipo di discorso, vero?

Si, sono diventato completamente intollerante e nel momento in cui mi accorgo che la scorta diventa motivo di stima, quasi sempre questa cosa getta una luce inquietante sulla persona che ho di fronte, che sia il Presidente del Senato o che sia il direttore del più importante teatro italiano. E adesso siccome fa parte della mia natura e del mio percorso artistico comincio a dirlo.

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E invece la scelta di occuparti di politica direttamente, dopo l’esperienza in Regione Lombardia, la rifaresti?

Si, l’ho fatta da uomo libero. Ho vissuto le appartenenze solo come un dovere di carta bollata per posizionarsi su una seggiola all’interno del Consiglio Regionale e perché penso che nella mia azione politica ci sia molto della produzione artistica e viceversa. Inoltre non credo che la stima in un campo debba essere collegata direttamente all’altra e quindi ho sempre apprezzato coloro che invece hanno giudicato buono un mio spettacolo e non buono un mio gesto politico. Però la rifarei. Io penso che questo sia un Paese che ha bisogno come il pane di visioni e di visionari nella politica. Non credo nell’antipolitica ma credo nell’ultrapolitica. Poi certo ho partecipato ad una legislatura deprimente e ho pagato lo scotto intellettuale, ma anche morale ed economico, quindi se tu mi dicessi lo faresti oggi, credo di no, però se la domanda è ti ricandideresti nel 2010 in quella situazione sì, lo rifarei.

Ho letto che hai condiviso e apprezzato il discorso del senatore dimissionario Walter Tocci, in disaccordo con il governo sul Jobs Act…

L’intervento di Tocci per me è cultura. La politica ogni tanto raggiunge i livelli della cultura. E io vengo stimolato nello scrivere con più impegno sapendo che esistono persone come Tocci. Quelli che ci stanno rovinando, in Italia, sono gli obbedienti.

Il problema poi nasce quando i disobbedienti non riescono a disobbedire fino in fondo, concretamente…

Il problema è che i disobbedienti acquistano valore nel momento in cui vengono seguiti. Io, per esempio, di mafia, posso cercare di parlarne nel modo più intellettualmente onesto possibile e preciso dal punto di vista documentale, ma poi la mia voce diventa importante e potente nel momento in cui fa rete. L’intervento di Tocci si fatica a leggere oggi in questo Paese. Inoltre, sulla contestazione del fatto che abbia votato comunque a favore e poi si sia dimesso, io dico che ho una grandissima idea di partito, vedo il partito con lo spirito e gli stessi valori di una comune artistica parigina. Il fatto di votare a favore e dimettersi, lo trovo coerente. Molto spesso i disobbedienti hanno il cattivo vizio, e capita anche a me, di non avere rispetto delle idee degli altri, di pensare cioè che la democrazia sia gestita da un peso numerico e qualitativo ed è la cosa che li rende in generale una minoranza cronica di questo Paese. E aver rispetto dell’idea che ritieni pericolosa e sbagliata degli altri perché espressa secondo dinamiche democratiche io lo trovo un gesto rivoluzionario. 

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Si potrebbe parlare di Pippo Civati allora in questo discorso…

Pippo è diverso. Lui ha avuto tra le mani e ha tra le mani, anzi forse aveva, strumenti molto più “ficcanti” di quelli di Walter Tocci. Il voto contrario di Tocci avrebbe cambiato questo Paese? No. Se Tocci avesse votato contro e fosse rimasto senatore avrebbe sicuramente toccato di più la pancia degli elettori del Paese e la sua sarebbe stata vissuta come scelta più radicale, io invece rivendico la radicalità del suo gesto, che rinuncia alla propria posizione, senza cadere, cioè rispettando il “luogo” che non condivide ma in cui è stato. Comunque questo è un Paese che non si salva con Tocci o con Civati, Vendola e Landini. Si salva se riesce a creare un blocco sociale. Non esiste un blocco sociale. Ancora una volta è tutto molto a cascata, è il leader che crea la base e non il contrario. In questo la forma partitica utilizzata con intelligenza e con etica rimane comunque la forma migliore.

