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riforma

Ma la credibilità è un fatto

(scritto per i quaderni di Possibile qui)

Ci vuole un gran fegato nel proporre una riforma costituzionale: significa essere convinti di avere lo spessore politico e morale di impugnare la penna in un testo che è costato sangue e richiede la convinzione di essere legittimati a un’operazione che avrebbe il dovere di unire un Paese che è sempre più diviso, crepato finanche nelle istituzioni e rabbioso. Questo non significa che la Costituzione sia sacra, no: la Carta Costituzionale è la legge madre delle leggi dello Stato e in quanto tale può essere migliorata. Di più: deve essere migliorata poiché il compito della politica, quella vera, è di alimentare e sintetizzare un continuo dibattito che tenda al meglio, alla limatura continua al passo dei tempi e delle esigenze.

La contrapposizione tra riformisti e conservatori nel prossimo referendum sulla riforma costituzionale Renzi – Boschi è un falso: qui c’è uno schieramento innamorato del feticcio del cambiamento per il cambiamento da una parte e chi invece crede che sia meglio il niente (ora, così) piuttosto che un “peggio di niente”. Poi di contorno ci sono di resto coloro che cavalcano il referendum per zuffe di partito o per spodestare il governo di turno ma questi ora non ci interessano.

Però nel minestrone del populismo e della strumentalizzazione la credibilità non c’entra. La credibilità di chi propone questa riforma è un fatto politico. La compagine di chi ha tessuto le trame di questa proposta di riforma (oltre che il modo) è un elemento caratterizzante e indicativo: in una democrazia parlamentare così tanto interferita dall’Europa finanziaria, un governo non è legittimato semplicemente dai banchi che si trova ad occupare. Troppo facile, no. Se una maggioranza si propone come elemento riformatore (se non addirittura stravolgente) in tema di Costituzione ha il dovere di farsi giudicare nella sua composizione.

Renzi e Verdini (ma anche Alfano ministro dell’Interno e la Pinotti ministra della guerra e la Lorenzin ministra alla riproduzione) sono connotazioni importanti: è la differenza tra chi vota no alla riforma “come” e questi che scrivono la riforma “con”. Per questo non dobbiamo avere remore nel giudicare la credibilità di questa strampalata ciurma: la credibilità è un fatto. Di merito. E va discussa dappertutto: nei banchetti, negli incontri, casa per casa.

Nel merito. Ecco perché con questa riforma il Parlamento diventa subalterno.

(intervista a Massimo Villone,  costituzionalista)

Roma. È da tempo che le Camere cercano di introdurre nei regolamenti la corsia preferenziale per i ddl più importanti del governo. Con la riforma la novità entra direttamente in Costituzione. Non le sembra positivo professor Massimo Villone?

«No. Mettere in Costituzione il voto a data certa per le leggi consegna al governo in via permanente il controllo dell’ agenda e dei lavori parlamentari, rendendo il Parlamento subalterno, per di più quando se ne riduce la rappresentatività con un Senato non elettivo. Inoltre, crea una rigidità che riduce la capacità del Parlamento di rimanere aderente al sistema politico».

Il voto a data certa dovrebbe ridurre la necessità di decreti e fiducie, strumenti molto abusati finora dagli esecutivi. Non è la mossa giusta?

«No. Si evitano forse decreti e fiducie, ma si mette la mordacchia al Parlamento in altro modo. Una legge pur contestata come il Lodo Alfano sull’ immunità per i potenti, è stata approvata in tre settimane tra Camera e Senato. Senza bisogno del voto a data certa che, paradossalmente avrebbe chiesto tempi maggiori. Oggi un governo con una maggioranza coesa può senza dubbio dettare scelte e tempi. Ma con il voto a data certa si vuole normalizzare la maggioranza di governo, marginalizzando il dissenso. In parallelo, con la clausola di supremazia nel Titolo V si normalizzano le comunità locali. È la “democrazia decidente” del Sì».

Al Senato assemblea e commissioni non dovranno più rispecchiare la proporzione dei gruppi parlamentari. Come si articolerà Palazzo Madama?

«I consigli regionali sono eletti con sistemi maggioritari. Assegneranno i senatori in prevalenza alle forze vincenti nel territorio, spesso con l’ apporto di liste locali o civiche di ambigua identità politica. I senatori non avranno vincolo di mandato, diversamente dal Bundesrat tedesco. Avranno invece le prerogative dei parlamentari per arresti, perquisizioni, intercettazioni. Nella migliore delle ipotesi, una simile assemblea sarà luogo di interessi particolari e di egoismi territoriali».

(Repubblica, 19 Ottobre 2016)

Perché no. Nel merito.

Di fronte alla prospettiva che la legge costituzionale di riforma della Costituzione sia sottoposta a referendum nel prossimo autunno, i sottoscritti, docenti, studiosi e studiose di diritto costituzionale, ritengono doveroso esprimere alcune valutazioni critiche. Non siamo fra coloro che indicano questa riforma come l’anticamera di uno stravolgimento totale dei principi della nostra Costituzione e di una sorta di nuovo autoritarismo.

Siamo però preoccupati che un processo di riforma, pur originato da condivisibili intenti di miglioramento della funzionalità delle nostre istituzioni, si sia tradotto infine, per i contenuti ad esso dati e per le modalità del suo esame e della sua approvazione parlamentare, nonché della sua presentazione al pubblico in vista del voto popolare, in una potenziale fonte di nuove disfunzioni del sistema istituzionale e nell’appannamento di alcuni dei criteri portanti dell’impianto e dello spirito della Costituzione.

1. Siamo anzitutto preoccupati per il fatto che il testo della riforma – ascritto ad una iniziativa del Governo – si presenti ora come risultato raggiunto da una maggioranza (peraltro variabile e ondeggiante) prevalsa nel voto parlamentare (“abbiamo i numeri”) anziché come frutto di un consenso maturato fra le forze politiche; e che ora addirittura la sua approvazione referendaria sia presentata agli elettori come decisione determinante ai fini della permanenza o meno in carica di un Governo. La Costituzione, e così la sua riforma, sono e debbono essere patrimonio comune il più possibile condiviso, non espressione di un indirizzo di governo e risultato del prevalere contingente di alcune forze politiche su altre. La Costituzione non è una legge qualsiasi, che persegue obiettivi politici contingenti, legittimamente voluti dalla maggioranza del momento, ma esprime le basi comuni della convivenza civile e politica. E’ indubbiamente un prodotto “politico”, ma non della politica contingente, basata sullo scontro senza quartiere fra maggioranza e opposizioni del momento. Ecco perché anche il modo in cui si giunge ad una riforma investe la stessa “credibilità” della Carta costituzionale e quindi la sua efficacia. Già nel 2001 la riforma del titolo V, approvata in Parlamento con una ristretta maggioranza, e pur avallata dal successivo referendum, è stato un errore da molte parti riconosciuto, e si è dimostrata più fonte di conflitti che di reale miglioramento delle istituzioni.

2. Nel merito, riteniamo che l’obiettivo, pur largamente condiviso e condivisibile, di un superamento del cosiddetto bicameralismo perfetto (al quale peraltro sarebbe improprio addebitare la causa principale delle disfunzioni osservate nel nostro sistema istituzionale), e dell’attribuzione alla sola Camera dei deputati del compito di dare o revocare la fiducia al Governo, sia stato perseguito in modo incoerente e sbagliato. Invece di dare vita ad una seconda Camera che sia reale espressione delle istituzioni regionali, dotata dei poteri necessari per realizzare un vero dialogo e confronto fra rappresentanza nazionale e rappresentanze regionali sui temi che le coinvolgono, si è configurato un Senato estremamente indebolito, privo delle funzioni essenziali per realizzare un vero regionalismo cooperativo: esso non avrebbe infatti poteri effettivi nell’approvazione di molte delle leggi più rilevanti per l’assetto regionalistico, né funzioni che ne facciano un valido strumento di concertazione fra Stato e Regioni. In esso non si esprimerebbero le Regioni in quanto tali, ma rappresentanze locali inevitabilmente articolate in base ad appartenenze politico-partitiche (alcuni consiglieri regionali eletti – con modalità rinviate peraltro in parte alla legge ordinaria – anche come senatori, che sommerebbero i due ruoli, e in Senato voterebbero ciascuno secondo scelte individuali). Ciò peraltro senza nemmeno riequilibrare dal punto di vista numerico le componenti del Parlamento in seduta comune, che è chiamato ad eleggere organi di garanzia come il Presidente della Repubblica e una parte dell’organo di governo della magistratura: così che queste delicate scelte rischierebbero di ricadere anch’esse nella sfera di influenza dominante del Governo attraverso il controllo della propria maggioranza, specie se il sistema di elezione della Camera fosse improntato (come lo è secondo la legge da poco approvata) a un forte effetto maggioritario.

