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La disperazione è un fiume

Fiume Adda, nei pressi di Sondrio. C’è questa storia che è un romanzo da tenere sullo scaffale per tutto quello che ci racconta, una storia che sfugge ai giornali ma che è una fotografia, densissima, di come si fa piccolo l’uomo di fronte al dolore e di come manchino perfino le parole per raccontarlo.

Il primo settembre scorso sul quel tratto di fiume è annegata Hafsa, una ragazzina di quindici anni che stava attraversando il fiume per raggiungere una spiaggetta a nuoto insieme a alcuni amici. Le ricerche delle forze dell’ordine e dei vigili del fuoco si sono concluse da giorni, niente di fatto, nessun corpo è stato trovato. Chissà dov’è finito, con questa prepotenza del fiume, raccontano quelli che qui ci abitano da generazioni e che conoscono bene i pericoli di quell’acqua così infida. Hanno perfino svuotato il bacino di Ardenno ma della ragazza non c’è alcuna traccia.

Il padre di Hafsa quel maledetto primo settembre era in Marocco e da quando è tornato è tutti giorni lì, in riva al fiume. Arriva con la sua auto, parcheggia e cammina per ore, sul bordo e nell’acqua. L’immagine di lui che cammina controcorrente con l’acqua che gli arriva alla vita è la fotografia della disperanza che cerca sollievo anche solo decidendo di non arrendersi, perfino di fronte all’ineluttabile. È la sindone di un genitore che torna tutti i giorni a fare i conti con il suo dolore.

“Ho contattato i carabinieri per dire loro che io continuo a cercarla” ha detto il papà a La Provincia di Sondrio. “Devo ringraziare i ricercatori, che sicuramente hanno fatto un buon lavoro, ma non sono riusciti a trovare mia figlia. E io non posso smettere di cercarla. Mi sto dando da fare per trovarla e spero che ci sia qualcuno che con buona volontà voglia mettersi a disposizione per aiutarmi. Io mi avvicino al fiume, a volte ci entro anche, rimanendo vicino alla riva. So nuotare bene e non voglio correre rischi, ma spero di trovare Hafsa, che magari è incagliata da qualche parte. O spero di essere lì quando il fiume la restituirà. Non posso rimanere a casa ad aspettare”.

Si tuffa ogni giorno, nel suo dolore.

Buon lunedì.

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Scambiare un omicidio per una rissa

Pregiudizi razzisti e agiografia dei violenti: nel raccontare l’uccisione di Willy Monteiro Duarte una parte del giornalismo italiano ha dato di nuovo il peggio di sé

Insuperabile il Corriere della Sera che descrivendo uno degli arrestati per la morte di Willy Monteiro Duarte scrive: «Ma Gabriele Bianchi, uno dei quattro fermati (insieme al fratello Marco e altri due) per l’omicidio di Willy Monteiro Duarte a Colleferro, nei mesi di lockdown si era posto anche un problema più concreto: come tirare avanti, mettere insieme pranzo e cena. Da giovanotto sveglio e concreto lo sapeva: non potevano essere gli sport da combattimento a dargli una sicurezza economica. Così s’era inventato una vita meno bellicosa, quella del fruttivendolo».

Giovanotto sveglio e concreto: l’agiografia dei violenti ultimamente va per la maggiore e ogni dettaglio utile per sminuire l’accaduto sembra ricercatissimo da certi giornalismi per farci un bell’articolo. Eppure si sta parlando di pregiudicati, conosciuti da tutti come violenti, simpatizzanti dell’estrema destra e che si dedicavano volentieri alle risse. Questo piccolo dettaglio viene omesso.

Del resto i fatti raccontano che Willy Monteiro Duarte sia stato ammazzato di calci e di pugni, ovviamente in molti contro uno, come si conviene ai vigliacchi e sia rimasto lì, morto per terra. “Rissa”, scrivono certi giornali: come se fosse una “rissa” massacrare di botte un ragazzetto che pesa la metà di te insieme ai tuoi amici e contro cui usi le tue tecniche di combattimento imparate per diventare ancora più efficace nella tua violenza.

Poi c’è il racconto che ci dice che Willy Monteiro Duarte e la sua famiglia fossero “ben integrati”. Di grazia, qualcuno vorrebbe dirci che informazione è? Se non fossero stati “bene integrati” sarebbe stato più immaginabile un omicidio del genere?

Le parole sono importanti, diceva Nanni Moretti, e aveva proprio ragione.

Infine c’è la narrazione di chi vorrebbe farci credere che Willy si sia trovato “nel posto sbagliato nel momento sbagliato”. Anche questo è un falso: Willy ha ritenuto opportuno difendere un amico dalla foga e dalla violenza di questi picchiatori professionisti. Willy ha deciso di essere altruista e solidale in un territorio in cui evidentemente è un lusso che non ci si può permettere. Willy ha incocciato uno di quei quartieri presidiati dalla violenza di qualche gruppetto di pestatori professionisti che vorrebbero comandare il territorio. Willy ha fatto la cosa giusta. Siamo noi che gli abbiamo fatto trovare il Paese sbagliato.

Buon martedì.

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Cosa possiamo fare?

Mi scrive un lettore, Carlo Festa:

Ho dedicato buona parte di questa stagione estiva alla visione di innumerevoli documentari riguardanti i danni derivanti dal cambiamento climatico, oltreché le cause e le ragioni del suo avvento. Un povero stronzo come me, che scrive canzoni all’interno delle quali cerca d’incastrare un messaggio preciso per i posteri, non può che lasciarsi trascinare dalle sfumature disastrose che avvolgono il nostro intero pianeta; nella sempre vana ricerca di una curva verbale che prenda vita nel cuore di chi ascolta e si propaghi in maniera endemica nelle coscienze di ognuno.

Solo che accade che il disastro del quale vorrei parlare in  dodecasillabi mi ha totalmente ammutolito.

E il problema non è tanto il silenzio; quanto il senso d’impotenza che in questo periodo ho nutrito fatalmente.

Risparmio i soliti sermoni sulle conseguenze dello scioglimento dei ghiacciai e delle elevatissime temperature registrate in Antartide, sullo sbiancamento della barriera corallina, del processo inesorabile di desertificazione di innumerevoli aree del pianeta un tempo fertili e rigogliose; e delle sempre verdi isole di plastica sugli oceani. E li risparmio non tanto perché non li leggereste – molti di voi avranno già scrollato questo post alle prime due righe -, quanto perché infondo lo ritengo, sostanzialmente e particolarmente, inutile.

L’ultimo documentario che ho visto (il terzo trattante lo stesso argomento) riguardava lo sbiancamento progressivo delle varie barriere coralline. I volti della gente impegnata nella salvaguardia del pianeta, non riescono più a simulare una smorfia serena dinanzi una telecamera; né riescono a mentire riguardo il possesso di una minima speranza verso il futuro. Il loro viso è sfigurato dal dolore.

E io non so che cavolo fare.

Sempre durante la visione di quest’ultimo documentario, sono stato come pugnalato dall’affermazione di uno degli ennesimi zucconi ostinati che pensano di poter salvare il mondo con una telecamera e qualche testimonianza scientifica, il quale disse “Sono anni che si discute di questa emergenza; ma ogni volta è come se le nostre parole fossero spazzate dal vento”. D’accordo, questa cosa è sulla bocca di tutti ormai. Ma non esibiva la tipica espressone rassegnata da boomer, sempre indirizzato al giovane spensierato/incosciente/deficiente. Aveva quella risatina nervosa tipica di chi, a telecamere spente, avrebbe spaccato l’intero mobilio entro il quale era stato invitato, forse stanco per l’ulteriore testimonianza concessa all’ennesimo, inutile, documentario.

E io non sapevo ancora che cavolo fare, seriamente.

Come alcuni di voi – confesso – anche io credo di poter diventare qualcuno che possa offrire un certo contributo alla collettività. Ma il senso d’impotenza dal quale vengo investito, ogniqualvolta realizzo nella mia mente questo disastro, è infinitamente più potente di qualsiasi altro senso di riscatto che serbo. L’abulia dei più è sproporzionalmente più violenta della solerzia dei pochi alimentati da questa comunanza di destino. E l’arroganza dei molti è infinitamente più schiacciante della conoscenza scientifica dei pochi.

Qualcuno mi chiede “come stai?”, ovviamente la mia risposta è sempre “bene”: la salute (ancora) non manca, il lavoro (anche se poco) nemmeno, gli affetti ci sono sempre. Ma quando la conversazione si fa insidiosa, cado preda di una sorta di mutismo religioso. Mi esibisco in smorfie fataliste; approssimo luoghi comuni che cauterizzino l’entità di una discussione, possibilmente interessante; evado dalle possibilità di enucleare in maniera approfondita una mia proposizione sulle cose. Perché penso quanto sia assolutamente inutile, a tratti fastidioso, parlare di massimi sistemi dinanzi un aperitivo. “E cosa dovremmo fare!?” ecco: non lo so; e non vorrei che qualcuno pensasse che stia cercando colpevoli tra i tavolini di un pub.

Mi sento soltanto smarrito, senza barca, senza remi, senza bussola e lontano dalla speranza di un pronto soccorso metafisico. Sorrido all’idea di pensarmi in un consultorio psicologico ed esordire con “Buonasera, soffro molto a causa dei cambiamenti climatici e della crisi storica che stiamo attraversando”, ma, comunque, vi sembra poco?

Non voglio dire che sto male, né voglio far credere di aver vinto un concorso pubblico come emissario comunale del malaugurio.

Soltanto che, ad oggi, non so che fare.

E ho scritto a vanvera proprio per testimoniarlo.

Cosa possiamo fare?

Come giustamente dice Carlo, cosa dobbiamo fare?

Buon giovedì.

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Le lezioni scolastiche? In discoteca

Il punto è sempre lo stesso: rifiutare la complessità, sempre, comunque, ostinarsi a banalizzare tutto, sempre, comunque, trovare particolari da rivendere come se fossero la fotografia del tutto e soprattutto, come nei peggiori trucchi, trovare un colpevole, sempre.

Il governo italiano si muove per serrare le discoteche. Il 16 agosto dell’anno 2020 della pandemia. Basterebbe scriverlo così per rendersi conto che c’è qualcosa di sbagliato se stiamo viaggiando su e giù per l’Italia (e per fortuna) in treno distanziati indossando la mascherina, c’è qualcosa di sbagliato se il teatro e lo spettacolo dal vivo continuano a essere pericolosamente claudicanti, quasi morti, c’è qualcosa di sbagliato se gli infermieri e i medici continuano a chiederci di ascoltarli e nel frattempo nelle discoteche italiane ci si può sudare addosso con la mascherina sotto il mento.

Perché i controlli in questa estate italiana non ci sono stati. Meglio: sono stati pochi. Infinitamente pochi se si pensa che siamo quello stesso Paese che qualche mese fa andava alla ricerca dei corridori solitari sulla spiaggia con tanto di drone e di esercito. Ma ve lo ricordate?

No, purtroppo siamo il Paese con il ricordo breve, corto, spesso distorto. E così il periodo del lockdown è diventato carne fresca per i complottisti ma ha perso tutta la sua eredità sociale e sentimentale. È tutto passato, non c’è più niente anzi forse non è mai esistito: il discorso Covid l’abbiamo chiuso così, come i bambini che strizzano gli occhi sperando di riaprirli e non c’è più la paura.

E mentre il governo richiude le discoteche (e ci dirà che è colpa “solo” delle discoteche, secondo la stessa logica di banalizzazione che ci ha portato a mirare coloro che portavano in giro il cane) ora si può ricominciare a sentirsi tranquilli. Chiuse le discoteche e tutto a posto.

Nel frattempo, tra le persone da ascoltare, ci sono i dirigenti scolastici che mi scrivono di avere rinunciato alle vacanze per girare classe per classe con il metro in mano, di avere provato a progettare la didattica integrata e di avere passato mesi a rispondere ai “monitoraggi urgenti” richiesti dal governo che dovevano essere pronti per il giorno successivo. Lo so, non se ne legge in giro, già. Eppure la riapertura della scuola è in imbarazzante ritardo e tra poco scoppierà il bubbone, appena si finisce questa risibile polemica sulle discoteche. E via così.

A pensarci bene i nostri ragazzi potrebbero studiare in discoteca, senza sudare, senza ballare. No?

Buon lunedì.

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La maionese è impazzita

Dai cinque parlamentari che hanno fatto richiesta del bonus di 600 euro alla guerra alla politica senza senso della misura. E l’antipolitica è una pessima notizia

Ecco qua. Ci sono cinque parlamentari senza dignità che alla faccia nostra incassano i 600 euro che sarebbero serviti a persone certamente più bisognose e ora la guerra si allarga e si assiste al solito assolutismo italiano, quello che è l’ingrediente perfetto per scivolare ancora più in basso rispetto a dove siamo.

Sia chiaro, i cinque sono imperdonabili. Imperdonabili. Ne abbiamo parlato giusto nel buongiorno di ieri.

Ma si legge in giro qua e là che “addirittura dei sindaci, assessori e consiglieri comunali” avrebbero aderito al bonus Covid, come se davvero la gente fosse talmente cretina da non sapere che un consigliere comunale o un sindaco di un piccolo paese deve lavorare (eh, sì, incredibile, lavorare) per fare politica perché non può permettersi di vivere di quella. Così si butta tutto nel calderone.

