Vai al contenuto

ricchi

La soluzione apparente

La prevenzione anti-Covid 19 e i treni: si decide una data di scadenza per i viaggi con distanziamento, per poi accorgersi nell’ultimo giorno utile che quella decisione andava prorogata

Ogni volta che si tratta di qualche misura di prevenzione per il Covid-19 in Italia (ma accade così purtroppo in tutto il mondo) ci si schianta contro una realtà difficile da commentare. Si pensava che almeno il dolore lasciasse ferite abbastanza profonde per non permettersi di non essere seri, si pensava che i morti e il dolore non passassero come ci si dimentica di un raffreddore e invece ci si inchioda sempre, tutte le volte.

La questione dei treni, a esempio, è qualcosa degna di una sceneggiatura di teatro dell’assurdo: si decide una data di scadenza per i viaggi distanziati sui treni a lunga percorrenza, e questo è abbastanza normale visto che i decreti devono avere delle scadenze, per poi accorgersi nell’ultimo giorno utile che quella decisione andava prorogata. Decine di esperti, di task force, di funzionari, di protocolli e di raccomandazioni e poi questo agire da scavezzacollo che si sbuccia le ginocchia in discesa. A posto così.

Il fatto è che una decisione andrebbe spiegata per bene, bisognerebbe avere la forza e la credibilità (anche politica) di argomentarla almeno per non dare voce ai fiotti di complottisti che sbucano ovunque e invece ogni volta si tratta di una soluzione apparente, come i banchi con le ruote delle scuole che hanno monopolizzato un dibattito che invece è ampio e denso, una soluzione appoggiata come pezza e che mostra tutto il buco.

Perché se io rischio di ammalarmi su un treno (e non ho motivo per dubitarne) mi sfugge il motivo per cui la durata del viaggio (che è la stessa da Milano a Bologna sulle linee a alta velocità, come qualche traiettoria pendolare regionale) non capisco perché quello stesso rischio poi non lo corro in altri luoghi in cui evidentemente si è deciso di lasciare correre.

E in tutto questo fa sorridere che Regione Lombardia, non contenta dei lutti e delle figuracce fatte fin qui (in attesa degli sviluppi giudiziari) ancora giochi al trucco di mettersi contro il governo.

Oppure c’è una spiegazione un po’ più semplice e banale: tra un mese bisogna riaprire uffici, fabbriche e scuole e tocca allentare senza volerlo dire e apparentemente occuparsene in modo che poi appaia tutto normale. Che è l’interesse di molti, molto ricchi, molto potenti.

Buon martedì.

Commenti

commenti

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

I maestri della “vita reale”

L’imprenditore Flavio Briatore ha detto che quelli al governo vivono in una bolla e non hanno idea della vita reale

Ieri è rimbalzato in rete un video di un maestro di vita reale, non so se ne conoscete qualcuno, sono quelli che hanno un’opinione di tutto perché trattano tutte le sfumature e tutte le situazioni della complessa realtà come fosse un unico blocco di cemento, immodificabile e inamovibile, e di solito sputano sentenze inappellabili accusando gli altri di essere “fuori dal mondo”, dicono proprio così, come se ci fosse un mondo in cui stare dentro e uno in cui stare fuori. I maestri della vita reale di solito hanno il vizio di categorizzare il mondo in buoni e cattivi, ricchi e poveri, lavoratori e nullafacenti, belli e brutti, bianchi e neri, comunisti e liberal (dicono così) e poi tutto un resto di etichette che non vale nemmeno la pena trascrivere tutte per non rubare troppo spazio a questo articolo e alla vostra mattinata.

Il maestro della vita reale del video che girava ieri era Flavio Briatore che tutto baldanzoso dichiarava: «Quelli al governo vivono in una bolla, non hanno idea della vita reale!» e poi dava tutto un elenco di consigli su come governare l’Italia, come fare funzionare questo Paese e come rendere felici tutti gli italiani. La cosa curiosa è che i maestri della vita reale vengono invitati più o meno sempre negli stessi programmi e piacciono più o meno sempre agli stessi politici. Briatore è un imprenditore con sede legale a Londra, sede fiscale a Dublino, produzione in Pakistan, residenza a Montecarlo ed è molto curioso che ci dia lezioni sulla “vita reale” in Italia dall’alto delle sue bollicine extra lusso. Ti aspetteresti che un maestro di vita reale sia qualcuno che fatica, che si porta addosso le sue cicatrici, che riconosce di avere compiuto errori e cose buone e invece i maestri di vita reale che ci propinano sono quelli che vorrebbero convincerci che nella vita o si vince o si perde e chi perde è un fardello di cui bisogna liberarsi.