3. Ulteriore effetto secondario negativo di questa riforma del bicameralismo appare la configurazione di una pluralità di procedimenti legislativi differenziati a seconda delle diverse modalità di intervento del nuovo Senato (leggi bicamerali, leggi monocamerali ma con possibilità di emendamenti da parte del Senato, differenziate a seconda che tali emendamenti possano essere respinti dalla Camera a maggioranza semplice o a maggioranza assoluta), con rischi di incertezze e conflitti.

4. L’assetto regionale della Repubblica uscirebbe da questa riforma fortemente indebolito attraverso un riparto di competenze che alle Regioni toglierebbe quasi ogni spazio di competenza legislativa, facendone organismi privi di reale autonomia, e senza garantire adeguatamente i loro poteri e le loro responsabilità anche sul piano finanziario e fiscale (mentre si lascia intatto l’ordinamento delle sole Regioni speciali). Il dichiarato intento di ridurre il contenzioso fra Stato e Regioni viene contraddetto perché non si è preso atto che le radici del contenzioso medesimo non si trovano nei criteri di ripartizione delle competenze per materia – che non possono mai essere separate con un taglio netto – ma piuttosto nella mancanza di una coerente legislazione statale di attuazione: senza dire che il progetto da un lato pretende di eliminare le competenze concorrenti, dall’altro definisce in molte materie una competenza “esclusiva” dello Stato riferita però, ambiguamente, alle sole “disposizioni generali e comuni”. Si è rinunciato a costruire strumenti efficienti di cooperazione fra centro e periferia. Invece di limitarsi a correggere alcuni specifici errori della riforma del 2001, promuovendone una migliore attuazione, il nuovo progetto tende sostanzialmente, a soli quindici anni di distanza, a rovesciarne l’impostazione, assumendo obiettivi non solo diversi ma opposti a quelli allora perseguiti di rafforzamento del sistema delle autonomie.

5. Il progetto è mosso anche dal dichiarato intento (espresso addirittura nel titolo della legge) di contenere i costi di funzionamento delle istituzioni. Ma il buon funzionamento delle istituzioni non è prima di tutto un problema di costi legati al numero di persone investite di cariche pubbliche (costi sui quali invece è giusto intervenire, come solo in parte si è fatto finora, attraverso la legislazione ordinaria), bensì di equilibrio fra organi diversi, e di potenziamento, non di indebolimento, delle rappresentanze elettive. Limitare il numero di senatori a meno di un sesto di quello dei deputati; sopprimere tutte le Province, anche nelle Regioni più grandi, e costruire le Città metropolitane come enti eletti in secondo grado, anziché rivedere e razionalizzare le dimensioni territoriali di tutti gli enti in cui si articola la Repubblica; non prevedere i modi in cui garantire sedi di necessario confronto fra istituzioni politiche e rappresentanze sociali dopo la soppressione del CNEL: questi non sono modi adeguati per garantire  la ricchezza e la vitalità del tessuto democratico del paese, e sembrano invece un modo per strizzare l’occhio alle posizioni tese a sfiduciare le forme della politica intesa come luogo di partecipazione dei cittadini all’esercizio dei poteri.

6. Sarebbe ingiusto disconoscere che nel progetto vi siano anche previsioni normative che meritano di essere guardate con favore: tali la restrizione del potere del Governo di adottare decreti legge, e la contestuale previsione di tempi certi per il voto della Camera sui progetti del Governo che ne caratterizzano l’indirizzo politico; la previsione (che peraltro in alcuni di noi suscita perplessità) della possibilità di sottoporre in via preventiva alla Corte costituzionale le leggi elettorali, così che non si rischi di andare a votare (come è successo nel 2008 e nel 2013) sulla base di una legge incostituzionale; la promessa di una nuova legge costituzionale (rinviata peraltro ad un indeterminato futuro) che preveda referendum propositivi e di indirizzo e altre forme di consultazione popolare.