Trovo, però, sia diventato piuttosto difficile poter poi sperare in un vero cambiamento politico e culturale in questo Paese…

In un Paese normale l’uscita di Tocci avrebbe dovuto far cadere in termini percentuali il PD. E’ vero che oggi in un’epoca di minus habens essere normale ti rende un intellettuale, però ha caratura politica il suo gesto, in un’Italia completamente “analfabeta”, che ha bisogno ancora di sentirsi dire che Dell’Utri è un mafioso. Non capisco come si possa pensare, infatti, che il processo sulla trattativa arrivi a qualche condanna, quando chiunque abbia un’infarinatura giuridica, ma anche semplicemente democratica, sa che difficilmente ci si arriverà e che il compito di Di Matteo e la valutazione su Nino di Matteo non è il riuscire a farli condannare ma l’essere riuscito a mettere per iscritto ciò che ha messo per iscritto. Quelli che celebrano Di Matteo non hanno nemmeno letto ciò che ha scritto. Lo celebrano perché la persona a rischio è quella con cui solidarizziamo molto più facilmente, ma non sono all’altezza dei contenuti che sta proponendo.

La tendenza all’omologazione politico – culturale è preoccupante e oggi sembra non esserci una credibile alternativa…

Infatti era l’idea di fondo di Licio Gelli, l’ha detto anche Di Matteo, ma è stato colto molto poco nel suo intervento a Varese. L’omologazione del Paese ne facilita il controllo. Ma ne facilita il controllo da un’oligarchia. Dal punto di vista culturale l’omologazione berlusconiana e quella renziana hanno gli stessi meccanismi. Stessa cosa per quella grillina. Sull’appiattimento culturale della polita io penso che il Movimento Cinque Stelle abbia delle responsabilità enormi. Tanto che il personaggio più spendibile del M5S è diventato un andreottiano nei modi, nella dizione e nei contenuti, come Di Maio. Quindi, non mi sembra si siano prodotte grandi interessanti novità. L’alternativa potrebbe essere un movimento politico che abbia una solida base culturale. Il problema è che non ci sono basi e visioni culturali dietro ai partiti.

Dietro a L’Altra Europa, però, le visioni culturali ci sono, o forse c’erano eppure in parte è stata un’esperienza deludente…

Certo perché poi anche quando c’è qualcuno che è portatore di valori culturali diventa spesso un cerimoniere di stesso. Abbiamo però comitati di cittadini che grazie allo studio, alla conoscenza e a visioni rivoluzionarie sono riusciti a bloccare progetti immensi, quindi l’attività politica ai livelli più bassi è ricca ancora di contenuti. Costa moltissime energie in tutti i sensi concretizzare un vero progetto politico.

Intervieni spesso sul tuo sito a proposito di Expo 2015. Cosa ne pensi? Perché non sei favorevole?

Bè, Expo per me è innanzi tutto una follia dal punto di vista economico ed imprenditoriale, perché in un paese in crisi, spendere così tante risorse (e non mi si venga a dire che sono risorse che vengono dal fuori perché significa comunque avere sprecato energie per raccogliere questi fondi), è irrispettoso. Expo oggi è una mancanza di rispetto per la situazione dello stato sociale italiano. Una scelta politica che ancora una volta è riuscita a far coagulare centro destra e centro sinistra, dimostrando che gli inetti sono sempre concordi. Dal punto di vista criminale, invece, è stata una grande festa per i presunti antimafiosi, che ancora una volta invece ci hanno dimostrato di non aver il coraggio legislativo (perché la criminalità organizzata nei lavori pubblici si sblocca con una legislazione che sia più severa) e hanno dimostrato anche di non riuscire ad amministrare. E’ un fallimento ambientale, un fallimento della classe dirigente, Pisapia incluso, e ancora una volta è una scatola preziosissima in cui al momento si cercherà di metterci dentro qualcosa di commestibile.

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C’è una forte incoerenza tra i temi proposti e le politiche adottate per l’organizzazione dell’evento. Se ne parla poco di questo, non trovi?

Sì, e quelli di Expo non si possono incazzare con noi che abbiamo un ruolo pubblico o con gli italiani perché sono troppo poco interessati ai temi. Io ho avuto un confronto anche pubblico con il capo ufficio stampa di Expo che mi accusava di non affezionarmi ai contenuti. Però se il modus operandi e la scatola sono così putridi, la gente ha tutto il diritto di fermarsi sulla soglia e inorridire lì, senza volere entrare. Capisci?

Mi dicevi che Expo è stata per te anche una festa per presunti antimafiosi. Non hai molta stima dell’antimafia in generale, vero?

No, per niente. Dei movimenti antimafia in Italia per niente. Del resto sai, Lea Garofalo è stata lasciata sola dalla più grande associazione antimafia italiana, Libera. Ci sono però molte personalità antimafiose anche più “semplici” come la casalinga di Castel Volturno o la pensionata coscientissima milanese. Abbiamo una ricchezza enorme. Soltanto non credo molto nell’immagine di rete che ci viene proposta e che in realtà rete non è. E’ solo una suddivisione di potere e di interessi.

Bè, la scelta di Rosanna Scopelliti, presidente della “Fondazione Scopelliti” e personalità di spicco dell’associazione antimafia “Ammazzateci Tutti “, di intraprendere l’attività politica è stata molto discussa…

Non me la sento di dire che Ammazzateci Tutti è stata un’impresa fallimentare perché lei si è candidata. Ho conosciuto ragazzi che da giovanissimi hanno intrapreso l’”hobby dell’antimafia” grazie ad Ammazzateci Tutti, però sai, siamo un Paese che ha una classe dirigente pessima in tutti i settori, quindi non vedo perché non si possa dire che anche nell’antimafia abbiamo espresso una classe dirigente non altezza degli impegni che ha avuto. Anche perché attenzione, si sceglie di essere classe dirigente, io decido di essere drammaturgo, scrittore e attore, e mi occupo di quello, ma qualcuno che invece decide di essere classe dirigente se ne deve assumere le responsabilità. Io in questo momento non mi assumerei mai l’onere di essere classe dirigente di nessuno, al massimo un buon produttore di contenuti per chi mi legge e per chi mi viene a vedere a teatro.

(fonte)

 

La verità. Da tutti.

di Carla Tocchetti (La Provincia di Varese) – 6 ottobre 2014

1Straordinaria presenza al convegno “Non c’è libertà senza legalità” tenutosi oggi all’Apollonio: difronte a quattrocento persone c’erano Salvatore Borsellino, fratello del giudice assassinato e Antonino di Matteo, il magistrato inquirente sulla trattativa Stato-Mafia. Abbiamo chiesto a Borsellino il significato del quadro presente nel Rapporto dell’Osservatorio Universitario milanese sulla Criminalità Organizzata che definisce la Provincia di Varese ad alto indice di presenza mafiosa tuttavia non ne evidenzia connessioni a livello politico: “Il prof. Nando Della Chiesa, autore del dossier, potrebbe rispondere meglio di me ma a livello di ipotesi potrebbe essere che non si è scavato abbastanza”. Di Matteo ha sottolineato che “la verità deve essere pretesa da tutti i cittadini, è un sacrosanto diritto conoscere i dettagli delle indagini e delle sentenze. Essere indifferenti significa consegna alle mafie il potere di questo paese.” Per Giulio Cavalli, lo scrittore sotto scorta per le minacce ricevute dalla mafia: “Negli ultimi trent’anni sono purtroppo mancati gli uomini di cultura che chiedessero una decisa linea politica a fronte degli esiti giudiziari e condannassero la prevaricazione come stile di vita per raggiungere il successo”. Anna Parisi di Agende Rosse, tra gli organizzatori del convegno insieme a AntimafiaDuemila e Libera sezione provinciale di Varese, ha sottolineato tra gli applausi che “non devono essere lasciati soli i magistrati che si battono perchè la verità e la giustizia possano realizzarsi secondo il giuramento fatto alla Costituzione, e non si fanno intimidire dalle minacce traendone consapevolezza di percorrere la strada giusta” ricordando anche la figura del maresciallo Saverio Masi, caposcorta di Nino di Matteo, che lavorava all’interno del reparto investigativo fino al blocco voluto dai suoi stessi superiori e oggi rischia la destituzione per aver avuto il coraggio di denunciarli. Una sfilata di bambini delle scuole elementari che indossavano le magliette stampate con il motto del convegno “Non c’è libertà senza legalità” ha proposto al pubblico una serie di riflessioni, esprimendo disgusto e fermezza, facendo proprie le parole del giudice Paolo Borsellino: “Vogliamo vivere senza la paura, perchè ci impedisce di essere liberi”.

L’uomo ha bisogno di simboli. I tanti perché di una piazza dedicata ad Enzo Baldoni

Da Articolo 21:

“Mi riempe di gioia la petizione lanciata da Articolo21 affinché il Comune di Milano intitoli una piazza a Enzo Baldoni”, dice oggi Giusi Bonsignore, vedova del giornalista ucciso nel 2004 in Iraq. “Ringrazio i promotori dell’iniziativa e quanti parteciperanno apponendovi la loro firma”, continua, sperando di “avere presto un riscontro da parte delle istituzioni”. Una piazza, una via, oppure semplicemente un giardino, che ha iter amministrativi meno complessi, in nome di Enzo. Un modo per riannodare fatti e verità.

Così come è accaduto per il giardino pubblico dedicato a Lea Garofalo dalla città di Milano, in via Montello. Ci costringe a sbattere continuamente contro il ricordo di Lea, uccisa per avere avuto il coraggio di testimoniare – al Nord, per la prima volta – contro la ‘ndrangheta. Assume un enorme significato per la città, quello spicchio di verde intitolato a lei, a pochi metri da dove la testimone di giustizia fu prelevata, torturata e poi strangolata dall’ex compagno, boss del clan Cosco, infine fatta a pezzi per poter bruciare meglio i suoi resti.
Sarebbe doveroso per questa città – che ha ripreso la tradizione civile di dare memoria – ricordare allo stesso modo Enzo Baldoni, a dieci anni dalla sua morte, in un momento geopolitico così complesso, in cui trovare verità, mai come ora, richiede presenza, occhi puliti, scevri da condizionamenti ideologici.Esattamente i motivi per cui Baldoni è stato ammazzato. Enzo ha dato la vita per raccontare, per testimoniare la realtà fuori da ogni ideologia, lontano da estremismi di sorta e contro ogni oscurantismo. Morto dopo aver portato acqua e cibo nella città assediata di Najaf.
Firmare la petizione lanciata da Articolo21 sulla piattaforma di Change.org significa, per tutti, non perdere ciò che ha rappresentato quest’uomo curioso, fuori dalle corporazioni, dalle logiche di parte; un uomo libero che voleva andare oltre l’informazione di regime, credeva che si dovesse prima vedere per poi poter capire e raccontare. Un uomo non amato da chi riteneva che quella guerra fosse necessaria, così come dai Signori del terrore che lo hanno ammazzato.
Evitare il silenzio, cercare i fatti che in questi anni sono stati avvolti dall’ambiguità. In un’intervista a Repubblica la vedova di Baldoni ha raccontato risvolti finora sconosciuti; di come, dopo lo scoppio della mina sotto l’auto di Enzo, nessun convoglio della Croce Rossa si fermò a raccogliere lui e il suo interprete iracheno Ghareeb. “Furono abbandonati”, dice a distanza di un decennio. Per la vedova Baldoni, Maurizio Scelli, allora commissario straordinario per la Croce Rossa, “diffuse notizie false, dicendo che Enzo andava in giro alla ricerca di interviste impossibili. Tacere a noi dell’esplosione della mina fu un’omissione molto grave”. Gianni Barbacetto su Il Fatto Quotidiano in questi giorni ha ricostruito gli eventi, riportando le parole che lo stesso Scelli affidò all’Ansa dal Meeting di Rimini, tre giorni dopo il rapimento, quando già il corpo di Ghareeb era stato ritrovato: “Il fatto che non ci fosse il corpo di Baldoni, induce a pensare che Baldoni sia da un’altra parte. Auguriamoci che sia in giro a fare quegli scoop che tanto ama” (Ansa, 23 agosto, ore 17,37).
Oggi l’ex commissario della Protezione Civile minaccia querela per l’affermazione di Giusi Bonsignore, che, sempre nell’intervista a Repubblica, rimarca come Enzo non ricevette il sostegno che, invece, in Francia, fu dato a Chesnot e Malbrunot, giornalisti sequestrati in contemporanea e poi rilasciati. Afferma che a “contribuire ad armare la mano dei suoi assassini è stata la denigrazione e lo scherno di giornali come Libero. Impossibile dimenticare, durante la prigionia di Enzo – continua – la ferocia di due articoli di Vittorio Feltri e Renato Farina, intitolati ‘Vacanze intelligenti’ e ‘Il pacifista col kalashnikov’”.
“Più che memoria, la piazza dedicata a Enzo mi sembrerebbe un ripristino”, dice Giulio Cavalli, scrittore, attore, ex consigliere comunale in Lombardia, diversi anni passati sotto scorta per il suo impegno contro le mafie, e che da tempo tempo lavora con il figlio di Enzo, Guido Baldoni. “Condivido l’iniziativa – dice – perché non credo che questo paese possa permettersi di svendere una delle menti più raffinate del mondo pubblicitario italiano e del giornalismo del Terzo Settore come un ‘turista per caso’; quindi, una via, oppure una piazza, sarebbe un bel segno col pennarello rosso sulle bugie che mi sembra non si sia ancora smesso di costruire su di lui”.
Oggi è un dovere civile cercare di riempiere i vuoti lasciati. Così come accade nel giardino di Lea: lì, è come se Milano risorgesse, in un luogo che è stato di mafia e di morte e che oggi invece è diventato simbolo di legalità. Quel frammento di verde, strappato alla speculazione e all’ennesimo progetto di parcheggio in città voluto dalla giunta Albertini, anche grazie a Libera di don Ciotti, è diventato bene comune. Qui gli abitanti del quartiere – designer, architetti, insegnanti, cuochi – progettano le semine per l’orto, curano gli alberi, aprono e chiudono il cancello, organizzano eventi. “Lea, qui, vive”, ci raccontano sotto il cartello con la foto di lei e le parole “Vedo, sento, parlo”.
“L’homme y passe à travers des forêts de symboles”, scriveva Baudelaire. E continuiamo ad aver bisogno di simboli, di luoghi della memoria. Abbiamo bisogno di dare un senso ai vuoti. Abbiamo bisogno, ogni giorno, di sbattere contro quel che è stato – e deve continuare a essere – Enzo Baldoni: il coraggio di testimoniare, al di là degli steccati, delle parti politiche, delle lobby di potere, sempre.