Facciamoci un favore, curiamo l’ecologia sociale, liberiamoci dei maestri di vita reale e occupiamoci della nostra vita che, reale o no, è quello di cui ci dobbiamo occupare.

Buon martedì.

Commenti

commenti

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Le macerie della pandemia nel mondo sono i bambini

Scusate se mi permetto di non seguire la polemica di qualche presidentessa di regione che cerca di lucrare su qualche decina di migranti, mi pare davvero troppo spendere qualche riga per una regione con un sistema sanitario completamente devastato dalla politica che si preoccupa di degli arrivi via mare mentre invoca a piene mani e senza controlli quelli via terra, ma ieri è uscito un rapporto di Save The Children che merita attenzione perché parla di un argomento che sfugge da qualsiasi discussione dei cosiddetti grandi del mondo e che rende perfettamente l’impatto della pandemia nel futuro un po’ più largo della visione del nostro semplice quartiere.

Dice il rapporto ‘Save our education – Salvate la nostra educazione’ che a oggi nel mondo sono 1,2 miliardi gli studenti colpiti dalla chiusura delle scuole e che la crisi provocata dal Covid-19 potrebbe costringere almeno 9,7 milioni di bambini a lasciare la scuola per sempre entro la fine di quest’anno, mentre milioni di altri bambini avranno gravi ritardi nell’apprendimento.

L’indice prende in considerazione in particolare tre parametri: il tasso di abbandono scolastico precedente all’emergenza, le diseguaglianze di genere e di reddito tra i bambini che lasciavano la scuola e il numero di anni di frequenza scolastica. L’analisi di questo indice mette in evidenza come in 12 paesi – Niger, Mali, Ciad, Liberia, Afghanistan, Guinea, Mauritania, Yemen, Nigeria, Pakistan, Senegal e Costa d’Avorio – il rischio di incremento di abbandono scolastico sia estremamente elevato. Anche in questo caso sono le donne quelle che rischiano di subire di più: sono 9 milioni le bambine in età di scuola primaria che rischiano di non mettere mai piede in una classe, a fronte di 3 milioni di bambini.

Ha detto Inger Ashing, ceo di Save the Children: «Circa 10 milioni di bambini potrebbero non tornare mai a scuola: si tratta di un’emergenza educativa senza precedenti. Proprio per questo i governi devono investire urgentemente nell’apprendimento, mentre al contrario siamo a rischio di impareggiabili tagli di bilancio, che vedranno esplodere le disparità esistenti tra ricchi e poveri e tra ragazzi e ragazze. Sappiamo che i bambini più poveri ed emarginati che erano già i più a rischio hanno il danno maggiore, senza accesso all’apprendimento a distanza o qualsiasi altro tipo di istruzione, per metà dell’anno accademico».

È qualcosa di spaventosamente mostruoso, una di quelle situazione di cui non ci occupiamo perché ci appare così grande rispetto ai nostri piccoli problemi locali e che poi invece torna qui, sulle nostre coste. No?

Buon martedì.

Commenti

commenti

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Che affare, la pandemia

La pandemia no non ci ha reso tutti uguali e secondo il premio Nobel Joseph Stiglitz e l’economista francese Thomas Piketty «ha esacerbato le diseguaglianze». «Le stesse grandi compagnie di Internet, fino a ieri impegnate in pratiche di elusione fiscale, sono state le principali beneficiarie del coronavirus», ha detto Stiglitz durante la conferenza stampa virtuale convocata dalla Commissione indipendente per la riforma della fiscalità internazionale d’impresa (Icrict) e dall’Ong Oxfam.

Facebook, Amazon, Apple, Alphabet, Google nel cuore dell’Europa, in Irlanda, «pagano tasse su una frazione del loro fatturato», dicono i due economisti che propongono anche un soluzione: un regime fiscale minimo. «Sarà molto difficile», ha detto Piketty, ma il fatto che tutta l’Europa stia riflettendo sul debito e stia muovendo somme impensabili potrebbe fare ritrovare il coraggio di parlarne una volta per tutte.

Eppure se ci pensate sono molte le disuguaglianze di cui si è discusso durante l’epidemia, quando davvero si credeva che potesse essere messo in discussione almeno un pezzo di sistema e invece è tornato già tutto nei binari normali. Anche gli eroi si sono già normalizzati, rientrati nei ranghi. Infermieri, insegnanti e perfino i rider, quelli che ringraziavamo ogni giorno su tutte le prime pagine dei giornali, sono finiti ancora nelle retrovie. La scuola è rimasta l’ultima preoccupazione del governo che non ha riaperto le aule e che non sa ancora quando e come si riapriranno mentre ci si assembra sui campi da calcio e nelle manifestazioni politiche. Gli artisti che hanno addolcito la quarantena sono lasciati a inventarsi qualcosa. Lo spettacolo dal vivo è ripartito claudicante.

Tutto bene, tutto normale. Che affare, la pandemia, per i ricchi che sono rimasti ricchi e non sono nemmeno stati messi in discussione. Che affare, la pandemia, per gli eroi che hanno avuto i loro 5 minuti di notorietà e ora devono tornare ai loro posti.

Buon mercoledì.

Commenti

commenti

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

La giustizia sociale non è un tic

Il trucco è sempre lo stesso: qualcuno chiede giustizia sociale (soprattutto chi di ingiustizia sociale ci muore e si marcisce) e quegli altri rispondono che è un tic. Una volta sono gli antifascisti, una volta sono i giovani mai contenti, una volta sono le femministe nevrotiche, una volta sono i neri che vorrebbero essere bianchi, una volta sono gli stranieri che vogliono solo diritti, una volta sono i comunisti che vogliono dignità salariale, una volta sono i poveri che pretendono di essere ricchi, una volta sono i lavoratori che pretendono una giusta paga, una volta sono gli omosessuali che vorrebbero essere come gli altri, una volta sono i laici che pretendono troppo di essere laici, una volta sono i garanti che pretendono garanzie anche per gli assassini. È tutto così: chiedi un diritto e vieni etichettato come fronda, vieni messo nello scaffale di qualche associazione di idee e di persone e la richiesta di giustizia sociale viene trattata come il solito refrain da tralasciare com’è sempre stato tralasciato.

Il trucco è sempre lo stesso: normalizzare la mancanza di diritti come una situazione a cui non si può porre rimedio e come una conseguenza naturale di un modello che è l’unico possibile. Così mentre accade che negli Usa gli stranieri siano stanchi di un razzismo che oggi si è trasformato in profanazione socio economica qui da noi i subappaltatori dei rider di UberEats hanno l’impunità di dirci che i loro lavoratori  «sono africani perché gli italiani vogliono 2 mila euro al mese. Basta retorica del ‘poverini». Retorica dei poverini, eccolo il tic. E lo stesso vale per quelli che raccolgono la frutta nei campi.

La giustizia sociale non è un tic, no. E non è qualcosa che può essere coperta ogni volta invocando una guerra o una ribellione pericolosa. Quando negli Usa hanno ucciso George Floyd i bianchi vedendo le immagini hanno sospirato “oh, no” mentre i neri hanno pensato “è successo ancora”. Se avete la sensazione che su alcuni diritti “si continui a parlare sempre delle solite cose” è perché le solite cose non si sono mai risolte e sono ancora lì, a gridare vendetta.

Reclamate il diritto di essere perseveranti, giorno dopo giorno, goccia dopo goccia. Qualcuno vi additerà come noiosi e invece siete solo fedeli a voi stessi.

Buon giovedì.

Commenti

commenti

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

“Noi ricchi dovremmo pagare più tasse”: perfino Bill Gates è più a sinistra di questi


Bill Gates: «Sono a favore di un sistema in cui, se si hanno più soldi, è necessario pagare una percentuale più alta di tasse». Eppure lo stesso discorso qui in Italia sembra impossibile affrontarlo senza risvegliare allarmi sconsiderati e strenue difese dello status quo. Così accade che il magnate USA sia più a sinistra della sinistra.
Continua a leggere

Caro Di Maio, se non favorisce i ricchi non è una flat tax

Finita la pacchia vacanziera di una propaganda tutta imperniata su migranti, disperati, uomini neri e allarmi senza riscontro ora il governo si ritrova a governare sul serio e si ritrova di fronte a tutte le contraddizioni rimaste finora sopite: Di Maio ha scelto come alleato (o si è ritrovato a dover scegliere) un partito berlusconiano nella concezione economica del Paese. Se ne faccia una ragione. Ora non basta apparecchiare un po’ di furba comunicazione spolverata di indignazione: le tasse, piaccia o no a Di Maio, sono numeri, mica sensazioni.
Continua a leggere

Se Robin Hood si riprendesse quei 10 miliardi regalati in Italia ai ricchi

Se si riuscisse a non subire l’egemonia culturale di chi si incarta sui 30 euro (falsi) ai rifugiati, se si riuscisse a non farsi mettere all’angolo dalla facile pantomima sui vitalizi (che non esistono più, che sono un privilegio odioso ma troppo spesso usato per non parlare d’altro), se non avessimo a che fare con chi gioca a fare lo sceriffo contro i ladri di polli e se avessimo il nerbo di fare i forti con i forti e mica solo i prepotenti con i deboli allora ci sarebbero sul piatto 10 miliardi di euro (dieci miliardi di euro) da recuperare subito in nome della peggiore evasione fiscale, quella nascosta tra le pieghe degli accordi seminascosti tra governi e multinazionali.

