In Emilia il grande onore di ricevere il boss
Nel suo personale e presunto gioco di mafia, che di virtuale non sembra avere un granché, era previsto che Roberta si esaltasse fino alla pelle d’oca nel vedere il boss cutrese Nicolino Grande Aracri fare irruzione a sorpresa nel suo ufficio bolognese di consulente finanziaria («Il sanguinario! Un grande onore perché lui non va…, anche per ragioni di sicurezza…» dice intercettata al telefono con voce rotta dall’emozione). O che prendesse lezioni di arma da fuoco da un altro pezzo grosso della cosca che spadroneggiava in Emilia, Antonio Gualtieri («Quando ti capita di sparare a qualcuno – le dice il boss nell’insolita veste di istruttore -, spara così…»; e Roberta, che frequenta il poligono di tiro: «Però dà un contraccolpo notevole…»).
E perché mai stupirsi, allora, anzi la cosa sembra procurarle brividi proibiti, se un giorno dell’aprile 2012 uno dei fratelli del grande capo Nicolino Grande Aracri, l’avvocato Domenico, sale con lei in auto con un gingillo vagamente inquietante, «… m’hanno portato il detonatore C4 dietro in macchina…», roba utilizzata per gli esplosivi? Il «War game» della consulente finanziaria bolognese Roberta Tattini, 42 anni, è finito in una gelida alba di qualche giorno fa quando, arrestata nella maxi retata di fine gennaio che ha scoperchiato le mille ramificazioni di una ‘ndrangheta a lungo sottovalutata in Emilia, è finita in carcere con l’accusa di concorso in associazione mafiosa.
Tipetto particolare, questa signora brillante, affascinante e spregiudicata, ma terribilmente chiacchierona e di un’ingenuità che lascia allibiti. Dalle sue intercettazioni, gli inquirenti della Dda di Bologna hanno attinto più informazioni che in un confessionale. Un vulcano, