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«Santamamma, un libro che doveva essere scritto»: la recensione di Lara Cardella

(Lara Cardella, scrittrice, scrive di Santamamma nel suo blog, qui)

Ci sono libri che vanno al di là delle categorie del “bello” e del “brutto”, io li definisco i “libri che devono essere scritti” e, perciò, letti. “Santamamma” è uno di questi libri. L’autore, Giulio Cavalli, è noto per la sua lotta contro la mafia e, in questa veste, l’ho conosciuto. In questi abiti l’ho intervistato, anni fa, l’ho ammirato e seguito nelle sue instancabili denunce contro ogni malaffare. In questi panni, l’ho ritrovato in tutti i libri che ha scritto e che ho letto, inserendolo nel mio personale album degli “eroi”, gente profondamente onesta e coraggiosa che, in ogni loro lotta, non esitano a metterci faccia, mani, vita tutta. Ma quei vestiti sono subito risultati strettissimi quando mi sono ritrovata a leggere   “Santamamma”: lo stile è certamente il suo, inconfondibile, ma non si trattava di un saggio, era la storia di più vite. La sua, certamente. Abilmente travestita (al punto da chiederti dove arrivi la finzione letteraria), si spalanca attraverso quel dolore, quella domanda che aleggia per tutto il romanzo e che mai viene espressa:”Perché mamma non mi ha voluto? Perché mi ha abbandonato?”.

Una domanda che non appartiene soltanto a chi è stato rifiutato e costretto a crescere in un istituto, ma che può cogliere ognuno di noi in qualsiasi momento della nostra vita: di fronte a un’incomprensione, un diniego, una separazione. Il “buco” di cui Carlo, l’alter ego di Giulio, parla lo accompagna sempre, anche se viene adottato da una famiglia che lo ama, che si prende cura di lui; rimane la ferita dei “non amati”, diventa ricerca di verità, ma anche scontrosità, incapacità ad aprirsi e regalarsi le gioie semplici di una frase gentile, come se temesse di lasciare scoperta una parte di pelle dalla corazza che s’illude lo possa proteggere da nuovi abbandoni. Carlo attraversa la sua vita quasi con incoscienza, lasciando che le cose gli accadano, scegliendo solo per rifiutare: accadrà così che si troverà eroe per caso, simbolo della lotta contro la mafia, in mano ad agenti speculatori. E s’intravede tutta la stanchezza di Giulio, costretto da anni a vivere sotto scorta come Carlo; e finalmente si comprende il suo rifiuto per la retorica dell’eroe, la pesantezza di essere costretto in quei panni di cui parlavo prima: è un attacco, durissimo, alla società, a noi, a chi lo vuole identico a sé stesso e immutabile.

E’ la rivendicazione di un uomo che chiede di essere come vuole, di non assecondare nessuno, libero. E per riprendersi questo suo diritto abbandona lo show osceno di chi gioca con la sua volontà di poter essere sé stesso. Cerca le sue radici, fa i conti con quell’ombra, la mamma che tutto divora, decide di sapere. Un atto di coraggio, in ogni caso. Spogliarsi della sua veste di eroe per tornare ad essere  solo Giulio,per trovarsi e presentarsi al lettore con le proprie debolezze,fragilità, forze insospettate, scavi interiori crudeli innanzitutto verso sé stesso ché Giulio nulla si perdona. Con uno stile spezzato, frammentato, amore per la parola mai banale, Giulio Cavalli offre al pubblico un racconto in cui ogni personaggio è animato da pulsioni vere, chiede di essere letto con attenzione, perché il suo non è un libro che si fa dimenticare.

Ti accosti, allora, con pudore a questa storia, vergognandoti di quelle domande che, inevitabilmente ti si presentano (ma gli è successo davvero?), le cacci perché sai che ha già dato tutto in quel romanzo, che gli deve essere costato più di quanto si possa chiedere a qualunque autore (a cominciare dalla dedica). Ci sono libri che devono essere scritti. E, perciò, devono essere letti. Anche con dolore, ma devono essere letti.

«La densità di ogni parola scava un solco profondo nel cuore di tutti». #Santamamma secondo Monica D’Angelo

(di Monica D’Angelo)

Figurandosi a tratti di uscire dal proprio corpo e vedersi vivere, Carlo Gatti tenta di ricucire gli strappi della sua memoria di bambino adottato. Vuol tappare quel buco nel cuore che lo ha sempre fatto sentire un “appaltato” della vita, ripulirsi di quella placenta che lo imprigiona ancora, nonostante l’amore grande dei genitori. Protagonista a volte tenero a volte sarcastico del proprio dolore, fino quasi a compiacersene per sopravvivergli, si incammina nella ricostruzione della sua identità smembrata, a partire dal ricordo del primo pianto tra le braccia della maestra, primo di una serie di pianti accidiosi e solitari. Inizia così una personale sceneggiatura della sofferenza insieme ad un’ impari battaglia sui luoghi comuni, le ipocrisie, le apparenze di cui ognuno, inevitabilmente, si nutre. E’ la macchina della retorica, la finta comunicazione che stritola il suo mondo interiore. Un universo dal vocabolario ricchissimo, ma che la recita del “fuori” comprime e mortifica.

Carlo, musicista mancato, sceglie di fare il clown in un circo di infimo ordine, provocatoria metafora della vita. Per caso e inconsapevolmente diventa un eroe nazionale. Lontano dai suoi genitori, vive sotto scorta, appiattito dall’angoscia e dalla solitudine. Le luci della ribalta lo infastidiscono e diventano solo un monotono “sguazzare nel brodo degli altri”; tuttavia egli entra in un circuito opprimente che confonde cura e malattia, in un gioco delle parti che sostiene a volte con ironia a volte con vena malinconica e amara. Ma la ricerca delle sue radici, all’origine dell’abbandono, diventa una via di fuga e si trasforma in un riscatto, possibilità, forse, di una rinascita: autoassolversi dalla paura della propria inadeguatezza al cospetto della verità.

La scoperta di avere un fratello, anche lui adottato, gli fa conoscere la gioia di condividere il proprio sangue e l’innocenza della sua condizione, nel tentativo vano di ripulirsi dalle sporcizie del mondo. Con questo romanzo Giulio Cavalli ci fa entrare nella sacralità del suo silenzio e ci regala tutte le sfumature di un’anima inquieta, spigolosa e dolce, aspra e poetica. La densità di ogni parola scava un solco profondo nel cuore di tutti, inchiodandoci a leggerlo e assaporarlo d’un fiato.

(Monica D’Angelo è una scrittrice e socia della bella libreria IoCiSto a Napoli, dove sarò martedì 9 maggio per presentare Santamamma, qui c’è l’evento fb)

«Straordinario»: Gabriele Ottaviani recensisce Santamamma per “Convenzionali”

di Gabriele Ottaviani (fonte)

E via. Quel pomeriggio partecipai a un convegno sull’evoluzione della figura del clown nell’impegno civile. Tairo non si reggeva in piedi e non venne nemmeno portato alla scrivania dei relatori. Io dissi dell’importanza di credere in se stessi e della forza della risata contro il potere precostituito e i prepotenti. Mi scappò anche un cenno sull’incompatibilità tra il personaggio e la persona. Cerchiamo sempre di arrivare alle persone ma poi ci lecchiamo subito il personaggio che abbiamo fatto di noi stessi, così dissi. Grandi complimenti per l’umiltà, scrissero i giornali. Il rettore dell’università di cui eravamo ospiti mi offrì di tenere un corso di sociologia e poi, preso dall’entusiasmo, mi offrì anche una laurea ad honorem. No grazie, gli risposi, senza sorriso, al massimo mi servirebbe un diploma in pianoforte, se vi avanza, da regalare a mio padre per il suo compleanno. Mi guardarono perplessi. Che matto che è Gatti. Che matto. Per forza, è un clown. Mentre autografo i libri un ragazzo in coda mi chiese che lavoro facessi. “Ora, in questo momento, lei, che lavoro fa?”, mi chiese. Non era una domanda astiosa, era proprio una curiosità. I tendini mi si fecero legno, mi sanguinava cuore dai denti. Fu qualcosa di simile a uno svenimento. “Tranquillo, signor Gatti, è una crisi di panico. Tranquillo. È normale, visto lo stress e poi la notizia della morte di Corleone, la paura. Normale crisi di panico. Senta, Gatti, mi firma anche questa copia per mia nipote? Non ci crede che lei è un mio paziente.”

Santamamma, Giulio Cavalli, Fandango. Giulio Cavalli nasce a Milano il ventisei di giugno del millenovecentosettantasette. Per brevità chiamato artista è l’enneasillabo, a voler considerare la sinalefe, che ne sottotitola il nome e ne definisce in maniera a dir poco perfetta la poliedrica personalità sin dalla homepage del suo interessantissimo sito, www.giuliocavalli.net, aggiornato con grande frequenza e attraverso il quale, persino per il tramite di una newsletter – un diario di bordo, per usare le sue parole – molto curata ed efficace, è possibile avere immediatamente una panoramica completa, ritrovarsi immersi e coinvolti nel suo mondo dai mille colori, dalle infinite sfaccettature. Un mondo nel quale rivestono un ruolo fondamentale la coscienza e la consapevolezza, nonché il concetto stesso di testimonianza, di esempio come veicolo di formazione, di educazione, di condivisione con la comunità di appartenenza, simbolo coerente di continuità fra parole e azioni. La sensibilità. La sensibilizzazione. Che è cosa simile ma non identica. L’impegno civile. La convinzione che la politica – non esistono atti umani che non siano politici, ogni azione ricade anche sugli altri – sia un alto ideale e uno strumento prezioso per il bene comune (l’uomo non è fatto per la solitudine), per la giustizia sociale, per l’equità, per la costruzione di un mondo migliore, cosicché, quando sarà il momento, possa essere riconsegnato ai suoi veri proprietari, i nostri posteri che ce l’hanno generosamente affidato in prestito in attesa del loro momento, in condizioni almeno adeguate. La certezza che attraverso l’arte e la bellezza, salvifica per antonomasia, sia possibile far sbocciare il bene, che toglie ossigeno al male. Tutte le molteplici attività di Cavalli sono connotate in maniera decisiva dalle conseguenze determinate da questa Weltanschauung propugnata con vibrante e ammirevole passione, che ha a sua volta effetti sostanziali sull’esistenza dell’attore, scrittore, regista e politico. Scrive per Left, Fanpage, L’Espresso: ha collaborato anche con Il fatto quotidiano. Sedici anni fa, giovanissimo, Cavalli, che nel giugno del duemilanove debutta addirittura al Teatro Augusteo di Napoli con L’Apocalisse rimandata Ovvero benvenuta catastrofe di Dario Fo e Franca Rame, coprodotto dal Napoli Teatro Festival Italia e con il sostegno di Next, fonda la compagnia Bottega dei Mestieri Teatrali: nel corso del tempo con i suoi spettacoli parla al suo pubblico, via via sempre più numeroso e coinvolto, della Resistenza, del G8 di Genova del duemilauno, durante il quale, in conseguenza dei violenti scontri che ebbero luogo nel capoluogo ligure, perse la vita Carlo Giuliani, dell’incidente aereo che nello stesso anno del summit dei potenti succitato, a Linate, costò la vita a centodiciotto persone, di turismo sessuale infantile. Soprattutto, di criminalità organizzata, del processo al senatore Giulio Andreotti per i suoi rapporti con la mafia ma non solo: prima ancora è Do ut Des, spettacolo teatrale su riti e conviti mafiosi, prodotto insieme dai comuni di Lodi e Gela, con la collaborazione della casa memoria “Felicia e Peppino Impastato” e del Centro Siciliano di Documentazione “Giuseppe Impastato”, che vede Cavalli collaborare con Rosario Crocetta e Antonio Ingroia, a renderlo bersaglio delle cosche, in particolare di quelle che sono infiltrate da tempo nel settentrione d’Italia dove lui vive e lavora, che lo minacciano e lo costringono da anni a essere sotto scorta. Candidato come consigliere regionale indipendente nelle liste dell’Italia dei Valori – che poi lascia per SEL – per la Lombardia, viene eletto con migliaia di preferenze. Santamamma non è semplicemente un racconto in cui la dimensione narrativa si fa veicolo di istanze civili, sociali, culturali, politiche, è una narrazione solida, compiuta, compatta, intensa, emotivamente trascinante e a tratti finanche destabilizzante per la spregiudicatezza della sincerità con cui le parole non solo si manifestano con la concretezza di fatti che balzano subito dinnanzi agli occhi di chi osserva e legge, e non può nemmeno volendo ignorarli, ma instaurano immediatamente una comunione con l’altro, con chi fruisce dell’opera. E se ogni opera porta certamente in sé tracce inequivocabili del suo artefice, perché ogni prodotto umano, proprio perché umano, anche qualora sia edificato con il massimo distacco in realtà non può non testimoniare la firma del suo creatore, che ne ordina demiurgicamente a suo modo e in ossequio al suo gusto e al suo credo la materia costituente, Santamamma si spinge oltre, trascendendo la vacua tassonomia del genere, e alimentendo con nuove acque il letto dell’autobiografismo, mai in questo caso specifico retorico, egoriferito o agiografico, fornendo al lettore un compendio di temi e suggestioni che non possono lasciare indifferenti. Eppure tutto prende le mosse da qualcosa di apparentemente innocuo e insignificante, un foglio lercio che custodisce una verità, quella sulle origini di Carlo Gatti, il protagonista, che nasce con un buco e che cresce amatissimo a Tarrazza, nel Lodigiano. Carlo è un bambino adottato, lo sa, non ha foto da neonato, lo dice subito a chi legge, e chi legge si sente d’improvviso come di fronte a un bivio, senza avere la possibilità di scegliere tra le opzioni perché non conosce in merito a nessuna alcuna indicazione che possa indirizzarlo. Lo spaesamento di fronte al candore di Carlo è lo stesso che hanno la maestra e la bidella, imbrigliate nelle loro frasi di circostanza e nei loro sorrisi ricolmi di buona fede e vacuità, nello splendido e potentissimo incipit, perfettamente coerente con l’intero ritmo, preconizzato sin dalle prime battute, di un tessuto narrativo che somiglia a un’onda che si fa secondo dopo secondo più forte, più piena d’acqua prima di esplodere contro la scogliera. Carlo nel frattempo diviene pianista: ha talento, ma poi molla tutto e si fa clown, prima di assurgere, suo malgrado, quasi, mutatis mutandis, come un novello Zeno che inconsapevole fa la cosa giusta, alla notorietà e al grado d’eroe. Ma non basta ancora: è una nuova agnizione a rivelargli una volta di più quale sia la fondamentale importanza della condivisione, l’unica materia viva capace di colmare quel buco con cui è venuto al mondo, l’unica strada per tornare davvero a casa. Straordinario.