31 agosto 2014

“Sono sotto scorta perché voi fate finta di niente”

Un altro articolo, questa volta di Agoravox:

Schermata 2014-08-01 alle 13.30.47Ferrara. Il terzo appuntamento di “Autori a Corte” (lo scorso 30 luglio) ha lasciato un segno profondo, tra risate, spesso amare, e applausi sentiti. Ospite della serata l’attore teatrale, scrittore, ex consigliere regionale lombardo Giulio Cavalli, che dal 2007 vive sotto scorta per il suo impegno civile contro le mafie. Salito sul palco con l’intenzione di non parlarne, ha ceduto alle domande di Marco Zavagli, direttore di estense.com e moderatore dell’incontro.

“La scorta non ha nulla di poetico e in fondo la mia è una storia banale, molto poco eroica. Questo è un Paese che si innamora degli scortati, attori e non, e si dimentica degli operatori della giustizia. Sono 800 le persone sotto tutela in Italia. Conosco un panettiere che ogni mattina va a fare il pane scortato, perché si è rifiutato di pagare il pizzo”.

Ed è iniziato così un viaggio lampo indietro nel tempo. Giulio Cavalli ha aperto una innumerevole serie di parentesi per contestualizzare la storia, parentesi che, con estrema lucidità, ha chiuso puntualmente.

