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recensione

Un “carnaio” cui si finisce per abituarsi (la recensione di Francesco De Palma)

(fonte)

Un romanzo surreale, grottesco, crudo, inquietante. E che rimanda all’attualità. E’ “Carnaio”, di Giulio Cavalli.

Una città sulla costa, DF, è travolta da ondate di morti, tutti uomini, tutti giovani, tutti di pelle più scura. Migliaia, decine di migliaia, centinaia di migliaia. Metafora potente delle migrazioni di questi anni, l’emergenza finisce per stimolare la creatività degli abitanti della cittadina, che impareranno a sfruttare nei modi più vari i corpi che il mare continua a riversare sulla costa e poi sulla barriera fatta costruire dal sindaco, per farne occasione di guadagno e di apparente prosperità. Almeno fino all’epilogo finale, che ovviamente è meglio non rivelare. 

A svilupparsi pagina dopo pagina, però, non è solo la creatività umana. Pian piano si assiste a un racconto corale che registra una deriva di umanità. Che il lettore troverà senz’altro familiare, e che passa dalle prediche assolutorie del parroco – “Quando la bontà diventa un idolo si cade nell’isteria. Gesù ci chiede di amarci, ama te stesso, dice il sacro comandamento, quella è la nostra natura” -, all’inaridimento dei cuori, alla crudeltà crescente: “Speravo che qualcuno fermasse questa discesa verso il baratro, confidavo che il mondo non avrebbe permesso che la città in cui vivo con mia figlia si trasformasse in una miniera d’odio”, dice una delle protagoniste, una delle poche a dissociarsi dal cattivismo imperante.

“Carnaio” è uno schiaffo. Uno schiaffo a chi, avanzando lungo una trama volutamente esasperata, esagerata, irreale, confida nel fatto che vicende del genere sono troppo oltre il possibile. E’ uno schiaffo perché, come leggiamo, “camminando camminando, ci si fa l’abitudine. Perché ci si abitua a tutto”.

Francesco De Palma

«Carnaio: quei cadaveri venuti dal mare»:la recensione di Anja Boato

(fonte)

Un corpo riverso sulla nuda terra, portato a riva dalla corrente, scuro di pelle, ringrinzito dall’acqua, irrigidito dalla morte, privo di identità. È l’emblema dell’immaginario contemporaneo: uno degli uomini perduti nel Mediterraneo, simbolo di una tragedia umana e insieme cuore di un discorso politico sempre più acceso, che divide il Nord del mondo sulla scia di due ideologie. Quali problemi vengono prima, i nostri o i loro?

Carnaio parte da quest’immagine. Un uomo scuro di pelle portato dal mare, una casualità quasi curiosa che spezza la monotona quotidianità degli abitanti di una piccola e anonima cittadina italiana, DF. Poi però ne arriva subito un altro, e un altro ancora, e alla fine quei corpi tutti uguali diventano una piaga sociale impossibile da gestire. Un’onda anomala di cadaveri.

È panico, DF ha bisogno di aiuto, ma nessuno riesce a trovare una soluzione: da Roma arrivano direttive irrealistiche, viene chiesto al sindaco di non spostare i corpi, lasciarli dove sono. E non ci si rende conto che quei morti infestano le strade, le case dei concittadini, le fogne. Non c’è tempo né modo di trattare il problema con il dovuto rispetto, l’unica soluzione è sgomberare il più rapidamente possibile le strade. Con gli spazzaneve, se necessario.

Nella disputa ideologica su chi viene prima, tra i problemi nostri e i problemi loro, Cavalli si pone dalla parte del “noi” estremizzando questa posizione in una storia grottesca, fantastica e terribilmente realistica. Gli abitanti di DF sono normali cittadini che desiderano risolvere un problema per loro concreto e urgente nel modo più rapido possibile. È irrilevante che quei cadaveri una tempo fossero appartenuti a degli esseri umani. Tanto vale maciullarne le membra, immagazzinarli in grossi capannoni, costruire un muro che li tenga lontani, fare tutto ciò che è possibile per garantire il benessere ai propri concittadini. Non è cattiveria, ma mancanza d’alternative.

Carnaio è un romanzo folle e lucidissimo, che mette in scena un crescendo di atrocità (quasi) sempre paradossalmente giustificabili. L’opera è costruita in un’inarrestabile climax ascendente: si comincia dalla reazione alla tragedia, in cui una piccola cittadina viene lasciata a se stessa da uno Stato sordo ai problemi concreti dei suoi abitanti. La cittadina allora decide di autogestirsi, e lo fa nell’unico modo possibile.

Eliminato il problema urgente – i morti fisicamente naufragati a DF – bisogna pensare a come evitare i problemi futuri. Ed ecco arrivare il muro. Questo però ormai non è più sufficiente, perché la cittadina è finita nel mirino “buonista” dell’Europa scandalizzata, e quindi l’unica soluzione è tentare di diventarne indipendenti, sopravvivere da soli sfruttando i propri punti di forza. Quei corpi, suggerisce un ingegnere, possono essere utilizzati anche per incrementare l’economia e rendere DF una nazione potente.
Intuire a priori il livello massimo di atrocità a cui conduce questo percorso richiederebbe un improbabile sforzo di fantasia. Ogni capitolo è un passo in più verso il baratro, fino a quando la situazione non sfugge definitivamente di mano e Carnaio si riduce alla grottesca parabola di uno Stato Totalitario.

La prima e l’ultima parte del romanzo sono narrati in terza persona, con uno stile grezzo, fatto di frasi infinitamente lunghe, talvolta ripetitive, piene di digressioni che ricalcano l’andamento incerto della mente umana. La seconda parte invece è narrata dal punto di vista di diversi personaggi, nella forma di pensieri espressi in prima persona, interviste e lettere, con una pluralità di toni e tratti stilistici che si adeguano alla diversità caratteriale dei singoli narratori. Diverse voci corrispondono a diversi ritmi, vari gradi di raffinatezza della scrittura e differenti reazioni alla tragedia di DF. Accettazione, sostegno, paura, abnegazione, sospetto, orgoglio, rabbia.

Al lettore non rimane che un continuo, viscerale senso di dubbio, su chi abbia ragione e chi torto, sul valore della morale e la sua inutilità pratica, sull’ipocrisia di chi pensa a loro prima che a noi e sull’egocentrismo disumanizzante di chi mette il noi prima del loro al punto da dimenticarsi che loro sono (o sono stati) persone. Cos’è più importante, un’ondata di venticinquemila cadaveri sconosciuti venuti dal nulla, o i quattordici concittadini che sono morti schiacciati dalla massa di carcasse?
Non fingete di sapere la risposta.

Anja Boato

“Carnaio (leggetelo subito)”: la recensione di Raffaele Viglianti

(il post originale è qui)

Carnaio di Giulio Cavalli è un libro tanto piu assurdo, formalmente irreale, onirico quanto più invece capace come nessun altro romanzo uscito di questi tempi, credo, di interpretare l’evoluzione, anzi l’abisso verso il quale si rischia di precipitare oggi e nell’immediato futuro nel nostro paese, nel nostro continente, nell’intero globo.
Lungi dal voler esprimere qualsiasi tipo di critica prettamente letteraria, non ne sarei capace nemmeno se mi ci mettessi con impegno, di Giulio colpisce la prosa, quei periodi lunghi, lunghissimi, righe e righe e righe scritte senza mettere un punto, a testimoniare l’urgenza di raccontare, precipitevolissimevolmente, quello che hanno in testa i personaggi. Uno stream of consciousness dei tempi nostri, l’emergenza di lasciar fluire il non detto, il non espresso, il bello e l’orrendo che c’è dentro ognuno di noi.
E poi la trama, geniale. Non starò qui a raccontarvi nulla, leggetelo e basta.
Sarete colpiti ogni volta da come, pagina dopo pagina, si raggiunga sempre di più l’abisso, il nero più nero, anche dove sembrava che il buio totale fosse già diventata patrimonio comune. E lascia attoniti la banalità con la quale si sprofonda, quella banalità del male che parla a ciascuno di noi, che ci riguarda più di quanto non vogliamo ammettere a noi stessi. Giulio ci illustra alla perfezione i meccanismi che stiamo imparando a conoscere in questo tempo, quello che appariva assurdo fino ad un minuto prima non lo è più un minuto dopo, tutto diventa accettabile, in una escalation che lascia sempre più attoniti, in nome della paura, in nome della rivalsa su chi si ti ha sputato in faccia, sulla vita, su chi si è sempre sentito moralmente superiore, sulla religione, in nome del profitto, in nome della mistificazione, in nome del diritto supremo all’autodeterminazione, in nome della supremazia del saper fare sul far sapere. Queste le caratteristiche dei personaggi che Giulio dipinge uno ad uno, e sono talmente reali da far paura perché fanno gli stessi ragionamenti che fanno potenzialmente il nostro vicino di scrivania in ufficio, il salumiere, il medico, il poliziotto, il sindaco, il prossimo nostro. Giulio ci mette in guardia anche su come può finire tutto in tempi rapidissimi (e in tempi rapidissimi il libro finisce, puff, in un capitolo tra i più brevi, come a collegare l’esito letterario della sua storia con la fine della materia cartacea, non so se la cosa sia voluta), quando gli anticorpi che hai voluto mettere in circolo per difenderti da quelli finiscono per distruggere tutto.
E a quel punto, solo a quel punto, torna la quiete.
Grazie, Giulio Cavalli.