La cognizione del buco: #Santamamma recensito su Gli Stati Generali

Una bella recensione di Silvia Bianchi (che ringrazio):

Santamamma di Giulio Cavalli è un racconto autobiografico di spietata sincerità.
Carlo è nato con un buco: adottato all’età di tre anni, cresce da coccolato figlio unico di una famiglia che s’era messa il cuore in pace sulla possibilità di diventare genitori (…), con il comandamento non scritto di essere grato, senza che fosse chiaro a chi. Nel piccolo paese immaginario di Tarrazza, borgo operaio lungo la via Emilia (sette chilometri e ottocentocinquanta metri dal primo semaforo di Lodi, che per noi era Boston), Carlo viene avviato precocemente allo studio del pianoforte e diventa un disciplinato enfant prodige, vincitore di concorsi e piccola celebrità locale, orgoglio dei suoi genitori adottivi. Ma la musica è per lui un’esperienza estraniante, che vive fuori da sé stesso (ho imparato a uscire scendendomi dal naso per sedermi poco distante a guardarmi), come un po’ tutta la sua vita: per soddisfare le aspettative degli adulti che lo circondano si iscrive al liceo classico, si lascia sedurre dalla sua insegnante di pianoforte, infine si trasferisce a Parma per frequentarvi il Conservatorio

E’ lì, lontano dai genitori, che avvengono le sue prime, timide ribellioni: lascia il pianoforte per il violoncello, a volte salta la scuola per suonare insieme agli amici del suo gruppo blues; finchè, giunto all’ultimo anno di liceo e di Conservatorio, decide di abbandonare gli studi musicali e si fa arrestare per aver dato un pugno a un poliziotto, gettando sua madre nello sconcerto (non è più lui, non so più cosa fare. Ma sarà malato?). L’episodio dell’arresto è un momento di svolta nella vita del protagonista: opponendosi all’arroganza dei poliziotti che si prendono gioco dei suoi pavidi compagni, Carlo per la prima volta dà voce allo scontento che lo abita e al quale non sa trovare un nome, cioè la rabbia per l’ingiustizia fondamentale, il torto radicale che ha subìto, il trauma dell’abbandono; smettendo di essere il figlio ubbidiente di sempre (adesso non faccio più il bravo, adesso basta) denuncia la sua verità esistenziale, il suo sentirsi fuori posto e si appropria, finalmente, della sua vita.

