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recensione

Cavalli e la vicenda (dis)umana di Dell’Utri: un’intervista

(l’intervista è pubblicata sul sito QuartaParete qui)

Schermata 2015-10-16 alle 10.04.39Il racconto di Giulio Cavalli su Dell’Utri, accompagnato dalle musiche dal vivo di Cisco Bellotti, ha fatto tappa al Nuovo Teatro Sanità il 10 e 11 ottobre, aprendo di fatto la stagione di una tra le realtà più interessanti dell’ambiente teatrale napoletano. L’amico degli eroiParole, opere e omissioni di Marcello Dell’Utri ha raccolto un buon pubblico alla sua prima, nonostante il diluvio abbattutosi nella serata di sabato su tutta la Campania. Un buon inizio e un ottimo segnale per chi continua a svolgere orgogliosamente un ruolo di presidio culturale e artistico nel cuore della Sanità.
Quello di Cavalli è un ritorno: già due anni fa, infatti, fu ospite del ntS’ con L’innocenza di Giulio, inizialmente rinviato in seguito al rinvenimento di un’arma nei pressi del suo studio di Roma; sebbene dunque nel mirino della criminalità organizzata, Cavalli, anche scrittore  e giornalista, oltre che attore, non ha però perso il gusto di narrare di mafia e politica e di quel grigio che passa tra le due, dedicando, questa volta, le proprie attenzioni ad un personaggio molto chiacchierato: Marcello Dell’Utri, pienamente rappresentativo dell’ultimo ventennio berlusconiano; l’amico degli “eroi” (così come lui chiama Vittorio Mangano), mafioso che scelse di non riferire mai alla magistratura i propri rapporti con i vertici di Fininvest.
Ascoltando il monologo, in effetti, sembra di tornare a piè pari nei primi anni Duemila, a certe trasmissioni di Santoro (di cui non a caso sono proiettati frammenti del passato), ad un impegno antimafia che oggi appare sfumare nella retorica da Twitter che domina il dibattito politico sui media. La storia di Dell’Utri viene narrata quasi con un certo affetto nei confronti del protagonista; ne viene raccontata la vergogna per i genitori e, in generale, per i propri natali meridionali; l’amore per gli ambienti milanesi, tradizionalmente negati alla piccola e media borghesia palermitana di cui portava il marchio anche nell’amore per le cravatte (rigorosamente Regimental); unico elemento della scenografia, d’altronde, è proprio un’enorme cravatta, icona del tentativo mai riuscito di mimetizzarsi tra gli invidiati finanzieri della Milano da bere di trenta, quarant’anni fa.
Dell’Utri è il trait d’union tra Berlusconi e Mangano (gli altri due “protagonisti”), ma è anche profondamente diviso tra la volontà di essere come il primo e la vicinanza (per mentalità e provenienza) al secondo; in questa bivalenza si consuma la tragedia di Dell’Utri, che riuscirà a farsi accettare da quest’ambiente tanto ambito solo facendo da pontiere proprio con quella Sicilia da cui voleva allontanarsi. Cavalli tiene bene la scena e richiama l’attenzione del pubblico nei momenti in cui il susseguirsi di citazioni e sentenze rende la narrazione più ostica da seguire (“Cos’è questa, un’assemblea del Pd?” riprende la sonnacchiosa platea, scatenando immediata ilarità). Chiude con il richiamo all’articolo 4 della Costituzione (“Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”), ideale contraltare all’Italietta provinciale e truffaldina rappresentata fino a quel momento.
Al termine dell’ora circa di spettacolo, l’attore lombardo si ferma qualche minuto con noi, approfittando della pioggia ancora battente che all’esterno inonda la Sanità. È abbastanza provato dall’interpretazione appena conclusasi, ma non per questo sembra meno lucido il racconto del suo personale rapporto con “l’amico degli eroi” del titolo.

Foto di Mario Gelardi

In questi giorni, Napoli ospita il tuo spettacolo e riapre alla città (anche se solo per un giorno) la biblioteca dei Girolamini in passato depredata da Dell’Utri; sembra quasi che un’intera città stia cercando di prendersi gioco dell’ex senatore siciliano. Viene spontanea allora la domanda: perché proprio Dell’Utri dopo aver parlato di Andreotti ne “L’innocenza di Giulio”?
Perché su Dell’Utri abbiamo molte più prove, paradossalmente, di quante non ce ne fossero per Andreotti; è tutto fotografato nelle sentenze. La storia di Dell’Utri è quella di un siciliano che sogna di essere milanese, quella di un milanese (Berlusconi) che disprezza intimamente ogni meridionale – ma meglio di chiunque altro ne riuscirà a sfruttare il senso di fedeltà – e quella di un mafioso da discount come Mangano. E’ una storia in cui gli opposti si attraggono, che ci racconta molto di un Paese in cui uno di questi protagonisti è ancora lì a riscrivere gli articoli della Costituzione.
Viviamo ancora nello stesso Paese della “trattativa Stato-mafia” che oggi emerge dai processi di Palermo?
Si cerca troppo spesso di raccontare il presente con le sentenze, ma le sentenze non sono che le macerie del passato; al di là di quella giudiziaria che poi verrà fuori, una verità “culturale” già la sappiamo ed è quella – e non le sentenze – che dovrebbe darci le chiavi di lettura del presente.
Cosa intendi?
Ad esempio, è già ora evidente che Mancino ha una paura enorme data dall’aver camminato troppo tempo nella penombra; così com’è evidente che Dell’Utri è stato condannato perché già sostituito con “qualcos’altro”. Non c’è bisogno di aspettare una sentenza per poterlo dire.
Perché Dell’Utri s’è lasciato sostituire, alla fine?
Da un lato, c’è quel meccanismo che porta ogni servo a vedere la propria salvezza nel padrone, anche quando è evidente che il padrone l’ha ormai abbandonato. Dall’altro, Dell’Utri ha monetizzato la propria dipartita sistemando le prossime quattro o cinque generazioni di Dell’Utri.
Cosa pensi del suo atteggiamento ironico e strafottente?
Sentendo le parole di chi lo ha conosciuto di persona, mi son fatto l’idea di uno che è intimamente convinto di essere superiore a Berlusconi; che pensa che in un mondo ideale sarebbe stato Berlusconi a fargli da vassallo e non il contrario. Da questa convinzione viene il suo atteggiamento sprezzante. Quando ha saputo di questo spettacolo, ha detto al suo avvocato: “Finalmente scrive di me qualcuno bravo e non i soliti giornalisti”.
Condividi l’immagine che di Dell’Utri ha dato la serie “1992”?
No, non l’ho vista, cerco di salvarmi da queste serie.
Cos’è cambiato in Lombardia negli ultimi due anni? (il 9 ottobre Mario Mantovani, vicepresidente della Regione, è stato arrestato per corruzione, ndr)
I centocinquanta arresti hanno inciso, indubbiamente. A scuola si parla di mafia e c’è una generazione che sta crescendo con una forte sensibilità antimafia; mentre quella precedente non ha gli strumenti, probabilmente, per sviluppare questa sensibilità. Ci siamo affezionati, nel frattempo, a dei simboli: io stesso, in quanto “attore con la scorta”, sono stato un simbolo; però poi ti accorgi che ogni folata di luce in più che ricevi avvicina la gente al tuo feticcio e l’allontana dal fulcro della questione.
Un corto-circuito, in pratica.
Un corto-circuito dal quale noi per primi dobbiamo allontanarci. Io ammetto che da questo punto di vista ho commesso degli errori, per questo cerco di non parlare della scorta.
Credi che una responsabilità l’abbiano anche i media e la rassegnazione del pubblico?
Il “savianismo”, che io definirei più che altro “mondadorismo”, ci ha raccontato che la lotta alla criminalità possono farla solo gli eroi; e così non abbiamo protetto abbastanza chi ha il diritto di avere paura di dover lottare in prima persona.

Foto di Mario Gelardi

Può essere il teatro una chiave per diffondere queste informazioni che oggi difficilmente “passano” sulla stampa (anche perché i giornalisti che se ne occupano, come Ester Castano a Sedriano, sono puntualmente boicottati)?
No, se devo essere sincero non credo che il teatro possa addossarsi questa responsabilità. Così come la letteratura e la magistratura, da sole, non possono nulla; e non credo nemmeno a questa puttanata che “la parola” possa sconfiggere le mafie. Il teatro deve fare la sua parte, per carità. In questo quartiere, la criminalità organizzata fa venire l’acquolina al gommista, per dire una categoria a caso, con il suo potere. Col teatro non posso liberare il “gommista” ma posso gettare dei semi che, se coltivati, possono arrivare a liberarlo; ma da solo il teatro non può risolvere granché.
Com’è cambiata la sensibilità degli artisti ed il gusto del pubblico negli ultimi venti anni di Berlusconi?
Il pubblico continua a chiedere “teatro di impegno civile”, perché vuole sentirsi raccontare il presente senza necessariamente ricorrere ad Aristofane o Platone. Questa fu l’intuizione di Marco Paolini con Vajont ed è ancora validissima.
Cosa manca allora al dibattito sulle criminalità organizzate?
Mancano gli intellettuali. Abbiamo lasciato la patente di intellettuali ai soli magistrati, i quali spesso sono, sì, ottimi professionisti ma si sono dimostrati anche pessimi intellettuali. Non possiamo lasciare che siano loro a tradurre nel sociale il significato delle sentenze; per questo lavoro ci vorrebbero delle figure che al momento mancano. E poi ovviamente c’è il problema che metà degli attori e giornalisti italiani è stato a lungo (e forse è tuttora) sul libro paga di una sola persona.
Ultime due domande per finire. Se questi venti anni fossero una pièce teatrale, in quale genere si inserirebbero?
(sorride) Non so, dovremmo chiedere a Dario (Fo). Sicuramente una farsa…
E questo momento storico attuale?
(prende un sospiro) Questa è la polluzione notturna degli ultimi vent’anni.

Antonio Indolfi

L’Armadillo Furioso su ‘L’amico degli eroi’

(l’articolo originale è qui)

12094875_1034918613214574_2466169856072221968_oL’amico degli eroi – Parole, opere e omissioni di Marcello Dell’Utri è il titolo dell’ultima opera scritta, diretta e interpretata da Giulio Cavalli, con musiche di Cisco Bellotti, andato in scena nella splendida cornice del Nuovo Teatro Sanità di Napoli sabato 10 e domenica 11 Ottobre 2015, in occasione dell’apertura della sua terza stagione, sotto la direzione artistica di Mario Gelardi.
Fin dai tempi di “(Re) Carlo (non) torna dalla battaglia di Poitiers” e “Linate 8 ottobre 2001: la strage” Cavalli ha mantenuto fede alla sua linea stilistica e di denuncia civile, presentando ora al pubblico uno spettacolo che affonda le unghie nelle vicende giudiziarie di Marcello Dell’Utri e scava a piene mani nei suoi rapporti con Vittorio Mangano, Silvio Berlusconi ed il complesso sistema di satelliti mafiosi che vi gira intorno. L’intreccio delle vite narrate in questo intenso monologo tesse un fil rouge tra imprenditoria milanese e mafia siciliana, ripercorrendo le vicende del suo spregiudicato protagonista fino alla condanna per concorso esterno in associazione mafiosa.

La vicenda è suddivisa in capitoli, ognuno dedicato al protagonista o ad uno dei suoi comprimari, alternando i diversi monologhi ad inserti video di repertorio. Giulio Cavalli salta da un personaggio all’altro con disinvoltura, intrattiene il pubblico ritagliando piccoli spaccati dalle loro vite tessendo monologhi e dialoghi realistici non privi di umorismo ben dosato, in cui anche la scelta di una cravatta per un’importante serata in società diventa la metafora di una vita, dove l’importante è apparire, far credere di essere “amico di”, in una parola: contare. Ad intervallare le scene recitate subentrano proiezioni di video d’epoca, per lo più interviste a collaboratori di giustizia, magistrati e boss latitanti, oltre che ai diretti protagonisti della vicenda, che fanno da contrappunto storiografico alla fantasiosa ma non troppo rappresentazione teatrale. L’intera opera risulta compatta e riesce a condensare in poco meno di un’ora e mezza quasi 30 anni di storia d’Italia, utilizzando sia doverosi salti temporali che spezzano la narrazione, sia risoluzioni che descrivono l’odierna cronaca ma che riportano suo malgrado lo spettatore alla dimensione del reale.

Librerie.it su ‘Mio padre in una scatola da scarpe’

(l’articolo originale è qui)

Schermata 2015-10-16 alle 09.57.58Mio padre in una scatola di scarpe”: Giulio Cavalli racconta una storia vera di un uomo coraggioso e che non deve essere dimenticata

Il grande impegno dal punto di vista sociale e civile di Giulio Cavalli è tutto raccontato nelle opere teatrali e nelle sue pubblicazioni editoriali.

“Mio padre in una scatola di scarpe” vede al centro la storia di Michele Landa, metronotte di Mondragone ucciso nel 2006 nei pressi di Pescopagano e che non ha mai ricevuto giustizia.

Michele Landa

Chi è Michele? E’ semplicemente un uomo onesto, un uomo che vuole vivere in modo tranquillo. Lavora come metronotte, al suo fianco ha Rosalba – la donna con cui ha condiviso tutto la sua vita – e i suoi figli.

Michele, però, vive in un luogo del nostro Paese dove il senso stesso della vita sembra aver perduto valore, dove tutto è dominato solo dalla corruzione, dal degrado e, soprattutto, dove tutti abbassano la testa e restano in silenzio di fronte ai soprusi, perché in un luogo del genere è questo e non altro il modo di affrontare il quotidiano.

Una storia che non va dimenticata

Michele viene aggredito e ucciso in una notte del settembre 2006. I suoi aggressori, mai identificati, ne bruceranno il corpo e i suoi resti verranno consegnati alla famiglia dopo essere stati sistemati in una scatola di scarpe.

Giulio Cavalli ha preso la penna per far conoscere la storia di un uomo dignitoso, di un uomo onesto, di un uomo che per tutta la sua vita si è sacrificato lavorando per la famiglia e che avrebbe dovuto andare in pensione solo un mese dopo il suo omicidio.

Mio padre in una scatola di scarpe

Il titolo del romanzo fa riferimento ad una frase realmente pronunciata da uno dei figli di Michele e tutto quello che viene narrato, sia pure in modo romanzato, fa riferimento ad una realtà che deve essere conosciuta, portata alla luce, denunciata.

La storia di Michele deve essere ricordata, perché, al contrario si tende a dimenticarla. E perché è proprio l’omertà, la paura, la passività, che regnano sovrane in alcuni luoghi del nostro Paese, a generare e a dare forza a quella mostruosità che possiamo chiamare in tanti modi diversi, mafia, camorra, ma che deve essere combattuta con coraggio e con quella dignità che Landa ha pagato con la vita.

Dal teatro civile al romanzo civile: Marco Ostoni su ‘Mio padre in una scatola da scarpe’

(L’articolo originale è qui):

Schermata 2015-10-13 alle 18.27.26Leggi e ti sembra di vederlo, anzi di ascoltarlo. Lì, sul palco impegnato in uno dei suoi affabulanti e avvolgenti monologhi in cui il ritmo è dettato dal sapiente alternarsi di pause e recitativi, con la voce un po’ impastata e lo sguardo pensoso, con le iridi verdemare che illuminano un gesticolare lento e compassato. Quei tratti, insomma, che lo hanno fatto conoscere e apprezzare al pubblico lodigiano le cui ribalte ha calcato per anni da protagonista. C’è tutto Giulio Cavalli in questo Mio padre in una scatola da scarpe, romanzo d’esordio dell’attore, regista, autore e saggista di Lodi (con una breve pausa anche in veste di consigliere regionale), da pochi anni trapiantato a Roma, ma là come qua costretto a vivere sotto scorta per le ripetute minacce ricevute dalle cosche in risposta ai molti strali da lui lanciati al loro indirizzo. Cosche che indubbiamente non molleranno la presa dopo aver letto questo libro, un j’accuse ancora più forte dei precedenti (anche del volume-denuncia, nonché pièce teatrale, Nomi, cognomi e infami) perché forgiato di quel metallo prezioso che si chiama letteratura, con la capacità unica che ha la letteratura di scuotere, emozionandoli, i lettori e di smuoverne così, dal profondo, le coscienze.
E ci si emoziona non poco leggendo le quasi 300 pagine del romanzo che racconta la storia (vera) di Michele Landa, uomo per bene di Mondragone, nel Casertano, vissuto con la schiena dritta in una terra dove i più la piegano – la schiena – per paura, per quieto vivere o per convenienza, ma alla fine spezzato da quella Camorra di cui non ha mai accettato i codici di comportamento.
Ci si arrabbia, ci si indigna e si piange accompagnando Michele dagli anni dell’adolescenza – dopo un’infanzia segnata dalla morte precoce della madre e da quella del padre, alcolista e violento – all’età adulta. Un lungo tragitto cadenzato dall’amicizia inossidabile con Massimiliano, lo “scemo del paese” in realtà più acuto e saggio di molti presunti “sani”; dal fidanzamento e quindi dal matrimonio con Rosalba “la silenziosa”; dalle gioie (e dalle fatiche) della paternità, fino ad arrivare al drammatico e straziante epilogo. Cavalli, se pure qua e là carica di qualche eccesso verboso il linguaggio, pagando dazio all’inesperienza da una parte e all’oralità del cantastorie dall’altra, riesce a ricreare con buona mimesi il clima di omertà e paura insieme che impasta la vita dei Mondragone, i cui abitanti sono soggiogati dalla prepotenza dei Torre, che rende tutti (o quasi) muti, ciechi, sordi ma soprattutto servi. Mentre lui, Michele, si rifiuta – ignorando i consigli del nonno – di vivere «in punta di piedi», di abitare la sua terra in silenzio, diventando invisibile per difendere se stesso e la famiglia.
«Voglio abitare in un luogo – dirà a Rosalba il giorno in cui la chiederà in sposa – dove Massimiliano può essere felice e mio nonno invecchiare sereno. E voglio figli che sanno scegliere il bene e il male».
Proprio come ha saputo fare lui, pagando quella scelta di coraggio con la morte.
(Cavalli presenterà il suo libro ai lodigiani mercoledì 14 ottobre, alle 21, al Caffè Letterario)

Giulio Cavalli, Mio padre in una scatola da scarpe
Rizzoli Editore, Milano 2015, pp. 276, 19 euro

“dentro questa scatola ce n’è lo spirito”: ‘Mio padre in una scatola da scarpe’ secondo GQ

(recensione di Alex Pietrogiacomi, l’originale è qui)

Schermata 2015-10-06 alle 11.42.44La scatola di scarpe in cui ci fa entrare la scrittura sicura e delicata di Giulio Cavalli non è soltanto metaforica ma anche reale. Questo romanzo racconta una storia vera, racconta una vita spezzata e come sempre dimenticata se non da chi quella vita se l’è vista portare via. Una scatola di scarpe può essere soffocante, può essere aperta e chiusa, lasciata in disparte oppure continuamente rigirata tra le mani. Come i ricordi, come il dolore, come l’ingiustizia, come l’impossibilità di fare se non attraverso le proprie forze, che troppe volte vacillano e hanno bisogno di un sostegno. Qui arriva il romanzo, qui arriva la narrazione, a porgere un braccio, a rassicurare sul fatto che non tutto è perduto, non tutto è dimenticato e che gli animi si possono riaccendere, le menti aprire di nuovo, gli occhi far brillare ancora.
La scatola di scarpe allora lascia ogni tipo di immaginazione letteraria e mistificatrice dei propri sentimenti,  per entrare nella crudeltà della pagina chiusa, in quella distonia chiamata realtà, chiamata storia. E non raccoglie oggetti dei desideri, memorie infantili da voler rivedere ma le ossa carbonizzate di un padre, il cui unico dramma è stato quello di vivere nel posto sbagliato (che poi sbagliato perché?) e avere lo sguardo sempre alto, la testa mai china, nonostante ogni giorno che passi diventi più invisibile. Quel padre che si chiamava Michele Landa. Se ne stava a Mondragone a pensare alla sua dignità di uomo libero e a quella della famiglia, per poi ritrovarsi a scontrarsi con il silenzio nella propria terra, con i Torre a minacciare, intimidire… ferire a morte. Solo tra i concittadini eppure in mezzo a loro, solo su quella terra che lo disconosce che volge lo sguardo altrove. Che lo dimentica.
Cavalli però non ha una memoria a breve termine, non ha memoria collettiva, ha memoria civile e scrive, li trova i familiari, ci parla, non racconta solamente, entra a farne parte e queste pagine intrise di una forza indomita colmano ogni lacuna, ogni dimenticanza piccolo borghese che troppe volte ci attanaglia, ci piega e plagia, rendendoci distanti anche da i nostri simili.
Una forza che conosciamo bene quella cui attinge questa scrittura, ma che utilizziamo in un senso solo… la forza dell’amore, per la propria vita e per chi si incrocia con essa; per il proprio riflesso in uno specchio e negli occhi di chi ci ama. Nonostante le lacrime dei propri diritti piegati sgorghino in silenzio.
Per essere uomini si devono conoscere uomini, di quelli che ne rappresentano la schiera più nobile e qui dentro, dentro questa scatola ce n’è lo spirito.

“andrebbe antologizzato e studiato a scuola”: ‘Mio padre in una scatola da scarpe’ secondo Pupottina

(la recensione originale è qui)

Schermata 2015-10-05 alle 18.06.38GIULIO CAVALLI, scrittore e autore teatrale, da tempo impegnato nella lotta contro le mafie, ha scritto un romanzo importante, di grande impegno civile, di altissimo valore morale e di denuncia, che andrebbe antologizzato e studiato a scuola, come punto di partenza, testimonianza per capire e approfondire il discorso sulla legalità.

Il romanzo è ispirato alla storia vera della famiglia Landa. La vicenda è ambientata a Mondragone, che è un paese per gente di poche parole, ma che a occhiate sa farsi capire eccome.

Lì vive Michele Landa, il quale non è un eroe e neppure un criminale. Tutto ciò che desidera è coltivare il suo orto e vivere felicemente con la sua famiglia, costituita da moglie e quattro figli.

Ma la vicenda inizia molto prima, quando Michele, orfano, vive con il nonno che è il suo punto di riferimento, colui che gli insegna come vivere o sopravvivere a Mondragone.

Qui non esistono carabinieri o polizia; qui a Mondragone ci sono le guardie e i ladri, bianco e nero e tutto in mezzo gli altri che sono altri per il tempo che serve a decidere se nella vita vuoi essere bianco o nero, guardia o ladro: abitare tutta la vita semplicemente lì in mezzo è possibile. Può essere che tu non te ne accorga, ma sei già o sporco di bianco o sporco di nero.

A Mondragone, inoltre, serve coraggio anche per vivere tranquilli: chi non cerca guai è costretto a confrontarsi ogni giorno con gli spari e le minacce dei Torre e con l’omertà dei compaesani.

Michele impara molto dal nonno: la saggezza per riuscire a vivere con dignità ed onestà senza scontrarsi con i Torre. Bravo, Michele! Vedete? Michele ha imparato come si vive a Mondragone.

Michele, infatti, ha imparato davvero quali sono le regole e i compromessi per poter sopravvivere ed altro non chiede di fare con l’amata Rosalba, i figli e la nipotina, Michelina, mentre rapidamente scorre il tempo che lo porta a poche settimane dalla pensione. Qui le brave persone per difendersi diventano invisibili. È così che si vive in una terra paralizzata dalla paura.

Come anticipato dal titolo, MIO PADRE IN UNA SCATOLA DA SCARPE, il finale è dolorosamente tragico, ma durante la lettura lo si dimentica, tanto si vorrebbe la storia avesse un epilogo diverso.

Con una scrittura coinvolgente, sintetica, dinamica, incisiva, lo scrittore GIULIO CAVALLI ha il coraggio di raccontare un’Italia di cui non si parla abbastanza, quella dimenticata e indifesa, di chi cerca di sopravvivere dove la legalità è soltanto un concetto astratto non preso in considerazione da nessuno, nemmeno da chi dovrebbe tutelare i più deboli. I morti meriterebbero di essere presi in considerazione.

‘Mio padre in una scatola di scarpe’ è agghiacciante perché vero (di Rita Fortunato)

(l’articolo originale è qui)

mio-padre-in-una-scatola-di-scarpe-a-pordenonelegge

(Recensione di Rita Fortunato)

Una storia donata va sempre accolta. Questo è il pensiero che mi ha portata ad accettare la proposta di Barbara Reverberi di leggere Mio padre in una scatola di scarpe. Si tratta di un romanzo civile edito Rizzoli, scritto da Giulio Cavalli e comparso nelle librerie italiane il 17 settembre. Fresco fresco di stampa, insomma e che ho anche avuto la fortuna di incontrare sugli banconi per libri allestiti a #PordenoneLegge.

Barbara mi ha subito detto che è un romanzo bellissimo e che lei, personalmente, l’ha divorato.

Per quanto riguarda il verbo “divorare” aveva ragione ma, più che bellissimo, ho trovato l’opera agghiacciante. Ti spiego perché…

Mio padre in una scatola di scarpe è agghiacciante perché vero

Con agghiacciante non intendo dire che Mio padre in una scatola di scarpe non sia un buon libro. Fondamentalmente è un romanzo d’inchiesta tratto da una storia vera, fatta di mafia e omertà. Temi forti, dolorosi, di quelli che non si vorrebbe affrontare perché, quando te li trovi scritti neri su bianco, ti agghiacciano.

L’ho letto in due giorni e avrei voluto che finisse in maniera diversa, che non rimanesse in sospeso. Tuttavia uno scrittore non può accontentare sempre il lettore, soprattutto quando il suo obiettivo è quello di ricordare che ancora esiste una cultura dell’omertà.

Una cultura che sta stretta al personaggio principale e perno attorno al quale ruota tutto il racconto,  Michele. Per amore, il nonno cerca di inculcargli questa filosofia in tutti i modi:

“Qui le brave persone, per difendersi, diventano invisibili”.

È una persona normale, Michele. Vorrebbe solo vivere a casa sua, metter su famiglia e garantire un futuro a figli e nipoti. Assieme a lui, poche brave persone appaiono nella trama del romanzoMassimiliano, considerato lo scemo del paese ma con un cuore d’oro, il nonno e le sue cene domenicali con il nipote e la dolcissima e coraggiosa Rosalba, detta la silenziosa.

Volente o nolente, il lettore non può fare a meno di affezionarsi a queste persone, ad augurar loro tutto il bene possibile. Ad essi va l’ammirazione dell’amico milanese Giulio:

“Quelli che cambiano il mondo sono quelli che non si fanno avvelenare dal mondo”.

Ma niente è ciò che appareMio padre in una scatola di scarpe parla di un’indifferenza che non è solo espressione di codardia o servilismo da parte delle persone semplici, ma anche l’unico comportamento da adottare per sopravvivere in una terra violenta comandata da violenti. Gradualmente (ed è qui che la cosa si fa particolarmente agghiacciante) ci si addentra in un contesto e in una storia dove la desensibilizzazione al dolore la fa da padrone perché, in fondo, ci si abitua a tutto, anche ai soprusi. Non c’è scelta.

Vi è un’educazione alla paura e alla sopravvivenza scambiata per coraggio in una vita quotidiana che impedisce agli abitanti di Mondragone, località dove si svolgono i fatti, di compiere il loro dovere civico e permettere che la giustizia faccia il suo corso.

“Michele, nella vita ci vuole coraggio a rinunciare. Anche a rinunciare ai principi, se serve”.

Nessuno sembra voler spezzare la catena che anno dopo anno stringe il paese in una morsa soffocante di incomprensioni, malelingue e indifferenza. Tutto ciò che accade, anche i gesti di umanità sono visti con sospetto e manipolati per mettere in cattiva luce le brave persone, distruggere la loro reputazione e creatività. La coscienza, in questo romanzo, sembra proprio non esistere. Al massimo vi è rabbia repressa e dolore raccolto e nascosto

Mio padre in una scatola di scarpe è un romanzo logorante e, sinceramente, andrebbe donato ai giornalisti che ricamano notizie prestando orecchio alle voci e non verificando le fonti, ai carabinieri che preferiscono screditare il cittadino medio pur di non perdere i ricavi e gli interessi che li legano a chi dovrebbero incarcerare, alle persone che sparlano e si fanno belli sulle miserie e i dolori altrui, convinti che andare a messa la domenica sia sufficiente per sciacquare la coscienza dalle loro ipocrisie e meschinità.

Non saprei bene cosa aggiungere sull’opera con la quale Giulio Cavalli esordisce in veste di scrittore se non che il libro andava scritto e che merita di essere letto. In mezzo a tanti testi fondamentalmente inutili, privi di messaggio, un romanzo civile come questo spicca dalla massa, per la sua agghiacciante veridicità.

Autore: Giulio Cavalli
Titolo: Mio padre in una scatola di scarpe
Casa Editrice: Rizzoli
Pagine: 288
Anno di pubblicazione: 17 settembre 2015
Prezzo di copertina: € 18

‘Mio padre in una scatola da scarpe’ secondo booksblog.it

(L’articolo originale è qui)

“Michele aveva cominciato a picchiare con tutta la voglia che aveva accumulato negli ultimi anni, come si immaginava si potesse picchiare solo prima di morire. E non menava solo quei tre cuccioli d’avvoltoio, no, picchava i ricchi sempre gonfi alla domenica mattina; picchiava quelli che gridano scemo a Massimiliano che piangeva come i magri anche se è grasso come un tacchino, e picchiava anche per lo scemo di troppo che gli dava quando anche lui esagerava con lo scherzo; picchiava per i vecchi così vecchi che fuori dalla chiesa sembra che ci manchi solo ceh se li porti via il vento o li sciolga questo sole unto”.

Schermata 2015-09-29 alle 22.25.39Si sfoga  così, per almeno due pagine, la rabbia di Michele Landa contro tutti gli oppressori e gli oppressi, contro se stesso e la sua famiglia, contro gli ignavi, contro le ingiustizie. Michele, Michele Landa, è il protagonista di “Mio padre in una scatola da scarpe”, romanzo di Giulio Cavalli edito da Rizzoli.

Un romanzo di mafia, ma senza essere troppo plateali. Nessuna coppola o lupara, ma gente normale, gente che per sopravvivere serenamente nel posto in cui vive è costretto alla fine a chinare la tesa, ad arrendersi, a diventare anonimo e invisibile.“Questa è una terra che va abitata in punta di piedi, Michele, va abitata in silenzio, qui le brave persone per difendersi diventano invisibili, Michele, in-vi-si-bi-li”. Un insegnamento che in molte zone del nostro paese viene dato appena incominci a camminare: se vuoi campare, pensa ai fatti tuoi. Resta una persona perbene ma a chi sta sopra di te non dare mai fastidio, non opporti, non alzare la voce. Un insegnamento che viene impartito anche a Michele Landa, un metronotte di Mondragone. Un uomo che tutto ciò che desidera nella sua vita è arrivare alla pensione e godersi i suoi affetti, il suo orto, svegliarsi la mattina e non avere paura di non avere il coraggio di guardarsi allo specchio. Ma qui, a Mondragone, il coraggio è necessario: serve anche per vivere tranquilli, per non farsi sopraffare dalla tracotanza e le minacce dei Torre e dall’omertà dei compaesani. Michele lo sa che non bisogna alzare la testa, ma nonostante tutto sa che le cose, se si vuole, possono cambiare.

Tratto da una storia vera, quella di Michele Landa, ucciso e bruciato a Mondragone la notte tra il 5 e il 6 settembre 2006. Una storia ancora oggi avvolta nel mistero e dimenticata, come le tante storie di mafia e di camorra. “Mio padre ha lavorato in molti posti brutti, ma Pescopagano lo spaventava: puttane, spacciatori, camorristi, criminali nigeriani, là ci sta tutto meno che lo Stato”, diceva ai media suo figlio Antonio.
E’proprio da una frase agghiacciante di suo figlio che Giulio Cavalli prende spunto per il titolo del romanzo: “La scientifica ha ripulito la macchina, ma siamo andati lo stesso nel deposito giudiziario. Abbiamo trovato un femore, la fibbia della cintura di papà, le chiavi di casa e altre ossa. Ce lo siamo portati via in una scatola di scarpe”.

‘Mio padre in una scatola da scarpe’ secondo ‘Liberi di scrivere’

(Recensione di Irma Loredana Galgano, l’originale è qui)

Schermata 2015-09-27 alle 17.16.31Il 17 di questo mese è uscito per Rizzoli “Mio padre in una scatola da scarpe” di Giulio Cavalli.

Ci sono dei cantanti che hanno una voce talmente melodiosa che ti cattura appena la senti.
Ci sono dei musicisti talmente dotati che ti fanno piacere la loro musica fin dalle prime note.
E poi ci sono quegli scrittori così bravi che ‘rapiscono’ il lettore fin dalle prime battute.
Giulio Cavalli appartiene senza dubbio alcuno a questa categoria.

Mio padre in una scatola da scarpe” racconta la storia semplice di Michele, cresciuto dove «non esistono carabinieri o polizia; qui a Mondragone ci sono le guardie e i ladri, bianco e nero e tutto in mezzo gli altri che sono altri per il tempo che serve a decidere se nella vita vuoi essere bianco o nero, guardia o ladro», in una città che può trovarsi dove si trova, in provincia di Caserta, o in qualsiasi altro posto del mondo perché «Mondragone si sveglia rotonda tutte le mattine, per poi sformarsi attraverso i suoi abitanti».

Una vita sospesa, quella degli “altri”, soprattutto quando propendono per il bianco, in quanto «questa è una terra che va abitata in punta di piedi, va abitata in silenzio, qui le brave persone per difendersi diventano invisibili». Cercava di spiegare suo nonno a un giovanissimo Michele, che non capiva… non riusciva a capacitarsi, esattamente come quarantanni più tardi non ci riuscirà Andrea, suo figlio.
Perché una persona che vuole solo coltivare il proprio amore, formare una famiglia, lavorare, pagare le tasse e trascorrere del tempo con i propri figli e nipoti deve vivere terrorizzato da ciò che può accadere a lui, o peggio a propri famigliari, anche solo come conseguenza per aver rifiutato o accettato un caffè?
Perché un cittadino deve essere costretto a subire l’indifferenza delle forze dell’ordine soggiogate al male peggio dei “neri”?
Perché un uomo o una donna non possono formulare queste domande a voce alta senza rischiare gravi conseguenze e ritorsioni?