Ieri una consigliera comunale di Milano, Anita Pirovano, ha provato a spiegarlo con calma: «Mi autodenuncio. Non vivo di politica perché non voglio e non potrei. Non potrei perché ho un mutuo, faccio la spesa, mantengo mia figlia e – addirittura – ogni tanto mi piace uscire e durante le ferie andare in vacanza. In più ho studiato fino al dottorato e all’esame di stato per diventare psicologa e ricercatrice sociale, professione in cui negli ultimi tempi mi sembra spesso di essere “più utile” alla società che in consiglio comunale (attività a cui comunque dedico tutto il tempo non lavorato e la passione di cui sono capace). Infine e soprattutto pur non cedendo alle sirene antipolitiche ho capito sulla mia pelle che avere un lavoro (nel mio caso più d’uno in regime di lavoro autonomo) mi consente di essere “più libera” nell’impegno politico presente e ancora più nelle scelte sul futuro, per definizione incerto. Come tanti mi indigno – perché è surreale – se un parlamentare in carica fruisce ammortizzatori sociali e penso sia paradossale che una misura di sostegno al reddito non preveda nessuna soglia di reddito».

Niente, è una guerra continua alla politica senza senso della misura e senza cognizione. Magari il presidente dell’Inps Tridico potrebbe anche spiegarci come mai non siano stati comunicati i furbetti delle casse integrazioni inventate o del Reddito di Cittadinanza. Sia chiaro, non è benaltrismo, è che vorremmo conoscerli tutti i furbetti. Tutti. Per avere cognizione di causa.

Intanto veleggia l’antipolitica, ancora una volta. Ed è una pessima notizia. Peggiore di quei cinque cretini.

Buon martedì.

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“A Beirut, come a Damasco, è morta la speranza”: parla lo scrittore siriano Shady Hamadi

Shady Hamadi è uno scrittore di origine siriana e da sempre è un attento osservatore del Medio Oriente. Esilio dalla Siria. Una lotta contro lindifferenza”, edito da Add Editore è il suo ultimo libro.

Lesplosione a Beirut ha acceso le voci di solidarietà falsi cortesi degli esponenti politici con strafalcioni come quello di Manlio Di Stefano. Che sensazione ti provoca la superficialità della politica italiana sul Medio Oriente?
Mi provoca delusione perché l’Italia ha, geograficamente e storicamente, un ruolo di primo piano nei rapporti con il Medio Oriente. Geograficamente perché siamo la porta verso l’Europa; storicamente a causa della presenza araba, durata secoli, nel sud Italia. Gli sbagli eclatanti, come quello di Di Stefano, stanno diventando una prassi (a destra e a sinistra) che non solleva neanche più l’indignazione. Ricordo gli elogi di Renzi al suo “amico”Al Sisi, poco prima della morte di Regeni. O, ancora prima, nel 2011 Franco Frattini che elogiava la Siria per la sua stabilità durante l’ondata delle primavere arabe. Il risultato è davanti a tutti noi.

Come valuti la politica estera del governo italiano?
Sclerotica perché c’è incoerenza nelle azioni della Farnesina a causa della nostra instabilità politica. Prendiamo l’Egitto. Con Renzi, prima dell’uccisione di Regeni, i rapporti erano idilliaci. Ucciso il ricercatore, abbiamo virato completamente. Salvo poi rimandare l’ambasciatore al Cairo. Oggi che cosa rimane del nostro approccio verso l’Egitto, la questione della tutela dei diritti umani? Nulla, a parte la vicenda di Patrick Zaki che non cade nel dimenticatoio grazie all’attenzione di alcuni movimenti di sinistra e Amnesty.

Come valuti lattenzione della politica occidentale sul Medio Oriente?
Dovevamo accompagnare i paesi arabi verso una transizione, sostenendo quel corpo sociale che si chiama società civile ma non lo abbiamo fatto. Preferiamo ancora oggi sostenere militari che con la forza riportano lo status quo antecedente. Guardiamo alla Libia. Parte della comunità internazionale sostiene Haftar; altri Sarraj. All’interno dell’Unione Europea ci sono Stati che, seguendo il proprio interesse nazionale, sostengono gruppi differenti.