Con il trucco dell’accordo fiscale le grandi multinazionali strappano regimi da paradiso nel cuore dell’Europa senza che l’argomento provochi un minimo di sollevazione popolare. Quando l’Irlanda venne multata dalla Ue per avere irregolarmente favorito la Apple (che aveva risparmiato qualcosa come 13 miliardi di lire alla faccia dell’uguaglianza tra popoli che dovrebbe essere una delle fondamenta dell’Europa unita)  lo sdegno è durato giusto il tempo di qualche campagna di boicottaggio buona per i social network eppure ci sono altri 2.052 casi simili nel Vecchio Continente.

Sono 78 gli accordi di tax ruling (un banale escamotage grazie al quale un governo può concordare con le multinazionali un trattamento fiscale di favore) attivi qui in Italia e, come ha scritto l’Espresso, Philip Morris, Michelin e Microsoft sono tra i beneficiari di un condono preventivo che gli permette di agire in Italia con parametri ben più bassi di quelli nazionali. Per intendersi: ben più bassi dei loro concorrenti e delle altre imprese. Il tutto alla faccia della “libera concorrenza” che viene sventolata ogni piè sospinto. Alla fine del 2016 tra le note del Def il Ministero dell’Economia aveva calcolato che solo all’Italia mancano circa 31 miliardi di imponibile che tradotto in mancato gettito fiscale fanno circa 10 miliardi di euro, lo 0,6% del PIL.

Se volete fare i Robin Hood (come in molti hanno promesso di fare in campagna elettorale) vi viene facile facile.

Buon martedì.

 

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui https://left.it/2018/03/20/se-robin-hood-si-riprendesse-quei-10-miliardi-regalati-in-italia-ai-ricchi/ – e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Mi terrorizza la ferocia di questi, oltre al terrore

Questa mattina, se mi permettete, non scriverò il mio consueto buongiorno. Quindi non mi dedicherò alle notizia di oggi (da Londra alla bagarre sui vitalizi fino alla prossima celebrazione dei trattati europei) ma vi racconto una sensazione.

Nella casella di posta stamattina molto presto mi è arrivato un messaggio, ovviamente da un profilo Facebook che non è riconducibile a nessuna persona reale: la foto del profilo è un soldato ripreso di spalle e il “nome” una semplice sigla “Dem Ken”. Dice, il messaggio, letteralmente:

«cara zecca, prenditela con gli extracomunitari terroristi, volevi anche tu l’europa dell’accoglienza? eccoti servito!»

Mi sono sforzato di immaginare quale strana connessione possa scattare nell’animo di qualcuno per prendersi la briga di scrivere una frase del genere a un insignificante editorialista, quale sia quell’organo così peloso che possa vomitare in una frase del genere gli accadimenti di Londra.

Poi, per immergermi nella meglio nel cassonetto a toccare con mano il percolato della ferocia, mi sono fatto un giro sulle pagine dei fomentatori professionisti (niente nomi, oggi nessuna pubblicità), ancora:

“Ennesimo attentato terroristico islamico a Londra ci conferma che l’Europa è ormai una fabbrica del terrorismo islamico.
Continuiamo ad importare “arricchimento” culturale…i risultati sono questi”

“QUANDO C’ERA IL FASCISMO MIO PADRE DICEVA SEMPRE TUTTI AVEVANO UN LAVORO E NON C’ERA DELIQUENZA!”

“adesso ho capito perche’ la boldrini vuole dare la cittadinanza ha tutti quelli che arrivano nel nostro paese , cosi risultano italiani quando uccidono qualcuno”

“E adesso ?… I buonisti quale caxxata si inventeranno per l’ennesimo attentato facendo passare per un squilibrato un paranoico ecc. senza ragionare un attimino che questi signori perbene attentatori stanno dichiarando guerra ai fessi della UE fallimentare?”