7. Tuttavia questi aspetti positivi non sono tali da compensare gli aspetti critici di cui si è detto.

Inoltre, se il referendum fosse indetto – come oggi si prevede – su un unico quesito, di approvazione o no dell’intera riforma, l’elettore sarebbe costretto ad un voto unico, su un testo non omogeneo, facendo prevalere, in un senso o nell’altro, ragioni “politiche” estranee al merito della legge. Diversamente avverrebbe se si desse la possibilità di votare separatamente sui singoli grandi temi in esso affrontati (così come se si fosse scomposta la riforma in più progetti, approvati dal Parlamento separatamente).

Per tutti i motivi esposti, pur essendo noi convinti dell’opportunità di interventi riformatori che investano l’attuale bicameralismo e i rapporti fra Stato e Regioni, l’orientamento che esprimiamo è contrario, nel merito, a questo testo di riforma.

22, aprile 2016

 

LE FIRME 

Francesco AMIRANTE Magistrato

Vittorio ANGIOLINI Università di Milano Statale

Luca ANTONINI Università di Padova

Antonio BALDASSARRE Università LUISS di Roma

Sergio BARTOLE Università di Trieste

Ernesto BETTINELLI Università di Pavia

Franco BILE Magistrato

Paolo CARETTI Università di Firenze

Lorenza CARLASSARE Università di Padova

Francesco Paolo CASAVOLA Università di Napoli Federico II

Enzo CHELI Università di Firenze

Riccardo CHIEPPA Magistrato

Cecilia CORSI Università di Firenze

Antonio D’ANDREA Università di Brescia

Ugo DE SIERVO Università di Firenze

Mario DOGLIANI Università di Torino

Gianmaria FLICK Università LUISS di Roma

Franco GALLO Università LUISS di Roma

Silvio  GAMBINO Università della Calabria

Mario GORLANI Università di Brescia

Stefano GRASSI Università di Firenze

Enrico GROSSO Università di Torino

Riccardo GUASTINI Università di Genova

Giovanni GUIGLIA Università di Verona

Fulco LANCHESTER  Università di Roma La Sapienza

Sergio LARICCIA  Università di Roma La Sapienza

Donatella LOPRIENO Università della Calabria

Joerg LUTHER Università Piemonte orientale

Paolo MADDALENA Magistrato

Maurizio MALO Università di Padova

Andrea MANZELLA Università LUISS di Roma

Anna MARZANATI Università di Milano Bicocca

Luigi MAZZELLA Avvocato dello Stato

Alessandro MAZZITELLI Università della Calabria

Stefano MERLINI Università di Firenze

Costantino MURGIA Università di Cagliari

Guido NEPPI MODONA Università di Torino

Walter NOCITO Università della Calabria

Valerio ONIDA Università di Milano Statale

Saulle PANIZZA Università di Pisa

Maurizio PEDRAZZA GORLERO  Università di Verona

Barbara PEZZINI Università di Bergamo

Alfonso QUARANTA Magistrato

Saverio REGASTO Università di Brescia

Giancarlo ROLLA  Università di Genova

Roberto ROMBOLI Università di Pisa

Claudio ROSSANO Università di Roma La Sapienza

Fernando SANTOSUOSSO Magistrato

Giovanni TARLI BARBIERI Università di Firenze

Roberto TONIATTI Università di Trento

Romano VACCARELLA Università di Roma La Sapienza

Filippo VARI  Università Europea di Roma

Luigi VENTURA Università di Catanzaro

Maria Paola VIVIANI SCHLEIN Università dell’Insubria

Roberto ZACCARIA Università di Firenze

Gustavo ZAGREBELSKY Università di Torino

Il gigante tra i nani e la “terribile” minoranza del PD

Sì è conclusa la direzione del Partito Democratico in cui Cuperlo, Speranza e Bersani avrebbero dovuto “fargliela vedere” a Renzi adesso che si sono decisi a votare no al prossimo referendum della riforma costituzionale voluta dal governo. Hanno abbaiato sui giornali tutto oggi e tutto ieri per dire che questa volta, questa volta non gliele avrebbero mandate a dire e avrebbero fatto un macello. Mi pregustavo già Cuperlo con l’elmetto e Bersani con il giubbotto chiodato. Ci aspettavamo la resa dei conti come nei migliori film d’azione che avrebbe fatto sbarellare la corte toscana in gita a Roma.