Cosa bisognerebbe avere il coraggio di dire/fare?
Abbiamo sbagliato. L’ammissione di colpa dovrebbe arrivare da chi si è seduto in parlamento in Italia come nella Ue. Hanno sbagliato nel guardare al Medio Oriente con i soliti preconcetti: se non c’è un dittatore c’è il fondamentalismo. Come se questi arabi non fossero capaci di emanciparsi da questi due mali, creando una terza via che li conduca verso la democrazia. Il male assoluto, secondo questa vulgata alla Magdi Allam, sarebbe l’Islam. Semplicisticamente sarebbe la religione a bloccare ogni trasformazione.

Da scrittore, con la tua storia, come valuti questo momento internazionale?
É una restaurazione. A Beirut come a Damasco manca la speranza. Sto parlando proprio del sentimento. Sperare di cambiare, di migliorare vita… la gioventù vive nel pessimismo. Questo stato di cose ha prodotto un aumento vertiginoso dei suicidi. Decine di giovani si tolgono la vita esausti non solo di vivere nella miseria ma di non vedere mai un cambiamento. Di chi è la responsabilità di queste morti?

Che ne pensi del rifinanziamento italiano alla Libia?
Abbiamo Salvini che grida contro gli sbarchi. Vuole che si fermino ma lui ed altri hanno firmato per il rifinanziamento della guardia costiera libica da più parti accusata di gestire il traffico di migranti con le mafie locali. Diamo soldi ai trafficanti. Ho idea che chi grida alla chiusura dei porti voglia il contrario. I migranti servono come merce di scambio elettorale, in barba alla sofferenza di quei nei lager.

In Italia haisentito” razzismo?
Personalmente no. Mi definisco da sempre sirio-brianzolo anche se ultimamente mi sento solo brianzolo. Penso che gli italiani non siano razzisti. Credo esista molta ignoranza. Molti politici la sfruttano perché viviamo in una epoca di slogan e non di discorsi culturali. Vede, oggi non vogliamo prenderci la briga di capire perché un nigeriano scappa da Lagos o un siriano da Aleppo. Vogliamo tutto subito, anche le spiegazioni. Il politico improvvisato che ormai dilaga nei talk show e nelle aule un tempo frequentate da Berlinguer, regala slogan. È un ignorante, che non sa che i libici abitano in Libia e che Pinochet non era il dittatore del Venezuela. Non è umile. Infatti non chiede scusa. Dobbiamo ripartire dalla cultura.

Leggi anche: 1. Libano: devastante esplosione al porto di Beirut. Le impressionanti immagini della deflagrazione / 2. Libano, ferito un militare italiano in un’esplosione al porto di Beirut / 3. Libano, esplosione al porto di Beirut: incidente o attentato? Tutte le ipotesi

L’articolo proviene da TPI.it qui

Orfini a TPI: “Lamorgese non fa la ministra. I flussi di migranti sono gestibili, ma preferiamo finanziare i torturatori libici”

Se c’è una figura nel Partito Democratico che invoca una svolta, quanto alla gestione dei flussi migratori, già dall’epoca di Minniti, si tratta sicuramente di Matteo Orfini. Il tema dei migranti è ormai tornato al centro del dibattito politico, con l’aumento degli sbarchi, Salvini che ha ripreso la sua propaganda a tamburo battente e la maggioranza in pieno stallo, incapace di cambiare rotta. TPI ha intervistato il deputato del Pd per capire quali sono gli scenari futuri e quali decisioni prenderà la maggioranza di governo su una questione non più differibile.

Tre migranti sono stati uccisi dalla Guardia Costiera libica, e non erano passate nemmeno 24 ore dalla manifestazione che si teneva per contestare il rifinanziamento da parte del governo italiano. La notizia tra l’altro non sembra avere nemmeno indignato più di tanto.

Questa purtroppo è la storia di questi mesi, di questi anni. Non è una notizia, succede quasi tutti i giorni e fuori da ogni forma di ipocrisia e di circostanza è la ragione per cui paghiamo la Guardia Costiera libica: trattenere i migranti con ogni strumento e con ogni mezzo mettendo in conto che possono essere chiusi in un lager, torturati, seviziati e anche uccisi. Se tu finanzi torturatori e assassini, quelli torturano e assassinano.

Ci siamo abituati all’orrore?

C’è un’amnesia collettiva di fronte a un qualcosa di enorme che è e sarà una delle pagine più vergognose del nostro Paese nei libri di storia. Tutto questo oggi, purtroppo, non solleva una discussione adeguata nell’opinione pubblica e nella politica.

Ma qual è il blocco che impedisce di cambiare rotta nel governo? L’alleanza con il Movimento 5 Stelle o vogliamo ammettere che c’è anche un serio problema all’interno del Partito Democratico?

