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riforma del fisco

Il passaggio parlamentare

Si potrebbe partire da quella relazione che già a ottobre alla Camera definiva «indispensabile» che «le camere siano coinvolte nell’intero iter della predisposizione del Pnrr». Il governo, che era un altro governo, aveva riconosciuto essenziale il «coinvolgimento di tutto l’arco parlamentare». Anche in Senato si era deciso di impegnare il governo perché «le camere siano parte attiva, coinvolte in modo vincolante, nella fase di individuazione e scelta dei progetti». Sui giornali era stato lo stesso: tutte le forze politiche, fin dall’inizio del percorso, hanno rilasciato decine di interviste in cui chiedevano un dibattito ampio e trasparente. Qualche forza politica, non vi sarà difficile ricordarlo, aveva indicato nell’opacità della discussione del Pnrr un buon motivo per fare cadere il governo.

L’ultimo monito è di poco fa, del 31 marzo: il Senato aveva «ribadito l’esigenza di un successivo passaggio parlamentare che riguardi la versione definitiva del piano, evidenziando quali indicazioni del parlamento siano state recepite dal governo».

Il passaggio parlamentare è avvenuto ieri 72 ore prima che il piano venga consegnato in Europa. Mario Draghi l’ha illustrato disinfettando la politica e provando a restare sui numeri, così come gli viene benissimo, raccontando cosa vorrebbe fare: «Sono certo che riusciremo ad attuare questo piano, sono certo che l’onestà, l’intelligenza e il gusto del futuro prevarranno sulla corruzione, la stupidità e gli interessi costituiti», ha detto in chiusura del suo intervento. I parlamentari hanno ricevuto le 270 pagine alle 13.57 in Senato e a alle 14.00 alla Camera. Oggi voteranno un sì che ha la stessa matrice di tutto questo governo: una delega quasi totale alla figura di Draghi che è ispirazione, certificazione, garanzia, controllo.

I partiti che si credono più furbi, quelli che sono sempre sul limite della campagna elettorale, sanno benissimo che questa è un’occasione: potranno dire di non avere avuto modo e tempo di approfondire, potranno lamentarsi poi dei vincoli che l’Europa mette sulla spesa fingendo di dimenticarsi di averli votati. C’è già la propaganda scritta, è un copione ben noto.

«Devo ringraziare questo Parlamento per l’impulso politico che anima tutto il piano», ha detto ieri Draghi e alla Camera si è alzato un brusio, tutti a chiedersi esattamente cosa sia “l’impulso politico” e quali responsabilità possa comportare in futuro. Qualcuno dice che è stato deciso “cosa fare” ma ora rimane da decidere “il come”: sembra la giustificazione di un Parlamento che è diventato socio di minoranza, con diritto di ratifica in consiglio di amministrazione. Qualcuno fa notare che manca una seria riforma del fisco (che sta nel cassetto delle “varie e eventuali”), del mercato del lavoro, della sanità pubblica (con quei Livelli essenziali di assistenza di cui si parla da 20 anni e che non si realizzano mai) e che alle imprese vanno quasi 50 miliardi di euro mentre alle politiche per il lavoro vanno solo 6,6 miliardi.

Ma non è il tempo di discutere, ora, dicono, ora c’è da votare sì. Ora il passaggio parlamentare. Poi si vedrà.

Buon martedì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Si chiamerebbe opposizione, mica gufi.

Luigi Ferrarella scrive sul Corriere un articolo condivisibile che rimarca (tra le altre cose) il ruolo del giornalismo e dell’opposizione: vigilare su errori (o sviste?) gravi come questa:

Al supermercato c’è la tracciabilità del cotechino e si può sapere tutto della filiera di provenienza di un kiwi: nei Consigli dei ministri del governo di Matteo Renzi, invece, sembra difettare la tracciabilità delle norme «orfane» o «desaparecide». Soprattutto nei decreti legislativi, dove deleghe troppo generiche ed estese conferiscono all’esecutivo un potere sottratto a un effettivo controllo parlamentare, persino superiore a quello dei già troppo abusati decreti legge. Sempre più spesso nelle sedute di governo non si capisce chi e perché faccia sparire in uscita norme che in entrata c’erano; o chi invece infili e faccia votare a distratti ministri norme che in entrata non c’erano, e che all’uscita nessuno più nel governo sembra riconoscere o addirittura conoscere.