Così Carlo, sostenuto dal suo amico Francesco, rinuncia a una tranquilla sistemazione lavorativa e diventa il clown di un piccolo circo condotto da Tairo e Ana, una coppia di Belgrado che diventa quasi la sua famiglia elettiva. Qui avviene l’equivoco: durante uno spettacolo, Carlo coinvolge inconsapevolmente in una gag don Vito Corleone, boss mafioso latitante seduto tra il pubblico, che viene così riconosciuto e arrestato. Da quel giorno, Carlo deve vivere sotto scorta in un luogo protetto; riceve una medaglia al valore dal Presidente della Repubblica e si trova ben presto imprigionato nel ruolo dell’eroe antimafia, con tanto di agente. Viene invitato a lezioni e convegni, diventa il protagonista di un libro e di un film: vive insomma di nuovo un’esperienza alienante, che lo porta alla depressione (mi svegliavo al mattino con un cane nero che mi scoloriva il mondo). Nella metafora del clown, l’Autore ha trasfigurato la sua esperienza di autore e attore teatrale e nell’episodio della cattura casuale del latitante ha rappresentato il suo impegno civile contro la criminalità organizzata della sua regione; ma questi aspetti così salienti della sua vita pubblica diventano secondari nel dipanarsi della sua vicenda interiore, travasata nella storia del suo personaggio.

Carlo ha toccato il fondo e diventa così inevitabile affrontare, finalmente, il suo buco: una telefonata che evoca la sua famiglia di origine è l’espediente narrativo che induce il protagonista a riflettere sulla sua condizione (dell’essere adottati c’è qualcosa che non sta scritto in nessun trattato di psicologia (…): non sapere di chi sei ti sparge dappertutto. (…) Noi, della nostra razza di bimbi appaltati, (…) nasciamo sporchi e passiamo tutta la vita con lo strofinaccio, (…) tutto il giorno, tutti i giorni, a cercare di candeggiare via un buco). Il suo io, muto e sofferente, si incarna nel racconto nella figura di Giuseppe, il suo fratello di sangue adottato in un’altra famiglia, che da dieci anni si rifiuta di parlare e per questo è stato rinchiuso in una clinica psichiatrica. Carlo viene contattato dal padre adottivo di Giuseppe; ma, prima di incontrarlo, decide di cercare la sua madre naturale.

Fino a quel momento Carlo ha sempre preferito non saperne, adagiandosi in un lutto confortevole e autoassolutorio, finendo per abitare sul marciapiede della mia vita. Ora però il bisogno di colmare il suo buco è diventato troppo grande: così, rintraccia l’indirizzo di lei e lo raggiunge, guidando una jeep in affitto (sbriciolando la diga con cui volevo fermare la mia storia). Ma, anche stavolta, la sua madre naturale è un’assenza (Suonai. Non rispose nessuno) e una delusione da risparmiarsi (lascia perdere. Lascia stare. Se posso darti un consiglio, non ne viene fuori niente di buono da questa storia, gli dice l’impiegata del Comune alla quale ha chiesto informazioni).

Non c’è possibile risarcimento che possa venire da fuori: Carlo deve trovare in sé stesso la forza di guarire. Il primo passo (l’inizio della cura del mio buco) lo ha fatto affrontando il suo passato, vivendo la rabbia verso la madre che lo ha abbandonato e scegliendo, a propria volta, di abbandonarla al suo destino; ora deve imparare a dialogare con il suo vero io, prigioniero del silenzio, personificato dal fratello Giuseppe. Carlo ne incontra prima i genitori – il padre rabbioso, la madre affranta, alter ego dei suoi – e poi va a visitarlo nella clinica in cui è ricoverato.

In un monologo struggente, Carlo racconta al fratello ritrovato la sofferenza per il buco che si porta dietro da sempre (il peccato originale di essere stato lasciato), che lo ha spinto a vivere una vita non sua, per senso di colpa; gli confessa di volergli bene e gli spiega il desiderio di condividere con lui il dolore che li accomuna, di scambiarsi le proprie schegge di vita, di incollarsi l’un l’altro. Giuseppe gli risponde con uno sguardo e all’improvviso tutto per Carlo cambia: uscito dalla stanza di mio fratello mi è tornato il mondo a colori. Decide di dimettersi da eroe, rinunciando alla scorta e al ruolo di simbolo dell’antimafia e torna dal fratello che ricomincia a parlare, rivelandogli un dolore identico al suo: da lì ha inizio la loro ricostruzione.

Il messaggio finale del libro è di pacificazione. Non è colpa nostra, Giuseppe, dice Carlo; e anche: io devo chiedere scusa a un milione di persone. Chissà se Carlo riuscirà a perdonare la madre naturale che lo ha abbandonato, così come ha perdonato quella adottiva che non lo ha saputo capire; di certo, alla fine della storia è consapevole di non essere il solo a convivere con un doloroso buco: ho maturato l’idea che davvero sia importante essere gentili con tutte le persone che incontriamo perché ognuno sta combattendo la sua battaglia personale.

Lo stile di Cavalli, brutale e funambolico, impedisce al lettore di prendere le distanze dalla storia e lo costringe a camminare sul filo con lui, sentendo la vertigine di quella voragine interiore squadernata in ogni pagina del racconto. Per questo, giunti all’ultima riga ci si sente stanchi e sollevati, turbati e insieme rinfrancati: come se, tenuti per mano da lui, ci fossimo avvicinati abbastanza per sbirciare dentro al nostro personale buco e avessimo imparato il sentiero per non caderci dentro

(fonte)

Santamamma. La recensione (bellissima) di Ilaria Bonaccorsi per Left

(pubblicato qui per Left, di Ilaria Bonaccorsi)

«Ogni lettore annoiato su una storia che è costata sangue e cuore è una doppia dannazione e io, scusatemi, sono troppo fragile per correre questo doppio rischio».

È quasi la conclusione di Santa Mamma, il nuovo libro di Giulio Cavalli (Fandango libri). Forse la sua paura più grande. E solo oggi, solo adesso, chiuso il libro, mi rendo conto del rischio – doppio – che si è preso Giulio. Una storia di sangue e cuore la sua, una storia intima, privata a tal punto da farti vergognare mentre la leggi. Perché lo cerchi tutto il tempo, cerchi Giulio, quello che arriva in riunione di redazione e a volte ti strizza il cuore per il casino che ha dentro, altre ti riempie di parole fino a confonderti. Cerchiamo umanità insieme su Left dal 2015. “Interviste umane” le chiamiamo le sue. Quelle dove cerchi la bontà. Sono i buoni che vogliamo trovare insieme io e Giulio, anche se non vanno di moda, come mi dice sempre. La bontà non va di moda. Abbiamo firmato le copertine più assurde con Giulio Cavalli, persino una che si intitolava “Elogio della gentilezza”. Ma questo è Giulio Cavalli ed è perfetto per Left, gliel’ho sempre detto. E quando ho letto il suo libro ho capito il senso intero, quello grande, quello che gli fa cercare i buoni. Non gli eroi, i buoni, quelli che sentono il buco ma non lo hanno. E capisco, dopo aver letto Santa Mamma, quanto debba averlo sentito quel buco, e quanto abbia scavato, terrorizzato dal trovare il vuoto. E invece nessun vuoto. Al massimo un gran casino, un casino magnetico che ti fa divorare la storia di Carlo Gatti, il suo protagonista.

«Forse è meglio che mi presenti ma non sono mai stato forte, vi confesso, né con gli inizi e ancora meno con i finali: solitamente finisco dentro qualcosa da cui mi sfilo vigliaccamente nel modo più indolore possibile. Cerco il protagonismo e poi ne soffro. Ogni volta ci ricasco. Deve essere per questa mia ossessione di scrivermi un inizio. Sono Carlo Gatti e sono nato con un buco».

La storia di un bambino adottato all’età di tre anni, eroe per caso e poi per finta, di un fratello e di una ribellione. La sua storia? Forse. Mentre leggo mi ritrovo a pensarlo, e mi spiace spiare, ma sento il rischio.

«Sì, ma nessuno si mette a leggere i tuoi miseri vizi privati. Nessuno si prende la briga di capire i tuoi drammi così patetici. La tua grandezza era solo la grandezza dei tuoi nemici. Non del fratello matto o delle tue paturnie».

Lo dice l’impresario/editore nel libro a Carlo Gatti che l’eroe non lo vuole più fare. Lo ha pensato Giulio? Ha pensato di essere un buco grande quanto la grandezza dei suoi nemici? Forse. Conoscevo, conosco Giulio, sono due anni che scrive ogni giorno per Left, ma non mi aspettavo un libro tanto bello. Tanto perfetto. Scusatemi per la sorpresa e anche l’emozione. Ho pensato di non scriverlo, ho pensato persino di dare il libro a un mio redattore e di lasciare sgonfiare il mio cuore con calma. Ma a Giulio lo devo e forse gli devo anche delle scuse perché non ho capito subito, non ho visto subito.
Un libro buffo e uno serio. Un libro su un Matteo e un libro su se stesso. Questo aveva proposto. E la risposta è stata scontata. Su te stesso. Non restava allora che tuffarsi per lui. Senza paura? No, con la paura di annegare per «quella placenta che gli si era seccata addosso», alla nascita a lui bambino «appaltato». Dovrò fare uso di psicofarmaci, mi ha detto scherzando. E ha inalato fumo alla vaniglia dalla sua sigaretta elettronica, poi è sparito. Inutile inseguirlo, era andato nel “suo buco”. C’era solo da aspettare.

Ci sono frasi o momenti in Santa Mamma che ti straziano il cuore (ma non posso e non voglio spoilerare la storia!), ci sono espressioni che non avevo mai letto prima, come «ha due occhi che mi prendono per i capelli», c’è un modo di usare la lingua che ti tira dentro e poi ti mette fuori, a leggere soltanto quello che solo lui ti racconta.

«Ti dimenticheranno in poco tempo» dice l’impresario/editore nel libro a Carlo Gatti «nato con un buco». Invece Giulio io penso che non ti dimenticheranno in poco tempo perché il libro è indimenticabile. Mi hai fatto “scendere dal mio naso”, come scrivi di te stesso, più e più volte e mi hai portato nella tua vita. E ho pensato quello che hai scritto per tuo fratello di noi due:

«Però non ci capisce nessuno vero?». «Adesso cominciamo. Cominciamo adesso».

Io il libro di Giulio Cavalli non so raccontarvelo, posso solo pregarvi (passatemi il termine!) di leggerlo.

persinsala recensisce lo spettacolo ‘L’amico degli eroi’

(fonte)

(recensione di Fabio di Todaro)

Schermata 2016-06-02 alle 09.30.31Ne L’Amico degli eroi, andato in scena al Teatro della Cooperativa, Giulio Cavalli ripercorre l’ascesa sociale del politico siciliano, riconosciuto dalla giustizia come un trait d’union tra Cosa Nostra e l’alta finanza.

La storia dell’Italia dell’ultimo ventennio in un intreccio ferale tra mafia e politica, è così che Giulio Cavalli, accompagnato dalle musiche di Cisco Bellotti, ci ricorda cos’è avvenuto nel nostro paese tra la fine degli anni ’70 e l’inizio del nuovo millennio. Ne L’Amico degli eroi, al Teatro della Cooperativa di Milano, l’attore, da sempre impegnato in rappresentazioni di teatro civile, ripercorre la storia giudiziaria e le relazioni di Marcello Dell’Utri con Vittorio Mangano e Silvio Berlusconi. Passando da un monologo all’altro, Cavalli coinvolge il pubblico e lo guida per mano nella drammaticità vissuta (e soltanto di rado portata a galla) lungo la Penisola sul finire del ventesimo secolo.

Lo sfondo è, con la proiezione di documenti, interviste e video che suffragano quanto raccontato dal protagonista, un valido accompagnamento, Dell’Utri viene descritto come «un giovane siciliano arrampicatore sociale che decide di essere l’anello di congiunzione di due mondi totalmente differenti: l’imprenditoria milanese estrema e l’arrembante mafia siciliana». In mezzo ci finisce la politica, con la nascita di Forza Italia e l’ascesa di Berlusconi. Cavalli riporta i passaggi conclusivi della storia giudiziaria di Dell’Utri, «un’attività volontaria, consapevole e specifica che ha contribuito al mantenimento, consolidamento e rafforzamento di Cosa Nostra, alla quale è stata offerta l’opportunità di entrare in contatto con importanti ambienti dell’economia e della finanza», sempre con la mediazione di Dell’Utri.