“Io vengo dal teatro, sono un arlecchino, un giullare –ha spiegato Cavalli– e la regola fondamentale è mai parlare di se stessi, a meno che non sia di interesse pubblico, oltre a non prendersi mai troppo sul serio. Noi giullari presentiamo la realtà, cerchiamo di non inquinarla e la portiamo in scena con il cuore più pulito possibile”.

In un batter d’occhio, ci si è ritrovati nel 2005-2006, ai tempi dell’amicizia e alla collaborazione con Rosario Crocetta, ex sindaco di Gela. Cavalli e Crocetta stavano lavorando ad un progetto teatrale, Do ut des. L’idea era quella di fare uno spettacolo per prendere in giro la mafia. “Seppellire la mafia con una risata”, come il grande Peppino Impastato aveva insegnato con la sua esperienza alla Radio.

Ma la morsa della paura si è fatta sentire nel 2011. L’allora prefetto di Lodi, Peg Strano, voleva revocargli la scorta, e la ‘Ndrangheta era pronta ad eliminarlo non appena fosse rimasto sprovvisto di tutela, come testimonierà a posteriori l’ex boss delle cosche crotonesi Luigi Bonaventura. “Avevo notato uno strano movimento di uomini calabresi e cominciai a dare programmi falsi sui miei spostamenti” – ha detto Giulio Cavalli. Di lì a poco arrivò da Roma “la revoca della revoca”. Ma “fa più paura uno Stato che non fa lo Stato o che diventa convergente con l’anti-stato, che non trovarsi faccia a faccia con i mafiosi (il figlio di Totò Riina è venuto nel mio camerino) – questo andrebbe detto”.

A ruota libera, tra un racconto ed un altro, Cavalli ha lanciato provocazioni e affermazioni precise, volte a scuotere gli animi ed il senso d’impegno civile. Il pubblico rispondeva timidamente. Non è dato sapere se per paura, poca convinzione o scarsa informazione. Certo è che ha risposto in maniera decisa ed unanime solo nel ricordare una vecchia pubblicità, quella del Pino Vidal. Questo è un segno chiaro, ha poi commentato Cavalli. Lo spot è stato tirato in ballo nel descrivere il promo del film Il capo dei capi, in cui l’attore che interpretava Totò Riina cavalcava un cavallo bianco sulla spiaggia. Risale proprio all’uscita del film, la nascita su internet dei primi fan di Riina. “Se ci fosse il reato di favoreggiamento culturale”, certi film finirebbero sotto accusa.

Non riesco a capire questo Paese – ha continuato Cavalli – continuiamo ad avere stima o paura delle persone sbagliate.

E sul processo Andreotti: In questo Paese, ripetere continuamente una bugia, diventa verità. L’innocenza di Giulio (Andreotti) è stata conclamata dal Paese. Ma è storia giudiziaria che fu mafioso fino alla primavera del 1980. L’Andreottismo sopravvive allo stesso Andreotti, è come un virus. I veri colpevoli sono i suoi elettori.

“I nuovi Andreotti? Le mafie non corrompono più i parlamentari, ora creano i parlamentari.”

Tanto abbiamo una classe dirigente che è molto diligente.

Il nuovo progetto di Cavalli, autofinanziato per scelta, debutterà a Napoli ad ottobre e s’intitolerà L’amico degli eroi. Narra la vicenda di Dell’Utri.

“Siamo un Paese tragicamente comico, sulla pelle degli onesti.”

 

Ridere di mafia: un’intervista

Un’intervista per vulcanostatale.it:

Gli ultimi scandali legati ad Expo 2015 hanno riportato sulle prime pagine nazionali la questione della permeanza mafiosa stratificata a più livelli nel Nord Italia. Si parla ora di una nuova Mani Pulite e – dopo la gara agli appalti truccati – pare iniziata quella a chi se le lava prima, le mani; mani sporche di corruzione, tra aste irregolari e malavita; le stesse mani che hanno stretto quelle di numerosi esponenti politici di numerosi partiti, che tuttavia non risultano indagati.
Da anni, ormai, hai intrapreso una dura battaglia contro la criminalità — su molti fronti e con diversi mezzi: hai fondato, insieme a Cremonesi e Civati, il primo gruppo interistituzionale che si occupa appunto delle infiltrazioni mafiose per quanto riguarda Expo 2015; dunque forse saprai dirci ciò che un po’ tutti, intimamente, ci domandiamo: si tratta davvero di uno “scandalo”?