È successo già tre volte solo nell’ultimo mese. Sull’applicabilità o meno della licenziabilità del Jobs act ai dipendenti pubblici si sono visti un influente senatore (Ichino) affermare che in Consiglio dei ministri fosse entrata una norma poi depennata, due ministri (Madia e Poletti) smentirlo e assicurare che mai vi fosse stata una norma del genere, e infine il premier ammettere che sì, insomma, la norma c’era ma era poi stata tolta in vista di un altro più coerente contenitore legislativo.
Pochi giorni prima, quando il governo aveva (per ora solo) annunciato una già striminzita legge anticorruzione, in Consiglio dei ministri era entrata, ma misteriosamente non era più uscita per mano di non si sa chi, una norma premiale per il primo tra corrotto e corruttore che spezzasse il vincolo d’omertà e denunciasse il complice. E adesso, dopo due casi di norme «desaparecide», eccone uno di legge «orfana»: cinque parole che, nell’attuazione delle delega sui reati fiscali, alla vigilia di Natale paracadutano una inedita «clausola di non punibilità» che, per una serie di rimbalzi procedurali, di sponda avrebbe l’effetto finale di dare a Berlusconi la chance di chiedere la revoca della condanna definitiva per frode fiscale sui diritti tv Mediaset e ritornare alla politica sinora preclusagli da quella legge Severino che come presupposto ha appunto l’esistenza di una condanna definitiva.
Ora Renzi, che in conferenza stampa aveva magnificato il decreto legislativo sorvolando su questa norma, nel più classico degli schemi lideristici annuncia, quasi parlasse di un meteorite piovuto chissà da quale galassia, che lo fermerà e farà riesaminare in un nuovo Cdm.

Sarà interessante vedere come, giacché il dichiarato intento governativo – un fisco amichevole che non usi più il bastone penale su chi tutte le tasse non paga non perché voglia evaderle ma perché non ce la fa per la crisi – pareva già ampiamente (anche troppo) soddisfatto dalle modifiche che nelle singole fattispecie di reati fiscali rendono non punibili la «dichiarazione infedele» fino a 150.000 euro, l’«omessa dichiarazione» fino a 50.000 euro, la «dichiarazione fraudolenta mediante artifici» fino a 30.000 euro di imposta evasa e 1 milione e mezzo di imponibile sottratto al fisco o 5 per cento di elementi attivi indicati, e la «dichiarazione fraudolenta mediante fatture per operazioni inesistenti» fino a 1.000 euro l’anno.
Ecco perché ora non può finire solo con il ritiro dell’articolo 19-bis, ibrida «clausola di non punibilità» che, «per tutti i reati del presente decreto», metteva al riparo chi evade in una modica quantità (come la droga) stabilita in un per nulla modico 3% dell’imponibile dichiarato. Clausola che nel passato calza a pennello alla sentenza di Berlusconi, e che per il futuro equivale tra l’altro anche ad autorizzare (e quasi incentivare) una media-grande impresa, ad esempio da 50 milioni di imponibile, ad accantonare impunemente un milione e mezzo di «fondi neri» utilizzabili per alimentare poi tangenti.

Delle due l’una: o Palazzo Chigi sapeva bene cosa stesse approvando e allora non si capisce perché oggi Renzi faccia precipitosa marcia indietro; oppure non lo sapeva, e allora c’è da preoccuparsi. Come antidoto alla tossicità di questo procedere opaco di legiferare, infatti, un governo che non lesina tweet fatui, e proclama trasparenza online sul buongoverno.it , dovrebbe anche rendere pubblico quali ministri o burocrati o consulenti hanno scritto o interpolato o veicolato quell’articolo 19-bis; quali motivazioni, magari serie, lo argomentavano; chi e dove e quando ha valutato i pro e contro della norma; quali posizioni hanno assunto sul punto i ministri più interessati (Economia, Giustizia, Rapporti col Parlamento, presidenza del Consiglio).
Perché si può fare tutto, anche depenalizzare questo o quel reato, magari pure con benefici indiretti per questo o quel soggetto: ma alla luce del sole, con trasparenza dei percorsi e consapevolezza dei risultati. Per migliorare i quali, forse, ogni tanto non guasterebbe qualche sfottuto «professorone» in più, e qualche fedele ma incompetente in meno.

Non rompete le palle, lo ritiro

Dice Renzi che adesso dovete smetterla, che la riforma del fisco torna in Consiglio dei Ministri e sarà corretta.

Dice la renziana Bonafè che adesso dobbiamo smetterla, che “Le leggi ad personam riguardano lo scorso ventennio. Questo governo si occupa di tutti i cittadini. La prova sta nel ritiro”.

Dice Berlusconi che proprio non ce la facciamo a metterlo in mezzo ogni volta. Proprio mentre stava incitando il Milan e Cerci.

Dice il sottosegretario Faraone: “Il nostro governo fa norme che rispondono all’interesse dei cittadini. Di tutti i cittadini. Né norme ad personam né norme contra personam. Di tutto abbiamo bisogno tranne che dell’ennesimo dibattito sul futuro di un cittadino, specie in un momento come questo dove qualcuno teorizza strampalate ipotesi di scambi politici-giudiziari, anche alla luce del delicato momento istituzionale che il Paese si appresta a vivere”.

Nessuno dice “scusate abbiamo sbagliato”, nessuno. Siamo stronzi noi che l’abbiamo notato. E mentre noi puntiamo il dito non ci accorgiamo delle cose che contano: dei viadotti che cadono o i vigili che (forse, a sentire loro) fannulleggiano. Perché su questo Renzi non transige, eh: la pagheranno cara, la pagheranno tutti. Invece.

(Scritto per “scassare la minchia” su L’Espresso, qui)