la Repubblica su #Carnaio: recensione di Stefania Parmeggiani

da la Repubblica, 30 novembre 2018

L’uomo è annegato chissà dove ed è stato trascinato dalle correnti per chissà quante miglia prima d’impigliarsi tra gli scogli di DF, un paesino arroccato su una costa italiana. Il cadavere non è del nostro mondo. E per fortuna!
Così l’indagine si chiude in fretta, l’orrore dura il tempo di un verbale trasmesso al giudice, riverbera per qualche giorno nelle voci soffiate agli angoli delle strade e nelle pagine della cronaca locale. In fondo non ci riguarda, è solo uno straniero da seppellire senza nome, con un numero e un gesto di pietà cristiana.

Ma se quel cadavere non fosse il solo? Se dopo di lui ne arrivassero altri? Se all’improvviso il mare iniziasse a vomitare cadaveri? Giulio Cavalli, scrittore e attore teatrale che per lo sguardo affilato sulla realtà e l’impegno nella lotta alle mafie vive sotto scorta, nel romanzo Carnaio cammina su un confine sottile: da una parte il presente fatto di naufragi senza testimoni e vittime da ignorare, dall’altro un futuro prossimo in cui il mare riversa sulle nostre spiagge (e sulle nostre coscienze) i cadaveri che ha inghiottito. Ma lo fa spingendo fino al paradosso un dato di realtà: i corpi che il Mediterraneo inghiotte o restituisce, ai nostri occhi sono tutti uguali.

Nel romanzo lo sono ancora di più: giovani, maschi, neri, di identica altezza e peso, una generazione di cloni che a detta del medico di DF «hanno sviluppato gli stessi muscoli e le stesse magrezze e gli stessi nervi e gli stessi tendini come se avessero salito nella vita lo stesso numero di gradini, come se avessero nella vita ingurgitato le stesse porzioni di liquidi identici anche nella razione giornaliera, come se avessero avuto le stesse febbri con gli stessi tempi di guarigione, con le stesse complicazioni e con la stessa cura che li aveva portati alla stessa risoluzione».

Una montagna di cadaveri da gestire e seppellire mentre volano gli elicotteri dell’esercito e le strade si riempiono delle telecamere delle televisioni di tutto il mondo. Ondate di corpi che arrivano e spazzano via la normalità, abbattendo alberi e muri, entrando nelle case e stravolgendo le esistenze. È una emergenza che vuole soluzioni immediate, scaffali dove impilare i cadaveri, e a lungo termine una fabbrica per trasformare quei corpi in profitto.

Carne e soldi, sistemi di difesa trasformati in prigioni. Gli abitanti di DF, con un meccanismo simile a quello degli internati di Saramago nel manicomio di Cecità, azzerano le condizioni sociali precedenti precipitando in una dittatura gelida e asfissiante. Sono tutti complici e che nessuno, osservando l’onda di morti, nutra dei dubbi! Non è possibile, è sbagliato, anzi pericoloso: qualsiasi residuo di umanità deve essere spento, i cadaveri non vanno considerati uomini, appartengono a un altro mondo. Non sono i nostri e vanno ignorati o sfruttati.

