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Tutti a restituire la Legion d’Onore. Bene, ma l’Italia è ben peggio di Macron se non ferma la vendita delle armi all’Egitto

Benissimo, Corrado Augias ha lasciato il segno restituendo la Legion d’Onore alla Francia dopo che l’Eliseo ha conferito il più alto riconoscimento del Paese al presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi. Augias ha spiegato ieri di averlo fatto per rispetto di Giulio Regeni e per sottolineare la mancata collaborazione del governo egiziano alla ricerca della verità sull’omicidio, oltre alle continue violazioni dei diritti umani.

A ruota anche l’ex sindaco di Bologna Sergio Cofferati, l’ex ministra Giovanna Melandri e la giornalista Luciana Castellina hanno preso la stessa decisione per contestare Macron, che tra l’altro, da parte sua, ha tentato vanamente di tenere sotto traccia il conferimento facendo sparire foto e video della cerimonia in onore di al-Sisi.

Ha ragione Luciana Castellina quando scrive che la vicenda “costituisce un dolore per chi come me, e tanti italiani, si sente così legato alla Francia. È una brutta pagina della storia di questo Paese. Un gesto, aggiungo, stupefacente, che nessuno si sarebbe aspettato dalla Repubblica francese”.

Ora però forse sarebbe il caso di allargare lo sguardo e tornare dalle nostre parti, qui dove la procura di Roma ha svolto un enorme lavoro con quattro ufficiali dei servizi segreti egiziani verso il processo ma dove anche la politica non sembra ancora in grado di prendere posizioni forti.

Insomma, il problema non è Macron. “Conte, Di Maio, cosa state facendo per avere la verità?”, ha chiesto qualche giorno fa Paola Deffendi, madre di Giulio Regeni, che su ciò che si potrebbe fare per esercitare le giuste pressioni sul governo egiziano ha tracciato una strada netta: richiamare il nostro ambasciatore al Cairo, dichiarare l’Egitto paese non sicuro e fermare subito l’export di armi e i rapporti commerciali.

“La priorità è stata normalizzare i rapporti con il regime e curare gli interessi economici, militari e turistici”, ha detto in conferenza stampa il padre di Giulio, Claudio Regeni. La famiglia pretende “un sussulto di dignità da parte delle istituzioni, oltre le parole e le buone intenzioni”.

Il ministro Di Maio nell’ottobre 2019 aveva parlato di “conseguenze”, se non avesse ottenuto collaborazione alle indagini da parte dell’Egitto. Di collaborazione non ce n’è stata (lo scrive anche la procura): quali sono le “conseguenze”?

Lo scorso 30 novembre la procura della Repubblica egiziana ha annunciato di avere “temporaneamente” chiuso le indagini. Una fonte del governo egiziano che ha parlato al quotidiano Mada Masr ha detto lo scorso 11 dicembre: “L’Italia farà ciò che vuole, l’Egitto farà ciò che vuole, e intanto i due paesi rimarranno amici”. Forse il problema non è solo Macron, no?

Leggi anche: 1. La verità su Giulio Regeni è un diritto: l’Italia smetta subito di vendere armi all’Egitto (di Alessandro Di Battista) / 2. Armi, gas, diritti umani: il prezzo dell’indulgenza della Francia verso l’Egitto di al-Sisi

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Regole, non paternalismi

È un’oscillazione continua, un tira e molla tra due fazioni che evidentemente non hanno il senso di responsabilità di sedersi e parlare ma che si divertono moltissimo a giocare nell’una e nell’altra parte. Nella discussione di questo 2020 di pandemia si sviluppa un gioco sottile di paternalismi da parte di una classe dirigente che non ha il coraggio di mettere regole e che lascia spazio a tutte le ciance possibili immaginarie.

L’ultima in ordine di tempo è la sorpresa (ma davvero ci si può sorprendere?) di aprire negozi, ristoranti e bar a pochi giorni dal Natale e stupirsi che la gente frequenti negozi, ristoranti e bar. E quindi lamentarsene per essere già pronti a trovare i colpevoli in caso di terza ondata. Dopo i runners, dopo i passeggiatori con il cane, dopo le discoteche estive ora arriveranno i camminatori natalizi. E così via, in un continuo paternalismo che diventa insopportabile, solo per mettersi nella posizione poi di poter dire “l’avevamo detto” ma senza il coraggio di averlo fatto.

«I cittadini fanno quello che è consentito loro di fare. Se negozi, bar e ristoranti sono aperti, perché non dovrebbero uscire, andare a fare shopping (in più c’è il cashback), pranzare fuori o prendersi un caffè? Cosa ci si aspettava? Troppo facile prendersela con loro», ha scritto ieri il sindaco di Bergamo Giorgio Gori, uno che con i morti, molti morti, ha dovuto averci a che fare quest’anno.

Il sogno recondito di questi è che le attività commerciali possano incassare senza gente in giro, riuscire a trovare un algoritmo per cui le persone escano solo giusto il tempo per riempirsi il carrello, ridisegnare la socialità completamente appiattita sul fatturato, solo quello.

Mentre in Germania si prendono decisioni impopolari qui da noi ora è un rincorrersi alla “responsabilità dei cittadini” come se il compito della politica fosse eccitarla piuttosto che regolamentarla e governarla. Ci sono molte persone senza mascherina? Benissimo, ci sono regole da fare rispettare e che si facciano rispettare. Ci sono assembramenti? Si controllino gli assembramenti. Si multino gli irregolari e gli irresponsabili.

Ma la politica deve decidere le regole e deve trovare i modi per farle rispettare, troppo facile limitarsi alle ramanzine.

Tutto questo, ovviamente, con l’aggiunta di un pezzo di popolo che del senso di responsabilità se ne fotte da sempre, mica solo con il Covid.

Buon martedì.

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La cupidigia dei due Mattei

«Hai visto? Gli ho fatto il mazzo!». Non sono due discoli in mezzo a una strada dopo qualche bighellonata, no, è Matteo Renzi che incassa soddisfatto i complimenti dell’altro Matteo, Salvini, che si congratula con lui per avere bastonato Conte in Parlamento e avere incrinato il governo. Una scena simbolica, per niente inaspettata.

Vi ricordate quando, mesi fa, qualcuno faceva notare le assonanze dei due Mattei? Vi ricordate come si offesero le rispettive tifoserie, convinti davvero che i due fossero distanti come mimavano? Eccoli qui, ora: la coppia perfetta con la loro danza macabra che si inventa una crisi di governo nel giorno in cui l’Italia diventa il Paese europeo con più morti in assoluto. Si assomigliano in molte cose i due Mattei, parecchie.

Sventolano entrambi la “responsabilità” per incassare qualcosa. Lo fanno entrambi. Renzi appicca una polemica sulla cabina di regia del Recovery Fund (che contiene dubbi intelligenti che vale la pena discutere) ma poi come suo solito lascia andare la frizione e si ributta a frugare per trovare un posticino al sole buttando all’aria tutto. L’altro Matteo leghista invece parla da sempre di “buon senso” ma è solo una perifrasi per provare a riprendersi lo spazio che si è mangiato con il suo suicidio politico.

Hanno giocato entrambi con la salute cianciando di libertà. Matteo Salvini, greve come sempre, sventola addirittura l’ombra della dittatura sanitaria mentre Matteo Renzi gioca a fare il turboliberista per anteporre il fatturato alla salute. Due lati diversi di uno stesso modo di pensare: per loro i decessi sono i naturali effetti collaterali del loro modo di vedere il mondo. A loro va bene così. E non è un caso che invocassero le riaperture con gli stessi tempi.

Entrambi temono le elezioni. Renzi sa che con il suo partito da zerovirgola rischierebbe di contare per quello che effettivamente conta, poco o quasi niente, e quindi punta a monetizzare le dimensioni dopate dalla sua scissione in corso d’opera. Salvini sa che di non essere più il padrone del centrodestra e ha capito da tempo che Meloni e Berlusconi non sono più disposti a incoronarlo re. E infatti in nome della “pacificazione nazionale” propongono un governo nuovo (meglio: propongono loro al governo) senza passare dalle elezioni.

Entrambi non si capisce bene cosa vorrebbero. Se scorrete le loro dichiarazioni risultano chili di errori addossati agli altri ma non si vede bene quale sia la proposta. O meglio: si capisce che si propongono come soluzione, non si sa con quale strategia.

Entrambi hanno la memoria corta. Renzi da padrone del Pd urlava contro gli scissionisti e se la prendeva con i piccoli partiti che mettono a rischio i governi. Se l’è dimenticato. Salvini invocava elezioni a ogni piè sospinto e ora si abbandona ai giochi di palazzo addirittura invocando quel Mattarella che ha vilipeso per mesi.

Fantastici. Uguali. Una coppia perfetta, appunto.

Buon lunedì.

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Se l’Italia non si indigna per le agghiaccianti torture degli 007 egiziani su Giulio Regeni

Nel 2016 le commesse tra Italia e Egitto si aggiravano sui 10 milioni di euro l’anno. Nel 2019 gli scambi con l‘Egitto per l’Italia hanno superato gli 800 milioni, comprese due fregate della Marina Militare italiana che sono state vendute al Paese guidato da Al-Sisi. Ecco qui tutto il punto che dovrebbe farci indignare, gridare e continuare pervicacemente a scrivere sulla morte di Giulio Regeni, il ricercatore ucciso in Egitto dopo 9 giorni di sequestro.

E, se serve qualcosa per rendersi conto della feroce brutalità di cui si sta parlando, allora basta leggere le conclusioni dei pm di Roma che hanno chiuso l’inchiesta sull’uccisione del ricercatore friulano e che parlano di torture, di sevizie con oggetti roventi, di lame e di bastoni che causarono “acute sofferenze fisiche” uccidendo lentamente Giulio.

Ora ci sono, nero su bianco, anche i reati: sequestro di persona pluriaggravato, concorso in omicidio aggravato e concorso in lesioni personali aggravate. Nelle carte si legge di di violenze perpetrate per “motivi abietti e futili e con crudeltà”, che hanno provocato “la perdita permanente di più organi”: Giulio è stato torturato “con acute sofferenze fisiche, in più occasioni e a distanza di più giorni attraverso strumenti affilati e taglienti e di azioni con meccanismo urente”.

I colpevoli? Uomini della National Security egiziana, vicinissimi al governo: rischiano il processo il generale Tariq Sabir, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, Uhsam Helmi e Magdi Ibrahim Abdelal Sharif: “È lui ad aver torturato e ucciso Giulio”, scrivono i pm, che hanno raccolto le testimonianze di cinque testimoni oculari. Uno dei testimoni racconta di avere visto Giulio Regeni “incatenato nella sede della National Security. Era magro e aveva i segni delle torture”.

È tutto l’orrore del mondo che la mamma di Giulio Regeni aveva dichiarato alla stampa di avere ritrovato sul viso del figlio. È l’orrore di una violenza che si è burlata della giustizia italiana (i magistrati non hanno ottenuto nessun tipo di collaborazione dall’Egitto) e della nostra politica. È una storia che sanguina anche della mollezza e dell’indifferenza dei nostri governi, che con le mani sporche di sangue di Al-Sisi continuano a firmare contratti e a stringere affari.

Abbiamo le carte che ci raccontano di uno Stato assassino che noi continuiamo a rifornire di armi. Non c’è da girarci troppo intorno: l’omicidio Regeni è un granello di sabbia in un meccanismo che continua serenamente a funzionare. Ma a volte la sabbia riesce a ottenere risultato insperati. La magistratura ha fatto la sua parte, il governo invece latita.

LEGGI ANCHE Omicidio Regeni, inchiesta chiusa: quattro 007 egiziani verso processo. “Giulio legato con catene di ferro”

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Con Immuni tutti preoccupati per la privacy, ma se c’è da guadagnare col cashback scatta la corsa al clic

La terribile “dittatura sanitaria”, il “controllo dei poteri forti”, “il governo che ci spia”, “le app che servono per renderci sudditi” e poi tutta la sequela di teorie dei negazionisti, dei complottisti e dei nemici del governo si sono sciolte come neve al sole di fronte all’app IO (siamo già a oltre 7 milioni di download in pochi giorni), quella che serve per ottenere il famoso cashback sugli acquisti di dicembre fino a un massimo di 150 euro.

Bastava dare una mancia agli italiani per vedere svanire di colpo le mirabolanti tesi che hanno affollato (e continuano a affollare) il dibattito su quell’altra app, quella che non restituisce soldi ma che può aiutare a garantire un po’ di prevenzione e di salute agli altri cittadini, ovvero Immuni.

Popolo strano quello italiano: è bastato che qualche politico (a dire la verità il solito politico) avanzasse dubbi sulla gestione della privacy dell’app Immuni (dubbi tra l’altro che andrebbero presi molto sul serio e che avrebbero meritato un dibattito ben più intelligente) perché si avanzassero ipotesi di microchip, di controllo della cittadinanza e la solita risma di teorie che circolano da quelle parti e nessuno invece si interroga sul fatto di cedere i propri dati finanziari a un’app di governo.

I 150 euro sono un’occasione troppo ghiotta ed evidentemente siamo un Paese che si sposta (e sposta i propri ragionamenti) molto di più per una questione economica che per una questione di responsabilità. Niente di nuovo sotto al sole, insomma.

Però il successo dell’app IO (che magari se si riuscisse a fare funzionare sarebbe una buona cosa, eh) smentisce anche uno scenario che per molti anni dalle parti della destra è stato sventolato: da Salvini a Berlusconi passando per Giorgia Meloni, ci hanno sempre detto che la lotta al contante da parte del governo era una “privazione della libertà” e che la moneta elettronica come arma di lotta all’evasione non avrebbe funzionato.

Beh, i numeri di questi giorni invece ci dicono che i cittadini sono ben disposti a modificare i propri comportamenti se intravedono un vantaggio “concreto”. E allora siamo davvero sicuri che la lotta al “nero” sia un argomento che non interessa ai cittadini? O forse semplicemente c’è qualcuno che difende, con falsi argomenti, proprio quelli che sull’evasione costruiscono una buona fetta del proprio reddito sottraendolo allo Stato?

Non sono questi giorni un’ottima occasione per provare a affrontare, numeri alla mano, il tema della moneta elettronica come già avviene in tutto il mondo? Chissà che una volta passata la furia degli acquisti natalizi non si possa parlarne, senza comodi pregiudizi.

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La pornografia dello svago

Ogni giorno in Italia cade un Boeing e muoiono tutti i passeggeri. I numeri sono gli stessi e ce n’è perfino qualcuno in più. Ogni giorno in Italia qualcuno non sa quando potrà concedersi il lusso di amare una persona fuori regione, l’amore non è considerato una giusta causa. Ogni giorno in Italia qualcuno guarda la serranda della propria attività che si è arrugginita a rimanere troppo abbassata (o è ancora abbassata) e si domanda che lavoro si ritroverà a fare domani, se ci sarà un lavoro, e se non ci sarà un lavoro come ci si inventerà un reddito. Ogni giorno qualche centinaio di famiglie piange un morto. Decine di migliaia di persone cadono nella preoccupazione di essersi ammalati e i loro famigliari e i loro frequentatori si arrabattano per cercare un tampone in giro.

Eppure mentre durante la prima ondata si assisteva a una riflessione ampia su ciò che accadeva (addirittura con furbe derive preoccupazionali) questa seconda ondata ha un sapore diverso, niente di buono, qualcosa che cammina sul filo della rimozione e della narrazione populistica. Si racconta delle attività chiuse (e delle loro evidenti difficoltà) prendendola al contrario: non vorrete mica un governo cattivo che vi vieti il cenone di mezzanotte? Dicono così. Non vorrete mica dover scegliere gli ospiti del cenone di Natale? Si reclama a gran voce il diritto dello svago e non lo si fa con il pensiero a chi quello svago lo produce e lo distribuisce (il che avrebbe almeno qualcosa di solidale) ma come affermazione del proprio bisogno fottendosene del resto. Ma attenzione, non è un atteggiamento solo di alcuni cittadini, no, è proprio una discussione che inonda anche i giornali e le televisioni: discussioni orrende e inutili sull’orario di nascita del bambinello e nessuna riflessione un po’ più approfondita sulla manutenzione degli affetti che di questi tempi sono così difficili da mantenere e da reinventare.

Tutto superficiale, tutto raccontato come se fosse solo un rispetto delle tradizioni, tutto declinato in una commedia nazionalpopolare in cui scompare la paura, la solitudine, la lontananza, la sofferenza e tutto diventa lustrini, lucine, panettoni e tute da sci. Ma siamo sicuri di trattare questo tempo cupo con la complessità che merita? Siamo sicuri di rispettare il nostro ruolo di narratori della realtà? Oppure viene più facile agitare simboli senza volere nemmeno approfondire un po’?

È un’epoca profondamente dolorosa che viene trattata con lo stesso vocabolario di una simpatica accidentale caduta con le risate finte. Le ferite (fisiche, sociali, economiche, affettive) non si supereranno con un bicchiere di spumante in compagnia. Noi invece siamo lì, fermi lì, protesi su quel bicchiere lì. Ed è uno spreco di attenzioni, anche piuttosto irrispettoso.

Buon giovedì.

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Sul caso Genovese auguri al carnefice e attenuanti alla vittima: il mondo rovesciato di Vittorio Feltri

È dura essere Vittorio Feltri. Ogni mattina si sveglia e deve riuscire a intercettare gli umori peggiori dei più bassi discorsi da bar e metterli su pagina per manganellare qualcuno. Oggi il “giornalista” se la prende con la vittima di Alberto Genovese e lo fa con un editoriale che si racconta già dal titolo: “Ingenua la ragazza stuprata da Genovese”.

Si comincia instillando un dubbio: “Certo, gli piacevano le donne e non credo che faticasse a procurarsene in quantità – scrive Feltri. Che necessità aveva di rincorrere allo stupro per impossessarsi di una ragazza bella e giovane dopo averla intontita con sostanze eccitanti? Ciò è incomprensibile sul piano logico”.

E così il dubbio è subito bello e servito. Ma Feltri dà il peggio di sé nella descrizione dello stupro: “Dicono che Genovese sia andato avanti tutta la notte a violentare Michela, una ragazzina di 18 anni la quale pare fosse la terza volta che si recava nell’abitazione del nostro “eroe” del menga […] Come si fa a darci dentro per tante ore. Io, anche quando ero un ragazzo, dopo il primo coito fumavo una sigaretta…”.

Finito qui lo schifo? No, no. Feltri ci dice “personalmente ho constatato che si fa fatica a farsi una che te la dà volentieri, figuratevi una che non ci sta”. Capito? Per Feltri, come per tanti sostenitori del giornalismo fallocratico, non c’è differenza tra violenza, stupro e un normale rapporto amoroso: è tutto solo un atto sessuale, è tutto solo quella cosa lì, tutto uguale, sempre uguale.

Il finale poi è un manifesto di indegnità giornalistica. Feltri si domanda se la vittima “entrando nella camera da letto dell’abbiente ospite” pensava “di andare a recitare il rosario”, senza sospettare “che a un certo punto avrebbe dovuto togliersi le mutandine senza sapere quando avrebbe potuto rimettersele” e scrive che “sarebbe stato meglio rimanere alla larga da costui”. Insomma, se l’è cercata.

Il vomitevole editoriale si chiude con “lui” che “adesso la vedrà brutta o non la vedrà per anni (indovinate cosa, nda) con l’augurio di “disintossicarsi in carcere”. E la vittima? Scrive Feltri: “Alla vittima concediamo le attenuanti generiche. Ai suoi genitori tiriamo le orecchie”. Auguri al carnefice e attenuanti alla vittima: il mondo rovesciato di Vittorio Feltri è tutto qui.

Qualcuno dice che non bisognerebbe sottolinearli certi pezzi, qualcuno dice che bisognerebbe fare finta di niente. Ma c’è una responsabilità sulle parole che ritorna proprio in questo periodo ancora più prepotente: la violenza sulle donne inizia quasi sempre con la parola, è lì che si infila la prima fallocrazia. Qualcuno dice che Feltri fa così per provocare, benissimo, allora mettiamoci d’accordo su quale sia il limite delle cosiddette “provocazioni” che poi non sono altro che articoli che vogliono parlare a un pubblico ben preciso: i maschi che per sentirsi maschili sanno solo essere maschilisti. La violenza sulle donne è qualcosa di troppo grave e di troppo serio per essere lasciata in mano a Feltri e per questo c’è da continuare a sottolineare qualsiasi sua schifezza, soprattutto se pubblicata su un giornale di tiratura nazionale.

Del resto ci sono articoli scritti bene, articoli scritti male, articoli giusti, articoli sbagliati e articoli scritti con il cazzo dentro la penna. E in questi ultimi Feltri (e quelli di cui fieramente si fa portavoce) è un maestro. L’Ordine dei giornalisti non ha niente da dire?

Leggi anche: Il triste declino di Vittorio Feltri: da erede di Indro Montanelli a provocatore pro-Salvini (di F. Bagnasco)

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Azzolina ha ragione: riaprire tutto ma tenere chiuse solo le scuole è semplicemente assurdo

Si parla di tutto. Regali, negozi, centri commerciali, cenoni, spostamenti, virgole per descrivere chi siano i congiunti abbastanza congiunti e quando ci si può spostare e dove: la discussione che si infiamma sul Natale finge di volere essere parareligiosa e invece si fionda sui modi per permettere di spendere soldi, di incassare soldi, di spostare soldi. Per carità, va bene anche così: i soldi sono lavoro e sopravvivenza di alcune attività (ma siamo sicuri che poi non finiscano nelle tasche dei soliti noti che da questa pandemia ci hanno pure guadagnato?) ma ciò che stupisce, o forse non stupisce più nemmeno, è che dal dibattito sia scomparsa ancora una volta la scuola. Ancora.

Qualcuno timidamente prova a ricordarlo (il coordinatore del Comitato tecnico scientifico Agostino Miozzo lo ripete da giorni) e la ministra Azzolina prova a insistere, ma niente. Badate bene: l’apertura delle scuole non è un vezzo italiano, no: le maggiori organizzazioni delle Nazioni Unite come Who, Unesco e Unicef, oltre che le decisioni di Paesi come Francia, Regno Unito e Germania concordano sul fatto che l’apertura delle scuole sia un obbligo da perseguire con cura e attenzione, un bisogno primario per tenere in piedi la salute e lo sviluppo delle generazioni di ragazzi, un dovere di Stato per evitare gravi ripercussioni psicofisiche, sociali e culturali su intere generazioni che in questa pandemia sono retrocesse nella lista delle priorità.

Andare a scuola non significa semplicemente prendere parte a una lezione, andare a scuola significa spesso vivere il momento più importante di formazione e di socialità per crescere nella propria identità. Eppure le scuole continuano a essere trattate come un disturbo burocratico a cui tendere poco la mano, qualcosa di sacrificabile in nome dell’economia che si deve muovere e deve crescere. Se davvero la preoccupazione è la salute dei cittadini (nel senso più ampio del temine) allora viene difficile giustificare un lockdown generalizzato in cui tutti si spostano, per lavoro, mentre i ragazzi rimangono confinati in un limbo.

Si parla delle riaperture prossime per fare cassa e la scuola scivola forse all’11 gennaio. Quando forse poi ci diranno che gli acquisti compulsivi natalizi hanno riacceso la terza ondata e si tornerà al punto di partenza. E in tutto questo fluire di previsioni continua a mancare il danno, grave e difficilmente reversibile, di chi, insieme agli anziani, vive tutto questo come una forzata clausura: i giovani. “I dati ci dicono che i contagi in età scolastica non sono significativamente diversi da quelli di altre classi di età e non abbiamo evidenze per capire se siano avvenuti a scuola o fuori”, dice Miozzo. Ma sembra non interessare a nessuno.

Leggi anche: 1. “In Puglia rischiamo una nuova Bergamo, dovremo scegliere chi intubare”: parla il presidente dei rianimatori / 2. Crisanti a TPI: “A mettere in dubbio il vaccino è il Ceo di Pfizer che vende le sue azioni, non io”/ 3. Esclusivo TPI. Tutti chiusi in casa, ma non l’ordine dei medici di Roma. La denuncia: “Ci sono le elezioni e il presidente vuole far votare 43mila colleghi in presenza”

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Lo voglio! Lo voglio!

Il rito natalizio è l’esempio migliore. Lo voglio! Lo voglio! Gridano tutti quelli che sperano con bambinesca responsabilità di potere chiudere gli occhi e che tutto si cancelli. Il rito ancestrale di poter invitare chi si vuole nella propria abitazione per partecipare a un pantagruelico banchetto continua a ripetersi. Nessuno che parli di Natale per senso di responsabilità. Ma accade un po’ per tutto. Voglio andare al bar!, grida qualcuno, oppure voglio andare al cinema!, ma badate bene non è mai un discorso che questi fanno su base di dati, di numeri o di previsioni. Ieri qualcuno in commento a un mio pezzo scriveva: “non permetterò che mi stravolgono la vita questi al governo!”, come se il virus non esistesse, come se le decisioni consequenziali al virus fossero colpa di chi le prende, di chi stringe.

C’è in giro un’irresponsabilità che fa spavento e noi continuiamo a trattarla come se fosse davvero una posizione politica. Il presidente Fontana in Lombardia  chiede di passare in zona arancione perché i dati secondo lui dimostrano che in futuro potrebbe andare bene; ed è la stessa irresponsabilità del presidente del Piemonte Cirio che chiede più “libertà”, nonostante la sua regione abbia un indice di positività del 24,64% sui casi testati e un altissimo tasso di ospedalizzazione. Sono 5.150 i malati Covid ricoverati in ospedale in Piemonte, 384 quelli per cui è necessario ricorrere alla terapia intensiva. Secondo i dati di Agenas, l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali, in tutto il Piemonte i posti letto in rianimazione sono occupati al 61% da pazienti Covid, contro il 42% della media italiana. In area medica, invece, la percentuale sale al 92%, tra le più alte d’Italia.

L’intuizione di una certa parte politica (e di un folto gruppo di persone) è quella di recriminare come se il contesto non esistesse. Per questo molti negano il virus: facendo così possono almeno non apparire dei dissennati, se ci pensate. Non rendersi conto del contesto è un “liberi tutti” che torna comodo e utilissimo.

Diceva Marthin Luther King: «Nulla al mondo è più pericoloso che un’ignoranza sincera ed una stupidità coscienziosa».

Eppure il “Lo voglio! Lo voglio!” continua a proliferare. Intanto solo il 24% degli italiani, in un sondaggio Ipsos, dichiara di volersi vaccinare subito.

A posto così.

Buon giovedì.

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Due, tre cose sul macabro balletto calabrese

Ma il governo si rende conto di non essere in grado di nominare un commissario della sanità per la Calabria senza incorrere in figuracce?

Tre commissari nel giro di dieci giorni. Roba da fantascienza di quart’ordine, sembra un filmato horror di quelli con il pomodoro visibilissimo al posto del sangue, solo che qui ci si gioca la salute di una regione intera come la Calabria e ci si gioca la credibilità di un governo, anche se lassù fanno finta di niente.

Siamo partiti con il prode Cotticelli, l’ex generale dei Carabinieri che è riuscito nella mirabile impresa di umiliarsi in televisione intervistato da un giornalista, quasi come un ladro beccato con le mani nel sacco. Ha cominciato a balbettare discorsi sconclusionati e poi si è accorto seduta stante di dover essere lui a occuparsi del piano Covid. Un servizio in cui la sua segretaria e l’usciere del palazzo sono apparsi come degli scienziati nei confronti di quel commissario (così lautamente pagato) che sembrava essere invece passato lì per caso. Cotticelli è riuscito a fare ancora di più: si è immolato poi ospite da Giletti dicendo che era «in uno stato confusionale», forse era stato drogato e di non riconoscersi più. Uno schifo.

Poi arriva Zuccatelli. Una nomina lampo, non c’è che dire: giusto il tempo di essere nominato (ovviamente come “grande professionista” con la solita liturgia che accompagna ogni nomina politica, anche quando si tratta di amici di partito). Parte forte Zuccatelli, perfino Nicola Fratoianni di Leu ne contesta la nomina. Basta qualche minuto e ecco Zuccatelli in un bel video in cui ci dice che le mascherine «non servono a un cazzo» e che per ammalarci dobbiamo baciarci per almeno 15 minuti. Caos, figuraccia. Arriva il ministro Speranza che dice che Zuccatelli non si può giudicare da un video e che la sua esperienza è fuori discussione. Quindi uno pensa che rimarrà al suo posto. E invece si dimette e ci dice che gliel’ha chiesto Speranza. Quindi? C’è qualcosa di più di quel video che non sappiamo? Boh, niente di niente.

Infine in pompa magna viene nominato Eugenio Gaudio, che intanto ha a che fare con un’indagine della Procura di Catania probabilmente presto archiviata, e qualcuno dal governo parla di tandem con Gino Strada. Gino Strada li sbugiarda dicendo che non esiste alcun tandem. Ieri Gaudio ci dice che non può accettare perché, dice proprio così, sua moglie non vuole trasferirsi a Catanzaro. Ieri pomeriggio a Tagadà il ministro Boccia dice addirittura che non vero che il governo l’aveva nominato, che ci stava pensando, poi ci ripensa, balbetta che il ruolo del commissario straordinario per la sanità non sia un ruolo “importante”, poi ci ripensa, poi esce una nota stampa in cui si scopre che Gaudio si è dimesso senza nemmeno confrontarsi con il ministro Speranza. Niente di niente. Finisce così. Che poi Gaudio abbia accettato un ruolo così delicato senza avvisare a casa è una roba che farebbe ridere, se non facesse piangere.

A questo punto la domanda è una secca: ma il governo si rende conto di non essere in grado di nominare un commissario per la Calabria senza incorrere in figuracce? E poi: il governo si rende conto della delicatezza del ruolo soprattutto in questo momento? E poi: ma c’è qualcosa che non sappiamo?

Sullo sfondo, agitato come una reliquia, quel grande uomo che è Gino Strada e Emergency.

Che pena.

Buon mercoledì.

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