Se lo “scandalo” sottintende una sorpresa, direi che non c’è proprio nulla di scandaloso: la gestione degli appalti in Regione Lombardia si trascina da anni un sistema costruito ad hoc per coagulare gli interessi particolari di alcuni, e da anni si invocano trasparenza e controlli. Non stupisce infatti – al di là dei reati eventualmente commessi – che le Commissioni e il Consiglio Regionale non abbiano avuto nessun sentore, nonostante le numerose interrogazioni: l’impunità è garantita meglio in mancanza di strumenti di controllo, e in Lombardia negli ultimi anni solo la Magistratura è riuscita ad intervenire in questioni che tecnicamente apparivano “con le carte a posto”. Sulla questione “mafie”, sono stati in molti a dire che, vista l’attuale situazione lombarda e l’attuale legislazione, sarebbe apparso difficile allontanarle – e non mi pare ci sia stato mai alcun concreto cambio di passo, al di là delle rassicurazioni verbali.

Dal teatro alle librerie, di lì poi alla politica: da IDV a SEL, fino alla corsa in Regione Lombardia. Parlaci di queste esperienze così diverse tra loro, delle motivazioni che ti hanno spinto ad impegnarti prima nel teatro, poi nella scrittura e, infine, in politica; di come questi canali possano diventare mezzo per promuovere la lotta alle mafie, la voglia e la ricerca di legalità.

Io credo che si possa cercare di coltivare legalità in tutti i modi possibili, con qualsiasi professione e addirittura funzione all’interno della società. L’esperienza politica mi ha permesso di affinare ed allenare la curiosità e, nel mio piccolo, di sollevare temi che apparivano “dormienti” all’interno del Pirellone. Certamente una seria lotta alle mafie non può prescindere da una maggioranza assoluta nella volontà politica e questo, in Regione Lombardia, sembra ancora lontano dal verificarsi. La scrittura e il teatro sono professioni fortemente politiche – nel caso in cui si decida di affrontare temi così presenti o addirittura futuribili.

Non si può negare che il tuo sia un mestiere che comporta molti rischi, che ti espone a diversi pericoli. Come è cambiata la tua vita da quando hai intrapreso questo percorso? Ti penti mai di averlo fatto, delle decisioni prese a riguardo, a scapito forse di una vita “normale”, “tranquilla”?

Non mi pento, e non mi sento più anormale di altri. Faccio il mio lavoro con la schiena diritta e la coscienza pulita. Alla faccia dei cattivi e dei “finti buoni”.

C’è un lavoro teatrale, un tuo libro cui sei particolarmente legato? Perché?

Come libro sono stato molto soddisfatto del percorso de L’Innocenza di Giulio che – come io e Gian Carlo Caselli speravamo fin dall’inizio – ha offerto una chiave di lettura sugli “andreottismi” del presente, soprattutto tra i più giovani. Le presentazioni del libro si trasformano molto spesso in un’agorà appassionata sul presente, in cui le azioni di Andreotti servono per cercarne la ciclicità; inoltre, propone con forza il senso dell’opportunità politica che, complici gli ultimi vent’anni, si è andata molto affievolendo. Per gli spettacoli devo dire di essere rimasto molto sorpreso della longevità di Nomi Cognomi e Infami che ancora oggi, dopo qualche anno, ha tutta la forza della risata contro le mafie.

La percezione e la consapevolezza della presenza di associazioni mafiose in Lombardia a livello ormai strutturale paiono essere aumentate – complici anche il tuo prezioso lavoro, i fatti di cronaca, e tutti quegli “scandali” che ultimamente non si fanno attendere. Realtà, oppure troppo ottimismo? Qual è dal tuo punto di vista il vero quadro della situazione attuale?

Sicuramente abbiamo fatto molti passi avanti nella consapevolezza — raggiunta purtroppo più con gli allarmi che con una seria analisi; ora bisogna riuscire ad avere una classe dirigente che appartenga alla “generazione istruita”. In tutti i campi.