Lo spettacolo è interessante e coinvolgente, Cavalli si conferma un’eccellente narratore delle vicende di mafia di questo Paese, come peraltro già dimostrato con Nomi, cognomi e infami. Al Cooperativa toccherà probabilmente inserire questo spettacolo nella prossima stagione, per evitare che risulti penalizzato dalla messa in scena in coda a quella appena conclusa.

 

Sonda.Life sullo spettacolo ‘L’amico degli eroi’

(fonte)

Al Teatro della Cooperativa, fino allo scorso sabato 28 maggio è andato in scena, per la prima volta a Milano “L’Amico degli Eroi, Parole Opere e Omissioni di Marcello Dell’Utri”. Il testo è stato scritto, diretto e interpretato da Giulio Cavalli.  Musiche di Cisco Bellotti.

Il termine, quasi d’obbligo in calce ad ogni spettacolo, “liberamente tratto” mi sembra andare un po’ stretto a quest’ultimo lavoro di Giulio Cavalli in cui viene analizzato l’intreccio tra mafia e politica, tratto dalle vicende giudiziarie (e dalle amicizie consolidate) di Marcello Dell’Utri, Vittorio Mangano e Silvio Berlusconi.

E’ un succedersi incessante di monologhi proposti da un Giulio Cavalli decisamente coinvolgente e capace di calare il pubblico nella drammaticità di una realtà con la quale il nostro Paese si confronta tristemente da oltre vent’anni. I monologhi sono proposti con un linguaggio diretto, sobrio e al tempo stesso divertente. Sullo sfondo e con ritmo sapiente ecco proiettati i documenti, le interviste e i video che testimoniano momenti di verità e palesi intrighi di potere.

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Sulle tavole del Teatro della Cooperativa è stata di scena, come si legge nella presentazione dello spettacolo, “ la vicenda (dis)umana di un giovane siciliano arrampicatore sociale che decide di essere l’anello di congiunzione di due mondi totalmente differenti (l’imprenditoria milanese estrema e l’arrembante mafia siciliana) passando indenne dal cambio dei vertici mafiosi, dei vertici politici: praticamente indenne dalla Storia d’Italia fino alla condanna per concorso esterno in associazione mafiosa”.

La pluralità dell’attività posta in essere da Dell’Utri, per la rilevanza causale espressa, ha costituito un concreto, volontario, consapevole, specifico e prezioso contributo al mantenimento, consolidamento e rafforzamento di Cosa nostra, alla quale è stata, tra l’altro offerta l’opportunità, sempre con la mediazione di Dell’Utri, di entrare in contatto con importanti ambienti dell’economia e della finanza, così agevolandola nel perseguimento dei suoi fini illeciti, sia meramente economici che politici”, così conclude la sentenza definitiva, sottolineando come la vicenda giudiziaria testimoniata da Cavalli rappresenti un passaggio fondamentale per comprendere la storia italiana degli ultimi tempi e forse, purtroppo anche di parte dell’immediato futuro.

Spettacolo interessante e coinvolgente con il limite, involontario, di essere stato inserito nella coda del ricchissimo programma proposto dal Teatro di via Hermada, uno spettacolo che spero possa essere ripresentato nella stagione 16/17 perché merita di essere visto da un grande pubblico.

Claudia Notargiacomo

Letteratitudine recensisce ‘Mio padre in una scatola da scarpe’

(La recensione sul romanzo ‘Mio padre in una scatola da scarpe‘. Il libro lo potete acquistare qui. L’articolo originale è qui.)

di Eliana Camaioni

539526612È una storia di famiglie, “Mio padre in una scatola da scarpe” (Giulio Cavalli, Rizzoli ed.): quella di Michele e del Nonno, composta da ‘brave persone, che lavorano e tacciono’, e quella dei Torre, simile ad ‘una marchiatura a fuoco sull’orecchio o una targhetta pinzata in mezzo alle palle come un toro’, capace di ‘allargare le regole finché non ti entrano perfettamente’. Sono le regole non scritte del paesino di Mondragone, dell’entroterra napoletano: appartenenze suggellate da battesimi di sangue e persiane chiuse, omertose e vigliacche; baci in piazza che timbrano come bestiame, e gonne da processione paesana –gonne debutto, per donne da marito, e gonne gabella, assenzi taciti di sottomissione ai boss.
‘Non guardare e non sentire è il modo più maturo e responsabile per difendere la tua famiglia e i figli che vorrai’, questa la ricetta per sopravvivere a Mondragone, paese di poche anime e tanti segreti, dal lessico silenzioso dell’abito buono esibito alla messa domenicale, di una scollatura che ti rende donna e di morti sparati, ‘morti interrotti’, guardie e ladri, corriere e corrieri.
Un affresco collettivo, nitido e tridimensionale per l’uso intenso che Giulio Cavalli fa di similitudini e metafore; ci sono caffè all’alba e turni di notte, cervelli che schizzano e mogli che aspettano, odore di salsa ed esalazioni di vino, amici che muoiono e carabinieri che archiviano.
E poi ci sono gli occhi, di chi tutto guarda e nulla vede, occhi che piangono e occhi che seccano, occhi che urlano parole non pronunciate, e picchiano più delle bastonate; occhi di bue da regista, che Giulio Cavalli stringe su ciascun capitolo, con una focalizzazione disincarnata e variabile, raccontando quarant’anni e quattro generazioni di una terra ‘così omertosa e schiava’ di cui il Nonno, agli occhi del nipote Michele, sembra essere il ‘certificato’. Michele e la famiglia coraggiosa che farà con Rosalba, secondo i dettami delle ‘brave persone’: perché ‘c’è tanta bellezza e tanto coraggio a crescere una famiglia con dignità’, lo stesso coraggio necessario ‘a rinunciare, anche ai principi se serve’. Un mos maiorum che si tramanda di Nonno in nipote, una rabbia sorda impossibile da accettare per Michele se non quando sarà nonno a sua volta, perché a Mondragone ‘la vita è molto più semplice di come la pensi: basta non fare la rivoluzione tutte le mattine’, basta sposare una donna onesta ed accontentarsi di un onesto lavoro, dribblando le ingiustizie, stando fuori dagli affari dei potenti.
Il tempo della storia vola via veloce, fra chi da Mondragone parte e chi a Mondragone resta, fra chi espatria per cercare salvezza e chi partendo fa la fortuna di chi comanda, come una sberla per chi al paese lavora e tace, ‘facendo quello che è possibile fare’; cene fra amici segnano il passo, e come un impietoso consuntivo di fine anno tirano la riga sotto le vite dei protagonisti, mentre queste si intrecciano, si intersecano, divergono, si interrompono.
Di tutti i luoghi, la spiaggia e la piazza sono elette a testimoni silenziose: di amori onesti e amori rubati, del punto di equilibrio in cui risiede la felicità perfetta, di macabri ritrovamenti, di quella desertitudine – meraviglioso neologismo – che a Mondragone ‘prende il posto dei sorrisi’.
Il termine mafia è un gas mortale che ammorba l’intera narrazione, ma compare solo a metà del romanzo, nell’epoca in cui di mafia finalmente si osa parlare: e sarà un boato, l’esplosione di quel gas, per bocca di un figlio che si rivolge al padre: ‘Quelli che fanno finta di niente con il tuo amico morto ammazzato sono mafiosi!’ perché è mafioso ‘anche chi non ammazza, spende soldi guadagnati ammazzando la gente’.
Uno scatolo da scarpe, una morte tanto ingiusta quanto ingiustificata, indica la fine di una storia iniziata con una fine che era un inizio: perché ‘per uno cauto di natura la fine è un punto di domanda’ si legge nell’incipit, ‘per uno più arrogante è un vinto lasciato per terra’.