La storia precipita, il finale si avvicina e il lettore è trascinato in un incubo sempre più terrificante perché accompagnato dalla sensazione che il futuro sia già cominciato.

Mafie Maschere E Cornuti: la recensione di Diego Mesi

(fonte)

Ridere per non avere paura, per infrangere gli specchi dell’autorappresentazione. Ridere per contestare, per mettere in discussione un sistema di potere – più o meno legittimo – e indurre alla riflessione lo spettatore, chiamarlo in causa partendo dalla coscienza. Come un giullare moderno, l’attore Giulio Cavalli ha coinvolto e conquistato la platea cremasca con Mafie maschere e cornuti, in scena venerdì 16 marzo al san Domenico di Crema.

Ridere, antiracket culturale
Doppia replica per il pubblico cremasco: la mattina dedicata alle scuole, la sera per tutti gli interessati. Più che uno spettacolo, un’analisi collettiva per provare a comprendere il fenomeno della criminalità organizzata attraverso i volti e i nomi che ne hanno costituito la narrazione, fino ai giorni nostri. Cavalli scardina icone e stereotipi giocando la carta della comicità, “perché ridere di mafia è un antiracket culturale. E le mafie, come tutte le cose terribilmente serie, meritano di essere derise”.

Verso il 21 marzo
L’evento promosso dal presidio Libera Cremasco in collaborazione con la Pro Loco, il Comune e il Comitato per la promozione dei principi costituzionali conclude la rassegna Cento passi verso il 21 marzo. Il prossimo appuntamento sarà proprio la giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie. Mercoledì 21 marzo alle 18.30 Libera sarà in piazza Duomo per leggere i nomi di chi ha perso la vita per mano della criminalità organizzata, da nord a sud.

SondaLife recensisce lo spettacolo Mafie Maschere e Cornuti

(fonte)

 

(Visto il 28 novembre 2017 al Teatro della Cooperativa)

Di e con Giulio Cavalli

UNA RISATA CHE SBRICIOLA

 

Il Teatro Cooperativa prosegue, con la giullarata antimafiosa Mafie, maschere e cornuti di e con Giulio Cavalli, nel presentare pièces di solido teatro civile.

Giulio Cavalli, attore e autore teatrale da tempo minacciato, e quindi protetto dalle forze dell’ordine, per la sua attività antimafia, è giullare dell’oggi e senza l’ausilio di costumi e scenografie recupera proprio dalla tradizione giullaresca, rinverdita e rinvigorita negli ultimi decenni del XX secolo da Dario Fo, uno dei modi cardini del teatro popolare: porre alla berlina i potenti con lazzi e sberleffi per smitizzare tutto quello che ”ci fanno credere invincibile ed invece non lo è”. Lavorando soprattutto sulla parola Cavalli, che è fermamente convinto, a ragione, che la parola contro la mafia funziona, propone un teatro diretto che dà fastidio. Nomi, cognomi, fatti e fattacci, aneddoti snocciolati uno dietro l’altro proposti con irriverente ironia che fanno ridere ma inchiodano lo spettatore a riflettere.

Tutto lo spettacolo gira attorno a una potente considerazione di Mark Twain, citata da Cavalli durante lo spettacolo: “Non bisogna avere paura di ciò che non si conosce ma bisogna temere ciò che crediamo vero e invece non lo è”. Figure/figuri, da Riina a Provenzano, ai loro epigoni e uomini della politica e della finanza contigui alla mafia, sono sbriciolati attraverso il suscitare risate. Anche una risata fa male ai potenti o ritenuti tali.

Lo spettacolo si conclude con un finto e sollecitato bis dedicato alla figura poco nota ai più, scrivente compreso, dimenticata, e ancora da chiarire, di Bruno Caccia, magistrato ucciso a Torino nel 1983 nell’attimo di libertà, allontanata la scorta, in cui passeggiava col cane. A ragione Cavalli propone questo ricordo staccato dal resto del corpo della giullarata proponendo un momento intenso, quasi lirico, di teatro tout court.

Affianca Giulio Cavalli il bravo fisarmonicista Guido Baldoni in realtà sottoutilizzato in uno spettacolo, che forse ha bisogno di qualche limatura, ma che è da non perdere.

Mafie, maschere e cornuti rimarrà in scena al Teatro della Cooperativa fino al 6 dicembre.

 

(Adelio Rigamonti)

Tra Bonifacio VIII e Totò Riina: Inchiostro recensisce lo spettacolo “Mafie maschere e cornuti”

 

Il giornale degli studenti di Pavia (che ringrazio) recensisce il mio spettacolo “Mafie maschere e cornuti“. Con un articolo che è uno spettacolo, appunto. Ecco qui (fonte):

 

Quando si parla di mafie, generalmente, gli atteggiamenti sono due.

Il primo cede alla commozione, memore delle vite spezzate dalla piovra del crimine organizzato, e si scaglia in rituali requisitorie contro l’ingiustizia con toni che, per quanto umanamente condivisibili e sacrosanti nella sostanza, rischiano di risultare melensi.

È, in parte, la via dello spettacolo Dieci storie proprio così, di cui già si era parlato ai tempi (http://inchiostro.unipv.it/2017/01/25/laltra-faccia-di-gomorra-dieci-storie-proprio-cosi/).

Il secondo, vantante uno spessore ben inferiore ma forse una maggiore immediatezza, si risolve in un caleidoscopio di espressioni casuali, orribilmente storpiate da palati non natii, che invogliano l’ascoltatore a «stare senza penzier» oppure a ordinare un numero pari di «frittur».

Esso, semplicemente, sospende il giudizio. Il male viene minimizzato e forse sfatato dall’influsso di un prodotto televisivo di tutto rispetto, ma l’impegno viene meno.

Mafie, Maschere e Cornuti, cosiddetta «Giullarata antimafiosa» di Giulio Cavalli (attore, giornalista, politico, fine conoscitore di pizzerie e un sacco di altre apposizioni – il tutto sotto protezione, alla Saviano), cerca una terza via.

La via del ridicolo, della smitizzazione. La via che, tramite l’irriverenza e la risata, conferisce dei volti alle eminenze grigie che si aggirano furtive dietro il velo della malavita: volti farseschi, patetici, risibili. Maschere cornute, calzanti ciabatte di plastica fuori misura con cui evitano a malapena lo sterco di capra che ricopre i loro pavimenti; esaltate al crimine organizzato da colonne sonore ispirate alle loro stesse malefatte.

È il territorio della presa in giro più feroce, rovesciamento carnevalesco di uno statusche il potente malvagio detiene nell’ombra, invisibile ma pesante come una coltre di ferro. Con un giullare Cavalli che, per quanto diverso dal modello affermato dall’imprescindibile tradizione di Dario Fo,[1] compie un lavoro egregio: mise casual, capello importante, voce secca risuonante nella nostra familiare Aula del ‘400,[2] voglia di giocare cogli spettatori e abolizione di qualunque barriera tra diegetico ed extra-diegetico, tra spettacolo effettivo e benigne frecciate al pubblico e all’organizzazione.

Un’esperienza che, come affermato dal suo stesso artefice, non è strettamente teatrale, e che dunque si mostra priva di tutti gli orpelli tradizionalmente associati al teatro. Niente scenografia, niente trovate sceniche, nessuna roboante introduzione alla Fo. Solo un giullare in borghese con il suo bagaglio di esperienze, la sua indignazione e tanta voglia di far ridere; accompagnato dalla fisarmonica espressiva del suo accompagnatore lungo varie scene ritraenti i grandi volti della mafia. Esasperati tutti, dal primo all’ultimo, nella loro ridicola umanità.

Con una nota di malinconia qua e là, impercettibile quanto poetica, per ricordarci di coloro che non hanno potuto fisicamente ridere con noi.

Speriamo vi siate comunque fatti una risata, guardandoci dall’alto.

Cazzo, sapevo che sarei andato a parare nella commozione.

Che volete farci.

Du frittur.

Ringraziamo l’UDU pavese per averci offerto questa bella occasione; oltretutto a costo zero. Siamo poi loro grati per aver fornito a Cavalli un leggio – per quanto debitamente nascosto sul palco – e persino dell’acqua a metà spettacolo (permettendo quindi la fluida continuazione dello stesso).

Insostituibili.

 

[1] Inutile e infruttuoso qualunque tentativo di trovare un aggettivo. Il più dignitoso “foiano”, nella mia ricerca priva di spunti, è infine andato degenerando in “foyer”.