Ingabbiati nella routine quotidiana, spesso dimentichiamo di questo importante ed urgente problema, che in realtà ci tocca sempre più da vicino, e per il quale tutti, in un modo o nell’altro, dovremmo fare qualcosa; soprattutto noi giovani, anche attraverso le università, potremmo diventare una grande risorsa. Come consigli di impegnarsi attivamente in questo senso?

Non credete nelle ricette uniche; cercate sempre di trovare nel dubbio uno stimolo, anche tra le tesi dei nostri affezionati o stimati: esercitate il muscolo della curiosità. Riuscirete a fare rete senza essere solidali solo con i sodali, ma riuscendo ad esserlo con tutti. E, sì — questo è forse un proposito utopico di vita, piuttosto che un banale comandamento antimafioso.

Marta Clinco
@MartaClinco

Perché aderisco alla lista #Tsipras

La mia intervista a Matteo Marchetti:

Schermata 2014-02-26 alle 11.36.17di Matteo Marchetti

Giulio Cavalli, 36 anni, già consigliere regionale in Lombardia, noto alle cronache per il suo grande impegno antimafia, aderisce all’appello per la lista L’Altra Europa con Tsipras.

«In Italia – ci dice – abbiamo avuto in questi anni una sinistra “diffusa”, ma nel senso più deleterio del termine: incastonata in luoghi diversi, preda di istinti di autoconservazione, incapace di guardare lontano. E invece oggi serve uno sguardo europeo, uno sguardo d’insieme. Questa lista esce dalle logiche di quartiere e porta un approccio finalmente costruttivo sui temi europei».

Votare per l’Altra Europa significa rifiutare sia l’approccio mercatista delle “larghe intese” (Ppe e Pse), sia il populismo dei vari euroscettici, dalla Lega a Forza Italia, al M5S, e dall’Ukip a Le Pen. «Questo progetto rifiuta quel “non c’è alternativa” che ci affligge dai tempi della Thatcher e che è pericolosissimo, perché sclerotizza qualsiasi creazione e creatività politica. Abbiamo bisogno di Europa, ma di un’Europa che non sia solo direttorio finanziario. Ci serve un direttorio sociale, di apertura a nuovi diritti, alla modernità, e che metta in pratica un’economia che sia a misura d’uomo».

A chi, magari per qualche scoria del vecchio “voto utile”, potrebbe preferire il socialdemocratico tedesco Schulz, Cavalli dice: «Non credo che il Pse sia “il male”. Credo però che sia ora di smettere di scegliere il meno peggio, in un continuo ribasso che infliggiamo da soli ai nostri sogni. Schulz è uno che che, semplicemente, segue politiche che non sono le nostre; magari in modo empatico, ma rispetto a noi è un’altra cosa, e le azioni sue e dei suoi compagni di partito in questi anni stanno a testimoniarlo. Tsipras è uno che guarda nella nostra stessa direzione».

In questa Altra Europa, Cavalli ci crede davvero: «Questa lista nasce basandosi sulla fattibilità della speranza. Non siamo nella letteratura, o nell’utopia che poi deve tradursi nella realtà: siamo in una dimensione strettamente politica, ma che si avvicina a quelle che sono da tempo le nostre speranze. Non è vero che “non si può fare”. Votare Tsipras significa finalmente sovvertire il pensiero unico dei liberisti; un pensiero che, purtroppo, in Italia si è impadronito anche di buona parte del centrosinistra».

Un pensiero, in conclusione, a qualche esperienza del passato, magari anch’essa partita bene, ma che ha poi perso lo slancio iniziale: «Bisogna assolutamente evitare che i soliti capibastone cerchino per l’ennesima volta di sfruttare l’occasione per autoperpetuarsi. Negli anni passati altri progetti politici hanno commesso l’errore di propugnare idee nuove affidandole però alle stesse persone che per vent’anni hanno assistito impotenti alla deriva che oggi combattiamo. Per questo sono molto d’accordo con la decisione, in questa prima fase, di escludere dalle liste chi ha già avuto incarichi politici. C’è bisogno di gente nuova. E dico questo ben sapendo di autoescludermi».