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Così marcisce Serracchiani

Il buongiorno di oggi è un pessimo giorno. Debora Serracchiani (ve lo ricordate?) era quella che avrebbe dovuto ringiovanire il Pd, tempo addietro, con spirito fresco e nuovo. Ha raccolto migliaia di preferenze, stupendo tutti (chissà perché il “nuovo” è di per sé un valore, ma questo è un discorso lungo) e ci si aspettava che potesse davvero svecchiare le più vecchie liturgie. E invece no. Anzi: e invece peggio.

Ha cambiato davvero il corso del Pd, ma verso il dirupo della destra mascherata. Basta leggere le sue parole. Ecco qui. Comunicato stampa di ieri (è qui):

Udine, 10 maggio – “La violenza sessuale è un atto odioso e schifoso sempre, ma risulta socialmente e moralmente ancor più inaccettabile quando è compiuto da chi chiede e ottiene accoglienza nel nostro Paese”.

Lo ha affermato la presidente del Friuli Venezia Giulia Debora Serracchiani, commentando il tentativo di stupro subìto da una minorenne ieri sera a Trieste da parte di un cittadino iracheno richiedente asilo.

Per Serracchiani “in casi come questi riesco a capire il senso di rigetto che si può provare verso individui che commettono crimini così sordidi. Sono convinta che l’obbligo dell’accoglienza umanitaria non possa essere disgiunto da un altrettanto obbligatorio senso di giustizia, da esercitare contro chi rompe un patto di accoglienza. Per quanto mi riguarda, gesti come questo devono prevedere l’espulsione dal nostro Paese, ovviamente dopo assolta la pena. Se c’è un problema di legislazione carente in merito – ha aggiunto Serracchiani – bisogna rimediare”.

 

(continua su Left)

Le lacrime di Carl Gustav Jung

Perché, nella modesta casa canonica a Kleinhüningen, dove suo marito è pastore, Emilie Preiswerk, sposata Jung, volga improvvisamente lo sguardo altrove dai suoi ricami e scoppi a piangere a dirotto, in un qualsiasi martedì pomeriggio del 1880, non è chiaro; anzi, al suo bimbo di cinque anni, Carl Gustav – che è l’unico in tutto il cosmo ad accorgersi dello zampillo assurdo di quelle lacrime – si scatena un terrore dentro al cuore quando la vede. Il bambino guarda la madre intensamente, senza dire niente, indagando con i piccoli occhi chiari la stanza, per capire cosa sia successo, chi le abbia fatto così male. Ma non c’è nulla: nessuno. Non ha radice, quel dolore. C’è solo un vasto silenzio nell’aria, che detona in un’eco di ansie mute. Quando Emilie riconosce la paura negli occhi del figlio, si asciuga le lacrime con il grande fazzoletto rosa che tiene sempre in tasca e gli sorride, come a dirgli: “non è niente, mamma sta bene”. Anche Carl Gustav sorride, d’istinto, di rimando, ma il terrore provato gli resta dentro. Quel terrore che non capiva il soffrire della creatura che più amava. Torna ai suoi giochi solitari con un’angoscia nuova.

Anche se è un medico, un filosofo, impegnato a Burghozli in uno dei maggiori centri di cura psichiatrica svizzera, lo sguardo di Carl Gustav Jung, alla fine dell’estate del 1904, non è molto diverso quando una diciannovenne strillante, di nome Sabine Spielrein, varca le porte del sanatorio. Geme, ride, urla come se fosse penetrata da lame, si lamenta e dice cose apparentemente senza senso. Il dottor Jung la prende in cura.

Seduta nella stanza bianca, contorta da ondate di tic che le sfigurano il volto, il dottore la percepisce piena di un’energia che non comprende appieno. È come se le sue strilla provenissero da una camera di tortura chiusa dentro la sua mente, di cui si è perduta la chiave. Ora lui vuole ritrovare quella chiave.

Poche settimane prima, nel suo taccuino, Jung aveva scritto di un immaginario caso clinico denominato “Sabine S.”. Ed ora, eccola lì: Sabine Spielrein. Sembrerebbe una incredibile coincidenza. Ma il giovane dottore non crede nelle coincidenze. Crede che le cose accadano dispiegandosi dalla nostra anima, come segni di un libro che dobbiamo imparare a decifrare. Crede che tutto accada con significato. Se ora quella donna è lì, è perché il destino gli sta parlando: Carl Gustav Jung ne è certo. Lo dice anche a sua moglie Emma; e le confida che, stavolta, vuole abbandonare le cure inefficaci della psichiatria contemporanea, per sperimentare un nuovo metodo, creato da un suo collega viennese, un tipo che lui non ha mai visto, che alcuni considerano un genio, altri un ciarlatano. Un tipo di nome Sigmund Freud. Quello che Jung non racconta a sua moglie è il fremito alle gambe che sente quando Sabine lo guarda, nei suoi rari sprazzi di lucidità non assediata da incubi. La trova bellissima come una tempesta. In lei, intravede pianeti perduti della propria interiorità. Come se Sabine fosse venuta a lui, per indicargli chi potrebbe ancora essere. Come se lei, mentre lui la cura, lo stesse curando.

I risultati medici sono straordinari: nel 1911, Sabine Spielrein somiglia alla ginnasiale promettente che era stata. Sembra uscita dall’inferno in cui era piombata durante le sue crisi, sembra avere un’armatura nuova. Si laurea brillantemente in medicina, vuole diventare psicanalista. Jung l’ha curata. L’ha curata con il metodo di Freud.

(Un gran pezzo di Cesare Catà. Continua qui)

Nel nome di Garibaldi, Mazzini e La Marmora, con parole d’umiltà formo la santa società …

“Buon vespero e santa sera ai santisti! Giustappunto in questa santa sera, nel silenzio della notte e sotto la luce delle stelle e lo splendore della luna, formo la catena! Nel nome di Garibaldi, Mazzini e La Marmora, con parole d’umiltà formo la santa società …”. E’ il boss che parla. Gli altri affiliati, riuniti in cerchio, ascoltano in silenzio. La sacralità del rito ricorda una messa, invece si tratta della cerimonia di conferimento della Santa, il più alto grado di affiliazione ‘ndranghetista. Che va in scena non in Calabria, ma nella Lombardia di Expo. Finora, solo i pentiti (pochi) lo avevano raccontato. Adesso, le telecamere nascoste del Ros dei carabinieri di Milano lo mostrano per la prima volta nella sua interezza. Fermi immagine definiti storici dagli inquirenti che questa mattina hanno arrestato 40 persone nell’ambito dell’indagine coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia milanese. Un altro duro colpo alla ‘ndrangheta del nord inferto dai carabinieri guidati dal tenente colonnello Giovanni Sozzo. Che arriva a pochi giorni di distanza da un’altra operazione che ha smascherato gli appetiti dei mammasantissima attorno ai subappalti dell’Esposizione universale.

L’ordinanza di custodia cautelare in carcere è stata firmata dal gip Simone Luerti. Le accuse a vario titolo contro i 40 indagati sono associazione di tipo mafioso, estorsione, detenzione e porto abusivo di armi. Al centro dell’operazione “Insubria“, nata dalla storica inchiesta “Infinito“, la prima a riconoscere il radicamento al nord italia delle cosche calabresi, tre sodalizi della ‘ndrangheta radicati nel comasco e nel lecchese, con diffuse infiltrazioni nel tessuto locale e saldi collegamenti con le famiglie di origine. Oltre alla Lombardia (Milano, Como, Lecco, Monza-Brianza, Bergamo), gli arresti sono avvenuti anche in provincia di Verona e Caltanissetta. L’inchiesta della Dda, coordinata dai pm Ilda Boccassini, Paolo Storari e Francesca Celle, ha riguardato in particolare le cosche dei comuni brianzoli di Calolziocorte, di Cermenate e di Fino Mornasco, tutte facenti parte della nuova ‘Ndrangheta del Nord Italia, chiamata “La Lombardia”.

Dopo due anni di intercettazioni ambientali e filmati, sono stati documentati, in particolare, i rituali mafiosi per il conferimento delle cariche interne e le modalità di affiliazione. È la prima volta che viene ripresa la cerimonia di conferimento della Santa. I filmati, che riprendono i boss durante le cosiddette “mangiate“, mostrano l’uso di un linguaggio in codice, in cui il capo della locale viene chiamato Garibaldi, il contabile Mazzini, mentre il Mastro di giornata, tra le più alte cariche dell’associazione, viene chiamato La Marmora. Un altro filmato mostra tutta la violenza delle ‘ndrine: i giuramenti vengono fatti davanti con una pistola e una pastiglia di cianuro, che servono come monito al nuovo affiliato sulla sua sorte in caso di tradimento o “grave trascuranza”. Quanti colpi ha in canna, ne dovete riservare sempre uno!”, spiegano i boss, intercettati, altrimenti c’è sempre “una pastiglia di cianuro” oppure “vi buttate dalla montagna”.

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