[2] Per quanto, a mio parere, l’acustica non fosse delle migliori; aspetto che personalmente mi ha impedito di sentire alcune battute.

Non che sentendole avrei avuto la garanzia di capirle, ma vabbè.

Huffington Post recensisce “Mafie maschere e cornuti”

(di Milene Mucci, fonte, la scheda dello spettacolo è qui)

Il teatro di Giulio Cavalli, un’amara risata sulla Mafia per una matura riflessione

A pochi metri dal palco, seduti in platea le “parole” ti piovono addosso. Dirette, come missili, come schegge di verità che, altrove, devi intravedere e faticosamente cercare. Ecco, questo realizzi immediatamente mentre ascolti Giulio Cavalli dire sul palcoscenico che “la parola contro le mafie funziona”. Questo realizzi quando ascolti che il teatro fa paura, il teatro dà fastidio.

Il suo teatro, dà fastidio. Perché il teatro, quello fatto cosi, è diretto, senza mediazione, senza nessun possibile, conciliatorio, tramite. Noi in platea e lui sul palco, che racconta. Non “solo” nomi e cognomi, verissime storie. Racconta di parole che ci hanno “portato via”, snaturandole, come “onore”per esempio.

Racconta di parole come armi, “antimafia culturale” per smontare e deridere quello che ci fanno credere invincibile ed invece non lo è.

“Non bisogna avere paura di ciò che non si conosce ma bisogna temere ciò che crediamo vero e invece non lo e'” ci dice, citando Mark Twain, inoltrandosi come un giullare del ‘500 contro il potere, nello smontare icone mafiose, da Riina a Provenzano. Facendoci capire così, fra un sorriso ed una battuta, che quello che appare non è che dietro, neanche molto distante, niente è a caso e il quadro è molto, molto più grande.

Ci fa capire che “commemorare” è praticare memoria ed è praticare memoria ciò che dà fastidio, così come dà fastidio riderne di mafia e di boss perché “la risata sbriciola ciò che ci hanno fatto sempre credere vero”, compresi certi miti.

Così scopriamo che Provenzano quando viene arrestato viveva in mezzo a cacche di capre, pentolini incrostati, collezioni di santini, pasta senza glutine e non nel bunker di Guerre Stellari che l’immaginario ci farebbe credere.

O che è inutile parlare di minacce ricevute perché fa, invece, bene sorridere, demolendola, sulla bara inviata in teatro e rivenduta perché lui, Giulio il destinatario, non sapeva dove sistemare.

Insomma, durante questa “giullarata” di “Mafie, maschere e cornuti” che sta andando in scena con ascolti storie che sono cresciute da sole, nonostante il silenzio complice e ignavo di Stato, silenzio che tutti tranquillizza e rassicura.

Storie come il funerale “oscenamente privato” di Ambrosoli a Milano, sepolto in fretta d’estate solo con la moglie, i figli e l’amico maresciallo della Guardia di Finanza, o quella dei nomi che non si possono fare nelle storie dei mercati ortofrutticoli o quella dimenticata, e ancora da chiarire, di Bruno Caccia, magistrato ucciso a Torino nel 1983 nell’attimo di libertà in cui passeggiava col cane.

Storie come quella di Denise, figlia di Lea Garofalo o di altri testimoni di giustizia, gente che in Italia troppo spesso deve sparire, mimetizzarsi, dimenticare la propria vita invece di poterla riprendere orgogliosamente in mano, come sarebbe naturale dopo tanto coraggio.

Perché “siamo un paese che si innamora delle fragilità sbagliate”, che non sa proteggere chi merita,un paese che ci fa intendere le intercettazioni come pratica brutale contro la privacy dei potenti “, un paese dove “se hai uno spettacolo antimafia non esci neanche sul gazzettino della parrocchia, mentre se sei al 41 bis ti ascoltano”.

Insomma, il tempo passa veloce mentre Giulio e Francesco Spina, il suo musicista, sono sul palco.

Passa veloce mentre ti scorrono nella mente le immagini della tua città, delle tante città in Italia dove vedi materiaizzati quei soldi di cui sta raccontando, quei “soldi che non devono avere più la forma di soldi”, che diventano ristoranti inspiegabilmente sempre vuoti, centri commerciali stranamente uno accanto all’altro, bar, casermoni di appartamenti deserti o file di capannoni fantasma in aeree industriali di città impoverite.

Ritornano a bomba queste parole nella nostra mente e ci toccano proprio per la semplicità estrema, la forza con cui sono dette. La stessa con cui dobbiamo trattenerle. Perché è un dovere farlo, un dovere portarsele a casa.

Un dovere ricordare quella seconda parte, dimenticata e così poco in luce, dell’art. 4 della nostra Costituzione che ci viene ricordata.

Quella sommersa dalla prima, così fondamentale sul valore del lavoro ma in cui si recita straordinariamente che come cittadini abbiamo il dovere di svolgere secondo le nostre possibilità “un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”!

Il dovere. Insomma, dove ci viene detto chiaramente che “l’indifferenza è incostituzionale” e che è un dovere, quindi ,essere di parte, scegliere da che parte stare. Essere “partigiani”, sempre ,ancora, nel senso autentico della parola.

Essere partigiani chiedendosi cosa abbiamo fatto e cosa facciamo, alla fine, per Denise, per Lea e per tutte queste altre storie che commemoriamo e che ci sono state raccontate.

Si ritorna a questo teatro, che poi teatro alla fine poi non è, perché vivo vero, irridente e demolitore. A questo teatro che ” funziona solo se ce ce lo portiamo a casa”.

Le luci si spengono, la platea si svuota, la convinzione che Giulio ce l’abbia fatta anche stasera a lasciare ancora qualcosa. La capacità di deridere quello che ci fanno vedere e di cercare, invece, seriamente ed ogni giorno quello che ci nascondono.

Insieme all’immagine evocata che, prima o poi, dal fondo della platea si alzi Denise, la figlia di Lea, che salutandoci serena possa dire: “Io sono qui. E sono IO”.

Semplicemente.

«Santa Mamma, un libro che non ti aspetti»: la recensione di Articolo21

(di Salvo Ognibene, fonte)

Forse è meglio che mi presenti ma non sono mai stato forte, vi confesso, né con gli inizi e ancora meno con i finali: solitamente finisco dentro qualcosa da cui mi sfilo vigliaccamente nel modo più indolore possibile. Cerco il protagonismo e poi ne soffro. Ogni volta ci ricasco. Deve essere per questa mia ossessione di scrivermi un inizio. Sono Carlo Gatti e sono nato con un buco” Ecco chi è il protagonista di “Santa Mamma”. Un bambino adottato all’età di tre anni che, alla soglia dei 70 anni, racconta la sua storia  con un’indole poetica e narrativa che solo la penna di Giulio Cavalli poteva raccontare. In Santa Mamma ci ricorda il valore degli affetti e non nasconde le debolezze dell’uomo che ogni tanto viene sopraffatto dal peso di una società troppo egoista per vedere al di là del proprio naso.

Un romanzo legato a storie del presente che segue “Mio padre in una scatola da scarpe” (Rizzoli, 2015) e “L’innocenza di Giulio. Andreotti e la mafia” (Chiarelettere, 2012). Un libro sull’essere figli e genitori, sull’importanza della scuola e delle insegnanti che ci mettono il cuore, l’anima e la testa. Una storia che stupisce, intima a tal punto da far provare vergogna a chi legge e dove non manca uno schiaffo all’antimafia che “non scende il naso”, che non incide. Restituisce dignità a chi immancabilmente fa bene il proprio lavoro, anche quello del clown Exupéry, che per il solo fatto di far bene il suo mestiere (far ridere la gente) si ritrova a vivere sotto scorta.

Impossibile non notare le diverse coincidenze biografiche tra il protagonista del romanzo ed il suo autore: dalla data del giorno di nascita fino a giungere ad una vita sottoscorta. Dettagli che in una storia densa e avvolgente come questa cadono in secondo piano ma che lasciano il segno.

A Giulio Cavalli il riconoscimento di aver saputo raccontare una storia difficile e che lo toglie da quell’imbarazzo di chi non vorrebbe scrivere un libro perchè “ogni lettore annoiato su una storia che è costata sangue e cuore è una doppia dannazione e io, scusatemi, sono troppo fragile per correre questo doppio rischio”.

E rimane il sorriso,  di chi, nonostante tutto, continua a farcela.

Leggetelo, vi farà bene.