E invece la direzione si è conclusa con zero voti contrari e zero astenuti alla relazione del premier. Giuro. Non ci sono nemmeno le parole per scriverla una cosa del genere. Se Renzi sfavilla (vale per chiunque) guardatevi intorno: l’altezza dei vicini rende bene lo spessore del capo.

Cinque osservazioni sulla riforma costituzionale

Con una lettera a Internazionale alcuni costituzionalisti puntualizzano la ricostruzione della propaganda del sì. Vale la pena leggerla:

Gentile redazione,

da assidui e attenti lettori della vostra rivista ci preme segnalarvi che la ricostruzione in cinque punti della proposta di riforma costituzionale apparsa sul sito di Internazionale il 26 settembre 2016 ci è sembrata lacunosa in merito ad alcuni aspetti, a nostro avviso particolarmente critici, del testo di legge su cui il 4 dicembre saremo chiamati a pronunciarci attraverso il voto referendario.

  1. In generale si trascura di specificare che gli articoli modificati dalla riforma Boschi sono 47, più di un terzo della carta. Dal 1948 a oggi i cambiamenti apportati alla costituzione nel corso degli anni sono stati molto più contenuti, e spesso hanno modificato uno o pochissimi articoli. Per avere un termine di paragone, ricordiamo che la riforma più invasiva che ha riguardato il testo costituzionale, l’infausta modifica del titolo V, ha toccato 17 articoli. Inoltre il parlamento che ha messo mano a una tale riforma è stato eletto con una legge giudicata incostituzionale dalla corte costituzionale (sentenza n. 1 del 2014), la quale ha evidenziato che il legame tra corpo elettorale ed eletto si è alterato profondamente e che un parlamento così slegato dai cittadini avrebbe potuto rimanere in carica solo in virtù del principio della continuità dello stato. Ora, per quanto si voglia dilatare quest’ultimo è davvero arduo farvi rientrare nientemeno che la modifica di quasi un terzo della costituzione.
  2. Al primo punto della ricostruzione si omette che questo nuovo senato (non elettivo e a composizione variabile a seconda della durata dell’incarico dei sindaci e dei consiglieri regionali che ricoprirebbero d’ora in poi la carica di senatori) dovrebbe votare paritariamente insieme alla camera per numerosi tipi di leggi (articolo 70) tra cui quelle costituzionali, quelle che determinano le funzioni fondamentali dei comuni e delle città metropolitane, e che inoltre il nuovo senato eserciterà la sua funzione su ciò che concerne la materia europea (articoli 55 e 80), che riguardano molteplici aspetti della vita di un paese membro.
  3. Ancora, si dimentica di segnalare che con la riforma Boschi il parlamento passerebbe da due possibili procedure legislative a un numero non ancora ben individuato di procedure alternative (secondo alcuni 7, secondo altri 9, secondo altri ancora 10 o 11). Anche questa incertezza sul numero di procedure è di per sé rivelatrice: gli stessi costituzionalisti, infatti, non sono in grado di elaborare un’interpretazione certa e unanime del nuovo testo costituzionale.
  4. Rispetto al titolo V si trascura di ricordare che la riforma in alcuni casi ripartisce in modo ambiguo le materie. Per quanto riguarda, per esempio, il patrimonio culturale (articolo 117) se da un lato la tutela e la valorizzazione sarebbero in capo allo stato, dall’altro la promozione spetterebbe alle regioni, con conseguenti conflitti di competenza davanti alla corte costituzionale onde definire l’incerto confine tra “valorizzazione” e “promozione”. Anche in materia di salute, il ritorno della competenza legislativa in capo allo stato – che tanto ha entusiasmato il mondo della sanità – riguarda solo le “disposizioni generali e comuni per la tutela della salute”, mentre resta alle regioni la competenza in materia di “organizzazione dei servizi sanitari e sociali”, il vero punto debole del sistema da cui discende l’impossibilità di garantire a tutti un uguale diritto alla salute.
  5. Si dimentica di sottolineare che la nuova riforma darebbe al governo il potere (articolo 120) di commissariare gli enti locali per dissesto finanziario (potere che nel 2013 gli era stato negato dalla sentenza n. 219 della corte costituzionale), e quello di poter applicare la cosiddetta “clausola di supremazia” anche rispetto alle materie di competenza regionale (articolo 117). L’impressione generale è che la riforma abbia modificato l’equilibrio dei poteri senza ripensare a un bilanciamento adeguato.