Alcuni soggetti afferenti alla malavita organizzata si ritengono dei soldati, arruolati in un diverso esercito certo ma comunque ligi a un codice di regolamentazione che una volta arruolati si sceglie di seguire e rispettare. Va bene. Ma chi non compie questa scelta perché è costretto a subirne comunque le conseguenze?

« Se è mafioso solo chi ammazza allora la mafia non c’è davvero, qui. Quelli che hanno fatto finta di niente con il tuo amico morto ammazzato sono mafiosi. Tu ti ostini a pensare che siano solo cattivi o prepotenti o violenti, e invece sono mafiosi

Michele e Rosalba trascorrono la vita a cercare di diventare invisibili e soprattutto di far essere tale i propri figli e nipoti, coltivando il loro amore che è «un amore antico, se lo ripetono tutti i giorni, perché è tra persone che sono cresciute imparando ad aggiustare le cose senza buttarle». Ma certe cose o certe situazioni non si possono aggiustare, sono come la miccia di un mortaretto… una volta incendiato non resta che aspettare lo scoppio.
Andrea, Giovanni, Antonio e Angela questo scoppio se lo sentono scorrere nelle vene, anche più di Rosalba e decidono insieme di compiere il gesto più rivoluzionario della loro vita, varcando i limiti della legalità e lo fanno con il coraggio e la consapevolezza di doverlo fare, perché rappresenta per loro non solo una rivincita ma una vera e propria catarsi. E così, a modo loro, riescono a sconfiggerlo il Male che li voleva oppressi, immobili e silenti.

Mio padre in una scatola da scarpe” di Giulio Cavalli è il racconto semplice di una famiglia normale che cerca di coltivare i propri sogni in un mondo disumano, crudele e spietato nel quale l’amore e i sentimenti per vincere devono combattere quotidianamente contro colossi armati, contro il potere, la violenza e il potere della violenza.

« Nonostante tutto lei non tornerebbe indietro, no, non rinuncerebbe a nessuno dei momenti vissuto fino a qui, dolori inclusi, perché la sua famiglia è un’opera titanica e artistica che la riempie di fierezza e di orgoglio.»

‘Mio padre in una scatola da scarpe’ secondo Eleonora Cocola

Recensione a cura di Eleonora Cocola (link)
Schermata del 2015-09-24 16:14:26Quella di Michele, nato e cresciuto a Mondragone, non è una vita facile: orfano di genitori alcolisti che gli hanno regalato un’infanzia tormentata, l’unica famiglia che gli è rimasta è suo Nonno. Oltre, naturalmente, alla famiglia che Michele formerà da sé: nonostante le sofferenze che ha subito è un ragazzo a posto, che desidera solo essere felice, condurre una vita onesta e creare una famiglia buona. Tutte cose che a Mondragone sono tutt’altro che scontate.

Dove regna la camorra, che qui ha il nome della famiglia Torre, anche chi non è in cerca di guai deve vivere come se camminasse sulle uova, stando attento a ogni passo, a ogni parola, a ogni sguardo; imparando a far finta di non vedere, a non ribellarsi, a scomparire. È una vita che il nonno glielo ripete a Michele, che deve stare tranquillo e farsi gli affari suoi, e lui alla fine ha imparato: per colpa della famiglia Torre ha perso il lavoro, ha visto tanti amici morire, e ha dovuto trovare un difficile equilibrio tra silenzio e omertà. La sua convinzione che anche a Mondragone sia possibile vivere una vita pulita e felice non si è scalfita: soprattutto grazie all’amore, quello della ragazza che è diventata sua moglie, Rosalba “la silenziosa”: insieme hanno formato una famiglia numerosa con cui Michele non vede l’ora di godersi la vecchiaia.

Non è una storia qualunque quella di Michele Landa: è la storia di un uomo assassinato a colpi di pistola nel settembre del 2006; di un delitto i cui colpevoli sono ancora ignoti. Il romanzo di Giulio Cavalli riporta alla luce questa storia dimenticata, raccontando di una categoria di persone che non sono né con la mafia né propriamente contro di essa: gli invisibili. Quelli che, come Michele, in nome di una vita tranquilla sono costretti a fare violenza su stessi, soffocando la ribellione contro le ingiustizie e le morti di cui sono testimoni. È il Nonno del protagonista il primo portavoce di questa posizione: «Questa è una terra che va abitata in punta di piedi, Michele, va abitata in silenzio, qui le brave persone per difendersi diventano invisibili, Michele, in-vi-si-bi-li».

Con una scrittura intensa e uno stile avvolgente, in grado di catapultare il lettore dritto nella testa dei personaggi, il romanzo di Cavalli insegna che anche diventare invisibili richiede una certa dose di coraggio, e ricorda che purtroppo non sempre basta per salvarsi. Il protagonista Michele e la sua amata Rosalba sono disarmanti per la loro semplicità: dalla purezza del loro sentimento e dalla genuina integrità dei loro valori deriva la forza di questi due personaggi, tanto che quello che accade intorno a loro assume contorni quasi sfocati. La storia minuta, quella di chi subisce i grandi fenomeni senza giocarvi un ruolo di primo piano, viene portata alla luce, rendendo giustizia a tutte quelle vittime della mafia che troppo facilmente cadono nell’oblio.