(continua su Left)

L’uguaglianza secondo Obama

Tanto per notare le differenze:

Obama va alla guerra delle tasse: imposte più alte sui ricchi (colpiti i «capital gain», non i redditi da lavoro) da redistribuire al ceto medio in difficoltà sotto forma di sgravi fiscali per le famiglie con figli e misure di sostegno sociale: soprattutto il college gratis per quasi tutti gli studenti e l’aspettativa di paternità pagata. Deciso a non passare alla storia come il presidente che ha stabilizzato e rilanciato l’economia Usa dopo una crisi gravissima, ma poi non è riuscito a evitare una frattura nella società col drammatico impoverimento del ceto medio, il leader democratico proporrà domani sera al Congresso e all’America una ricetta economica con la quale infrange il tabù dell’aumento dei tributi.

Lo farà nell’occasione più solenne: il discorso sullo Stato dell’Unione, che viene pronunciato ogni anno in diretta tv davanti alle Camere riunite. La sicurezza e la lotta al terrorismo saranno sicuramente temi centrali, ma, entrato nell’ultimo biennio alla Casa Bianca, la sua eredità politica Obama se la gioca soprattutto sulle questioni interne. In America, poi, è già iniziata la campagna per le presidenziali del 2016 al centro della quale ci sarà il malessere assai diffuso in un Paese che, pure, ha ripreso a creare molti posti di lavoro. Ma la globalizzazione dell’economia e i processi di automazione hanno favorito una progressiva polarizzazione dei redditi, mentre i nuovi lavori sono concentrati nella fascia alta delle professioni creative più remunerative o in quella bassa della manodopera non qualificata che spesso non arriva nemmeno a mettere insieme il reddito minimo di sopravvivenza del nucleo familiare. In mezzo, un ceto medio sempre più schiacciato.

E’ soprattutto per questo che Obama ha visto la sua popolarità declinare negli ultimi anni. Mentre la «sconfitta annunciata» alle elezioni di «mid term» di novembre si è trasformata in débâcle, nonostante Pil e occupazione in forte crescita. Col Congresso ora totalmente controllato dalla destra, la Casa Bianca ha pochi margini di manovra, ma il presidente ha deciso ugualmente di lanciare una controffensiva: «State of the Union» diventa così il punto d’arrivo di un percorso fatto di annunci di interventi sociali a sostegno del ceto medio.

Fino a ieri Obama aveva puntato soprattutto sull’istruzione e il welfare: asili nido, i primi anni dell’università pagati dallo Stato, i permessi di paternità retribuiti. Ma ora il team del presidente fa sapere che domani Obama romperà gli indugi anche sul fronte del Fisco. Tre le misure che dovrebbero essere proposte dal lato delle entrate: 1) l’aumento, dal 23 al 28 per cento, della tassa su dividendi e «capital gain» di chi ha un reddito superiore al mezzo milione di dollari l’anno. 2) L’estensione del prelievo fiscale ai «trust» che oggi vengono usati dalle famiglie più facoltose per trasmettere la loro ricchezza agli eredi evitando ogni tributo. 3) Un maggior prelievo su banche e finanziarie di grandi dimensioni (oltre 50 miliardi di dollari di patrimonio) concepito in modo da colpire chi fa un ricorso maggiore all’indebitamento. Una manovra consistente ma non gigantesca né radicale: 320 miliardi di dollari in dieci anni (parliamo di circa 27 miliardi di euro l’anno) senza aumenti delle aliquote sui redditi da lavoro o riduzione di sgravi oggi molto generosi come quelli sui mutui-casa. Un gettito, comunque, più che sufficiente a coprire i costi del piano di interventi sociali che Obama si accinge a proporre. 60 miliardi serviranno per il college gratis. Poi ci sono da coprire i costi dell’aspettativa pagata per i padri, ma il grosso della manovra (235 miliardi, sempre in dieci anni), andrà ai sostegni economici alle famiglie. Qui il presidente vuole aumentare a 3 mila dollari il contributo annuo erogato per ogni figlio fino all’età di 5 anni, più 500 dollari versati a ogni famiglia con un reddito inferiore ai 210 mila dollari nella quale entrambe i coniugi lavorano.

E’ improbabile che tutte queste misure entrino in vigore: Obama può realizzare solo alcuni interventi marginali utilizzando i poteri presidenziali. Per il resto dovrà affidarsi al voto del Congresso dove alcuni repubblicani hanno già bocciato le sue proposte. Ma la destra deve stare attenta: Obama punta su misure condivise in passato anche da esponenti conservatori e le inserirà nel bilancio che presenterà il 2 febbraio. A dire no su tutto i repubblicani rischiano di finire in rotta di collisione col ceto medio.

(clic)