In conclusione, dietro un’apparente semplificazione in nome della “governabilità” a noi sembra si celi il pericolo di un caos istituzionale in cui a restare al comando sia di fatto un solo potere: quello dell’esecutivo. Un rischio accresciuto dal legame tra l’Italicum e la riforma Boschi, che amplifica i suoi perniciosi effetti in termini di concentrazione del potere nel capo del governo e di indebolimento dell’autonomia delle istituzioni di garanzia. Ricordiamo, infine, che osservazioni molto simili a queste sono state mosse da un appello di 56 costituzionalisti (tra cui ben 11 presidenti emeriti della corte).

Da lettori di Internazionale, ci auguriamo che queste puntuali osservazioni trovino spazio nelle vostre pagine.

Salvatore Settis
Tomaso Montanari
Maurizio Viroli
Alessandro Pace
Gianni Ferrara
Gaetano Azzariti
Paolo Maddalena
Massimo Villone
Luigi Ferrajoli
Alberto Lucarelli
Enzo Di Salvatore
Geminello Preterossi

Anna Fava
Anna Falcone
Nicola Capone
Marica Di Pierri
Daniela Palma
Sandro Mezzadra
Luca Nivarra
Maurizio De Stefano
Mario Rusciano
Massimo Angrisano
Antonio Locoteca
Nicola Mandirola
Mirko Canevaro
Gabriella Argnani Viroli
Roberto Passini
Aldo Pappalepore
Giovanni Lamagna
Patrizia Gentilini
Giovanni Malatesta
Paola Lattaro
Paola Gargiulo
Nunzia Di Maria
Giovanna Ferrara
Vincenzo Benessere
Alessandra Caputi
Angelo Genovese
Antonio Locoteca
Wanda D’Alessio
Massimo Amodio
Raffaella Dellitto

 

Una riforma scritta male perché pensa male

Forse non si è accorto, Matteo, di essere riuscito a condensare in una sola frase molti dei problemi di questa riforma che comincia a non piacere anche ai servi più fedeli oltre che agli stessi estensori: una legge scritta male (ancor di più che si tratti di Costituzione) è il viatico perfetto per una libera interpretazione pro domo sua da parte del potente (e soprattutto del prepotente) di turno. Non ci si può permettere del lassismo lessicale nel comporre le linee guida costituzionali semplicemente perché ciò significa demandarne l’interpretazione e il controllo agli organi giuridici che, di questi tempi ovvero in questi ultimi vent’anni, hanno subito una costante opera di delegittimazione.

Chi scrive male pensa male. Vive male. E amministra ancora peggio. Un legislatore confuso e impreciso lascia (più o meno consapevolmente) un largo spazio di applicazione ad una legge. In sostanza le complicazioni in politica (e la storia ce lo insegna) non sono altro che il condono preventivo per ogni tentativo di legittimazione delle cazzate future.

Renzi sostanzialmente ammette di non essere stato chiaro nella riscrittura del documento cardine della nostra democrazia, dell’insostituibile argine a governanti egoisti o malfattori e delle fondamenta della nostra legislazione. È qualcosa da poco? Decidete voi.

(il mio buongiorno per Left continua qui)

Il referendum non si vince con l’istinto

riforma costituzionale di questo governo. L’ho deciso fin dall’inizio per impegnarmi a viso aperto come succede a chi non ha ruolo politico ma sopporta di essere impolitico, peggio ancora apolitico. Sono principalmente contro questa riforma poiché l’occasione di superare il bicameralismo perfetto era troppo importante per svilirla con un Senato che si abolisce per finta e che si farcisce di politici che si votano tra loro, perché non sopporto che il senato diventi un dopolavoro per una categoria che al lavoro sembra proprio poco predisposta di natura; sono contrario alla riforma perché le competenze del (finto) Senato rimarranno moltissime e perché la riforma è scritta talmente male che sarà inevitabile avere una mole di procedure legislative che si bloccheranno troppo spesso per conflitti di attribuzione; viaggio per spiegare che questa brutta riforma a braccetto con quella brutta legge elettorale che è l’Italicum ci sarà una deformata idea di rappresentanza che non mi convince.