«Ci sono libri che, una volta terminati, si lasciano dietro un po’ di malinconia e tante domande»: Uno Scaffale di libri su ‘Mio padre in una scatola da scarpe’

Schermata 2016-02-03 alle 12.25.07Buongiorno, amanti della lettura.
Oggi parliamo di un libro importante, di un tema importante, di una storia vera.
Ringrazio Barbara Reverberi e Moira Perrusso, de MoBa comunicazione, per avermi proposto questa lettura per cui ci vuole una pioggia di due anni per lavarla via dai miei pensieri.
Trama:
Michele Landa non è un eroe, e neppure un criminale. Tutto ciò che desidera è coltivare il suo orto e godersi la famiglia; vuole guardarsi allo specchio e vederci dentro una persona pulita. Ma a Mondragone serve coraggio anche per vivere tranquilli: chi non cerca guai è costretto a confrontarsi ogni giorno con gli spari e le minacce dei Torre e con l’omertà dei compaesani. Michele conosce la posta in gioco, ha perso il lavoro e molti amici, ma è convinto, nonostante tutto, che in quel deserto si possa costruire qualcosa di bello e provare a essere felici. Al suo fianco c’è Rosalba, “la silenziosa”: dopo quarant’anni si amano come il primo giorno, sono diventati genitori e nonni, sognano una casa grande e un albero di mele. Ma si può immaginare una vita diversa, in una terra paralizzata dalla paura? Con una scrittura avvolgente e il piglio di un autentico cantastorie, Giulio Cavalli racconta un’Italia dimenticata e indifesa, ricordandoci che non serve fare rumore per diventare eroi delle piccole cose.
Recensione:
Ci sono libri che, una volta terminati, si lasciano dietro un po’ di malinconia e tante domande. Sono quelli dove non accettiamo come sono andate le cose, come si sono risolte, come non si sono risolte e, alla fine, semplicemente ci arrendiamo di fronte a una realtà che soffoca ogni tentativo di ribellione. Quei libri, come quello di Cavalli, per cui si desidera un finale diverso degno delle persone che lo hanno accompagnato, ma che senza quel finale in sé non sarebbero mai stati quei libri.
Questo paese funziona come una ferrovia: se esci dai binari rischi di fare il botto. E allora tutti in fila indiana: un paese con il coraggio di una gita delle scuole elementari.
Cavalli è uno scrittore coraggioso, come lo erano tutti una volta, e ci parla di mafia. Ma per essere coraggiosi bisogna esserlo per intero, non a metà, e così ci racconta una storia vera. Quella di Michele Landa, la sua famiglia, e la malavita. Malavita perché rende la cosa più genuina e legittima, la vita, in qualcosa che di genuino non ha nulla, il male.
 
Siamo nati male, Michele, siamo nati qua che alla fine nemmeno i sogni sanno correre, sudati come siamo.
Vivere è semplice, dicono alcuni, e il come è una scelta. Una scelta che si basa sul dove si vive, forse. Lo sa bene Michele che, sin da quando è diventato orfano, vive con il nonno a Mondragone che gli ha insegnato la cautela. La cautela è lavorare tutto il giorno, sgobbare, come si dice, tornare a casa con le mani in tasca, la testa chinata, la paura di essere felici, la paura di sognare. Glielo dice Rosalba, la silenziosa, quel giorno al lago: non aver paura di essere felice, lasciati andare. Ma ci vuole cautela anche per quello, rimanere sul chi va là, prevenire un dolore di una perdita se non la si conosce quella felicità.
Michele, tu sei un ragazzo intelligente e bravo, e ci hai preso tutto il cuore si tua madre e la scorza di tua nonna, ma questa nostra terra non è un allevamento di animi nobili o di cavalieri. Questa è la terra dei ladri che non vedi mai rubare, degli assassini che ci mangi allo stesso tavolo in osteria e dei diavoli che ognuno ha in corpo. E qui, da noi, qui il tavolo si sente più libero di passeggiare. Questa è una terra che va abitata in punta di piedi, Michele, va abitata in silenzio, qui le brave persone per difendersi diventano invisibili, Michele, in-vi-si-bi-li.
Una cautela che chi non abita lì può prendere come codardia, e chi abita lì e si rifiuta può andare via, scappare. Ma per quelli come Michele il massimo del coraggio è rimanere lì, non diventare orfano anche del paese natale. Lui ma anche quel ragazzone ripetente del suo amico Massimiliano, il fratello mai avuto, e la “silenziosa”. Rosalba gli ruba il cuore in tutto quel marcio – ha ragione Massimiliano, ci vuole una pioggia di due anni per lavar via tutto per bene, lì a Mondragone -, e lui la sposa, quel giorno al lago si promettono di farsi stare bene per il resto della vita. Lei di poche parole ma saggia e amorevole, anche con i loro quattro figli. Lui con la sua prudenza che in mezzo a tutto quella illegalità insegna ad Angela, Antonio, Andrea e Giovanni, l’onestà, una vita da eroi senza mantello, eroi di vita.
Il loro amore è un amore antico, se lo ripetono tutti i giorni, perché è tra persone che sono cresciute imparando ad aggiustare le cose senza buttarle.
 