È ovvio che c’è un problema anche dentro al Partito Democratico, che per altro è ancora più incomprensibile quando addirittura Minniti è oggi su una linea differente, tanto che nelle ultime interviste ha definito “inapplicabile” quella politica che ha disegnato e concepito nelle ultime interviste. Siamo di fronte a un accanimento incomprensibile da parte della maggioranza e quindi anche del Pd. Questo atteggiamento è figlio della difficoltà a misurarsi con con una strategia radicalmente alternativa e della paura di una battaglia difficile. Mettere in discussione radicalmente quell’impianto significa affrontare uno scontro culturale e politico molto duro nel Paese e in Parlamento. Evidentemente spaventa.

Il Movimento 5 Stelle da questo punto di vista è più coerente: quell’impianto lì l’hanno sempre avuto e sono i coestensori dei decreti sicurezza. Io ricordo sempre che il secondo decreto sicurezza fu peggiorato dagli emendamenti del M5S rivendicati da Di Maio. Loro sono in continuità. È mancata la volontà del PD.

Carmelo Miceli in un’intervista a Il Foglio dice: “Io non ci sto a dire che l’immigrazione non è un problema. E dico anche, con buona pace dei buonisti, che bisogna rimpatriare chi non ha diritto di rimanere in Italia”. Se lo aspettava di sentire la parola “buonisti” usata come roncola da un suo compagno di partito?

Ormai mi aspetto di tutto. Non mi sorprendo più di nulla. Che vada rimpatriato chi non ha diritto mi pare un’evidenza. Il problema è se l’Italia sia in grado di garantire salvataggio nel Mediterraneo, accoglienza dignitosa e un percorso di integrazione. Di questo stiamo parlando: rinunciamo a salvare, paghiamo la Libia per respingimenti che sono illegali, nel momento in cui qualcuno arriva non siamo in grado di gestire l’accoglienza. In queste ore la ministra degli Interni continua a fare dichiarazioni ma non fa la ministra degli Interni: noi siamo di fronte a flussi ampiamente gestibili che diventano un’emergenza perché non c’è un piano.

Che gli sbarchi aumentino d’estate è così da sempre e di solito si dispone un meccanismo adeguato, non si chiudono 600 persone in un tendone sotto al sole in un posto che ne dovrebbe ospitare solo cento. Non è questo il modo. Caricare la pressione solo su alcune comunità locali non è una soluzione. Noi dovremo essere in grado di organizzarci, vedere chi ha diritto di restare e chi no e mettere in campo un processo di integrazione e invece tutto questo è stato smontato in larga parte dai decreti sicurezza e non c’è stato nessun tentativo di ricostruire un meccanismo complessivo.

Ma come può cambiare la linea del PD? Con la vittoria di una corrente interna, visto che la pressione degli elettori non sembra funzionare?

Io penso che servano entrambe le cose: deve crescere una battaglia interna nel Pd che si deve incrociare con una mobilitazione nel Paese. È chiaro che noi abbiamo perso. Il voto sulla Guardia Costiera libica è una sconfitta. L’assemblea del PD aveva votato contro il rifinanziamento e questa decisione non è stata rispettata: abbiamo anche un serio problema di democrazia interna.

Se Orfini potesse cosa cambierebbe, subito?

Intanto abrogherei le norme che ci sono. Dobbiamo abrogare (e non modificare) i decreti sicurezza, abrogare la Bossi-Fini e ricostruire da un punto di vista complessivo le norme che gestiscono i flussi migratori e che aprono canali legali. Poi abbiamo bisogno di una politica differente dall’altra parte del Mediterraneo che smonti quel meccanismo di sostegno ai respingimenti illegali e che ripristini ciò che accadeva con Mare Nostrum: ricerca e salvataggio di concerto con le Ong e le navi della Marina e della Guardia Costiera.

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Caso Regeni: l’Egitto ci prende in giro e il governo fa finta di niente

Ma cosa deve succedere ancora? L’Egitto deve bombardarci? Devono mandarci un figurante che finge di essere Giulio Regeni e fa “ciao ciao” con la manina in un video finto mandato in mondovisione? Devono accusare di terrorismo i magistrati romani? Devono raccontarci che il giovane ragazzo italiano è stato rapito dagli alieni e ucciso in una battaglia interstellare? Cosa deve succedere ancora perché uno, uno solo, uno qualsiasi degli esponenti del governo, cominci a alzare la voce e prendere un provvedimento che sia uno, uno solo, che non passi dalla vendita tutta compiaciuta di armi e navi?

Ieri i magistrati egiziani, dopo più di un anno, si sono presentati in videoconferenza ai magistrati italiani che indagano sul barbaro omicidio di Giulio Regeni e sono riusciti a non dare mezza risposta che sia mezza alle richieste. Dopo 14 mesi, non c’è nemmeno l’elezione del domicilio dei cinque indagati, tutti appartenenti ai servizi di sicurezza egiziana. E non solo: il procuratore egiziano Hamada Elsawy ha avuto anche l’ardire di chiedere (lui a noi) cosa ci facesse Regeni in Egitto, quasi alla ricerca di una giustificazione di quel massacro.

Addirittura la Procura egiziana emette un comunicato in cui sostiene che “Roma toccherà con mano la nostra trasparenza“, fingendo di non sapere che proprio alcuni giorni fa la famosa trasparenza egiziana ha inviato dei presunti effetti personali di Giulio Regeni che si sono rivelati falsi.

I genitori di Giulio, logorati da uno stillicidio continuo dal giorno della morte del figlio, hanno criticato l’atteggiamento egiziano “dopo quattro anni e mezzo dall’uccisione di Giulio e senza che nessuna indagine sugli assassini e sui loro mandanti sia stata seriamente svolta al Cairo”. E criticano ancora una volta il governo italiano per la sua linea della “condiscendenza”, del “stringere mani” e del “fare affari con l’Egitto”.

Perfino il presidente della Commissione d’inchiesta per la morte di Regeni, Erasmo Palazzotto, dice che “non abbiamo motivo di essere fiduciosi perché fino ad ora da parte egiziana sono arrivati soltanto tentativi di depistaggio e di coprire la verità”.

I genitori chiedono il ritiro dell’ambasciatore, il governo dice che ci pensa, una cosa è certa: a Giulio hanno massacrato la faccia, ma il governo italiano sembra volere fare tutto quello che serve per perderla. In tutto questo Patrick Zaky è prigioniero da 140 giorni, in attesa di un processo, mentre l’Italia fa finta di nulla. Quando finisce la pazienza?

Leggi anche: 1. I genitori di Giulio Regeni: “Un fallimento l’incontro tra pm italiani ed egiziani” / 2. Palazzotto a TPI: “Siamo in ritardo, ma vogliamo sapere la verità” / 3. Conte in audizione alla Commissione Regeni: “Da Al Sisi disponibilità, ora aspettiamo i fatti” / 4. L’Egitto acquista 2 navi militari italiane e tappa la bocca all’Italia sul caso Regeni

L’articolo proviene da TPI.it qui

La lezione di Antonella

Come si sente una giovane ricercatrice che riceve sgradite attenzioni sessuali dal suo capo: lo racconta con coraggio l’immunologa Antonella Viola

Uno dei più famosi genetisti del mondo, Pier Paolo Pandolfi, è stato cacciato da Harvard («sono io che me ne sono andato», dice lui) perché accusato di molestie da una giovane ricercatrice. Badate bene: Pandolfi non ha negato le attenzioni ma ha parlato di «uno scambio romantico che si è protratto per due, tre mesi». Che sia stato romantico ovviamente l’ha deciso, unilateralmente, lui. Chiaro.

Il Vimm di Padova (l’istituto veneto di medicina molecolare) decide di assumere Pandolfi ma il comitato scientifico dell’istituto decide di dimettersi in massa. Nessun riferimento alle molestie, ma chiedono di annullare la nomina per “evitare un grande scandalo” che potrebbe causare “un grave danno alla reputazione del Vimm ma anche dell’Università di Padova”.

Intanto Pandolfi parla di “sbandata romantica”, dice di essersi sbagliato e si scusa. L’immunologa Antonella Viola decide di prendere carta e penna e di scrivere al Corriere della Sera una lettera di grande coraggio perché c’è dentro un pezzo di vita, forte come sono forti tutte le esperienze autentiche. Scrive Antonella Viola:

«In una società civile un datore di lavoro non può concedersi una ‘sbandata’ per una dipendente e tempestarla di messaggi, seppur di natura romantica. Sembra incredibile doverlo spiegare, ma a quanto pare c’è chi è interessato a derubricare le molestie sessuali in sogno romantico non corrisposto. Proviamo quindi a immaginare come si possa sentire una giovane donna, fresca di studi, piena di entusiasmo per la ricerca, disposta a lasciare il suo Paese e i suoi affetti per inseguire il sogno della scienza in uno dei migliori laboratori al mondo, che comincia a ricevere le sgradite attenzioni sessuali da parte del suo capo. Non riuscite a immedesimarvi? Ve lo racconto io.
Prima di tutto parte un profondo senso di umiliazione per essere ridotta a uno stereotipo sessuale dalla persona a cui avevi affidato la tua crescita professionale. Il tuo mentore è colui al quale ti affidi completamente e il suo giudizio è la cosa più importante al mondo: lui ti sta dicendo che ti vede come una preda, non vede altro. Immediatamente dopo scatta la paura: tranne pochi casi di uomini davvero fisicamente molesti o pericolosi, la paura che ti assale non riguarda il tuo corpo ma il tuo futuro. Il pensiero ovvio in questi casi è: cosa sarà di me se dico di no? Sono libera di rifiutare le sue attenzioni? Come cambieranno da questo momento i nostri rapporti? Mi manderà via dal laboratorio? Mi affiderà un progetto scadente? Finisce qui la mia carriera? E sì, molte carriere finiscono proprio lì…
A volte perché il molestatore inizia a ricattare la vittima, altre perché davvero da quel momento la estromette dall’attività del laboratorio, o a volte perché il trauma subito è troppo forte per riprendersi e ritrovare l’entusiasmo necessario per fare il nostro lavoro. È un altro dei grandi problemi che noi donne affrontiamo e che minano regolarmente la nostra produttività e carriera.
Chi non l’ha vissuto non può immaginare il dolore, la vergogna, la paura, le notti insonni e le lacrime versate mentre ci si sente paralizzate e incapaci di trovare una via d’uscita. Non lo auguro a nessuno e, nel ruolo che adesso ho nella ricerca italiana, farò sempre di tutto per evitare che altre donne possano vivere una situazione così dolorosa. Non so come la ricercatrice in questione ne verrà fuori. Io ne sono uscita andando via, lasciando il laboratorio per ricominciare altrove, aggrappandomi a quella che per me non è mai stata una sbandata ma un vero amore: la scienza fatta di passione, integrità e rispetto delle regole».

Ed è una lezione limpida, cristallina di cui essere grati.

Buon martedì.

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I lavoratori pagano, i manager incassano

Sotto la guida di Bonomi, Confindustria si è lanciata in uno scontro con il governo per ottenere un posto riservato agli industriali al banchetto dei miliardi che arriveranno dall’Europa per il coronavirus. È la stessa associazione che critica lo strumento della cassa integrazione e poi “mette” in cassa i giornalisti del Sole24ore

Arriveranno soldi, molti soldi, su questo non ci sono grandi dubbi: sono almeno 172 miliardi dall’Europa oltre i 36 miliardi del fondo salva Stati Mes che potranno essere usati per la sanità e che il governo italiano, nonostante le enormi fibrillazioni nella maggioranza, sembra intenzionato a richiedere. Ciò che sembra sfuggire a molti commentatori politici è che in Italia si vedranno cifre che sarebbe stato folle anche solo immaginare prima della pandemia e ogni volta che all’orizzonte si intravede il denaro le lobby, dalle più fameliche alle più ostinate, si preparano a aprire le fauci per ingerire la propria fetta.

All’odore dei soldi si è mossa subito la nuova Confindustria di Carlo Bonomi, quello che non ha nemmeno fatto raffreddare il festeggiamento per la sua elezione e si è già lanciato in uno scontro a muso duro con Giuseppe Conte e il suo governo per chiedere che Confindustria possa avere il suo lauto posto riservato per il prossimo banchetto.

Curiosa la storia del capo di Confindustria: colui che dovrebbe rappresentare tutti gli imprenditori d’Italia, e che quindi dovrebbe presumibilmente esserne un fulgido esempio, è a capo di una piccola azienda biomedica che fattura qualcosa come due milioni di euro all’anno, una miseria nel panorama imprenditoriale italiano che già di suo non eccede nelle dimensioni medie. Ma Bonomi è stato scelto per fare la parte del cattivo e lui ha preso molto sul serio il copione eccedendo perfino nella sua libertà lessicale: giusto qualche giorno fa ha dato lezioni di diritto costituzionale lanciando l’idea di una nuova democrazia che ha chiamato «negoziale» auspicando «una grande alleanza pubblico-privato» in cui «il decisore politico non ha delega insindacabile per mandato elettorale» ma dialoga «incessantemente attraverso le rappresentanze del mondo dell’impresa, del lavoro, delle professioni, del Terzo settore, della ricerca e della cultura».

Letta di primo acchito potrebbe anche sembrare avere un senso se non fosse che…

L’inchiesta prosegue su Left in edicola dal 26 giugno

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