Studio, racconto e ascolto le diverse opinioni e ragioni. Mi capita anche (pensa te) di confrontarmi con sostenitori della riforma che si dimostrano preparati e in buona fede. So che sembra incredibile ma tant’è.

E non credo proprio che si possa pensare di girare l’Italia dicendo che questa riforma non va bene perché il nostro istinto primordiale non ama Renzi, la Boschi e le altre facce di questo governo. Attenzione: io non li amo proprio per niente, sia chiaro, ma una riforma costituzionale non merita di essere avversata nello stesso puerile modo in cui è stata proclamata. E quindi no, non sono d’accordo per niente con Grillo quando dice che “basta pensare a chi ha fatto questa riforma per capire che non va bene, anche senza capirla”.

(il mio buongiorno per Left continua qui)

La riforma costituzionale? Il convento dei piccoli potenti.

Salvo Ognibene fiancheggia il nostro Tour RiCostituente con uno scritto che vale la pena leggere:

«Referendum costituzionale, che cosa ci aspetta? Non è un segreto che il presidente del Consiglio e segretario del Partito Democratico abbia deciso di personalizzare un referendum che di privato non ha nulla e che ci riguarda tutti. Anche quelli che voteranno per la prima volta solo tra qualche anno. Ora, lasciando stare da parte propagande e populismi e soffermandoci sul testo della riforma costituzionale “Renzi-Boschi” è innegabile notare quante differenze sono presenti tra l’attuale e il nuovo testo proposto.

Gli inciuci, che non sono iniziati certo ieri, potrebbero aumentare in caso di vittoria del SI a differenza del pensiero del presidente del Consiglio che dice: “se vince il No, sarà il paradiso terrestre degli inciuci”. Rimane la paura di sapere che molte materie potrebbero diventare di potestà statale e tolte alle regioni e ai comuni contrariamente a quanto stabilito in un passato non troppo lontano. La paura di trovarsi dei consiglieri regionali che per sfuggire a qualche processo si vadano a rintanare nel Senato e godere di quella immunità parlamentare tanto abusata. E anche sulla legge elettorale c’è molto da preoccuparsi, in un modo o nell’altro. Per non parlare di quella scelta di evitare le preferenze per eleggere i nuovi parlamentari, con le conseguenze che ne comporta.

Un Senato che in caso di vittoria del SI passerà dai 315 ai 95 seggi di cui 74 riempiti dai consiglieri regionali, 21 dai Sindaci e 5 nominati dal Presidente della Repubblica per 7 anni. Un mandato, quello da espletare a Palazzo Madama, che coinciderebbe con quello degli organi delle istituzioni territoriali dai quali i futuri senatori sono stati eletti. Un doppio mandato, insomma. E se questi devono partecipare alle sedute dell’assemblea e ai lavori delle commissioni come faranno a stare sul territorio? E i Sindaci? Ancora peggio. Un Senato che eliminerà il voto dei cittadini e che, svilito del suo ruolo, potrà essere utilizzato come un rifugio per i referenti politici delle mafie, quando, ovviamente, non verranno inseriti nelle liste per la Camera designate dai partiti.»

(continua qui)

A proposito dell’apertura sulla “Buona Scuola”

Alberto Irone ha incontrato rappresentanti del Governo per discutere della riforma della scuola. Ieri abbiamo letto di “aperture” e “consultazioni”. Ecco cosa scrive Alberto:

Durante l’incontro si sono evidenziate da più parti sia problematiche di metodo: è evidente, infatti, l’eccesso di delega al Governo sul DDL: è necessario stralciare le deleghe in quanto palesemente incostituzionali.

Ai nostri interlocutori “ritardatari” tra le questioni di merito abbiamo sollevato in maniera decisa la necessità di un’alternanza scuola lavoro di qualità fatta di tutele, l’innalzamento dell’obbligo scolastico ai 18 anni come strumento di contrasto all’abbandono scolastico che continua a crescere, l’importanza della rappresentanza studentesca e della valutazione.

L’esito dell’incontro insufficiente, sulla falsa riga delle “consultazioni” tanto sbandierate negli scorsi mesi dal Governo: l’unico punto in cui c’è stata apertura è la parte di riforma sugli organi collegiali.

Il resto è qui.