Perché Cavalli ci racconta anche questo: la crescita. Quando tutto cambia senza cambiare mai. Quando il tempo passa ma la cautela è ancora la miglior cosa. Quando si ha lavorato un’intera vita e non si desidera altro che la pensione.
Il nostro riposo è la pensione. Il nostro porto è la pensione.
E infatti quello era l’ultimo giorno di lavoro per Michele, la guardia giurata, mancavano poche ore e finalmente avrebbe passato il resto della vita a coltivare i campi con la nipote, Michelina, a bere il caffè al mattino con Rosalba, la “silenziosa”. La stessa che quell’ultimo giorno squarcia il mattino urlando il suo dolore, la sua mancanza, per poi tornare di nuovo silenziosa.
L’attesa la invecchia, il tempo si trascina pesantemente, Michele non tornerà  più. Michele è stato ucciso e il suo corpo è stato bruciato.
C’è un momento nella vita di ognuno, uomo o donna, in cui si perde l’innocenza. E’ questione di un attimo, e magari non lo prendi nemmeno sul serio: capisci il tariffario dei valori e quanto sia normale toglierli dal cassetto in cui li tenevi chiusi a chiave. Capita a tutti. Capisci che costano, i valori: anche tenerseli costa. Qui in paese in questi anni è costato a tutti.
Ma perché?, mi sono chiesta io. Cos’ha visto, che ha detto, mi chiedevo subito dopo. Sono domande legittime che chiunque avesse letto il libro di Cavalli si sarebbe fatto. Cavalli che ci racconta una storia vera, anche se romanzata, a tratti poetica, e tra le righe ci fa leggere la crudeltà della mafia. Sempre tra le righe si legge la paura di ogni uomo o donna che sono costretti alla cautela nella vita, ma tra una fessura e l’altra, tra una lettera e l’altra, si legge anche di speranza. La speranza di una vita migliore, la felicità nel proprio piccolo, quella senza timore.
Giulio Cavalli ha scritto un libro importante, uno di quelli che gli adulti devono leggere per poter spiegare ai figli le cose, in attesa che loro vogliano farlo da sé.
– Sì papà, il discorso mio era un altro: vedi che alla fine i buoni perdono e i furbi vincono? –
– Non è detto. Bisogna tirare le somme alla fine… –
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I frammenti che hanno punto

frammenti

Adamantia è una lettrice. Una di quelle che scompare nelle statistiche di questo Paese in crisi di lettori ma poi ti rinfranca con il mondo perché la incontri alla presentazione di un tuo libro o alla prima di un tuo spettacolo. Ci incrociamo poco. Ci si scrive ogni tanto. Quando la incontro, ogni volta, mi regala un libro. Insomma, Adamantia mi segue e conosce da anni e per questo le sue osservazioni sono fitte, precise. Adamantia ha letto ‘Mio padre in una scatola da scarpe‘ e mi ha inviati i frammenti che secondo lei pungono nel libro. In elenco. Così. E mi sembra una cosa talmente bella che li appoggio qui:

Un sospiro a forma di banalità
Ha le scarpe che chiedono scusa
E’ una casa dove si è consumato un urlo che non è mai passato
Può succedere che tu non te ne accorga ma sei già sporco di bianco o sporco di 
nero
Spalmata sul pavimento come un cadavere sgocciolato dal soffitto
Ilpomeriggioelasera tutti attaccati
Il riso dei servi è bava
La chiesa si beve tutta la piazza
Il babbo è un tuono afono, la mamma un fiore che cerca un fosso
Massimiliano ha in testa una visione talmente molle che sembra uscirgli dal 
naso
Il parroco che conosce i peccati e li rivende al mercato del compromesso
Chissà come fa Massimiliano ad aprire un sorriso così largo e non volare via
Spettinato nella sostanza
Non si può spostare l’asticella dei valori in nome della stanchezza
Giovanna è una donna punita. Troppo compita, troppo edicata, troppo recintata 
per essere solo una questione di equilibrio piuttosto che di dolore.
Ora è matematicamente imbarazzato.
Esce con un abbraccio che è partito con il suono della campanella.
Il loro amore è un amore antico … tra persone che sono cresciute imparando ad 
aggiustare le cose senza buttarle
Ecco il sonno che cammina
Il clic del telefono di un figlio lontano è un ferro da uncinetto
Quante cose succedono nelle persone mentre sembra che fuori continui a non 
accadere niente
Un equilibrio troppo precario per rischiare un rumore
La burocrazia carabiniera non ha la pancia per accogliere una frase così 
diretta
Dolori rallentati
Rinchiusa dentro il suo scheletro
Ci si abitua a tutto, tranne che alle attese
Dieci chili di rughe che le si sono appiccicati addosso
(La lucciola) è un lampione piantato su un pianeta largo come una mela.
La sua visione ha salvato tutti
Decidi di fare pace col tuo dolore. Come se fosse parte del tuo corpo … 
attaccato come un dito in più.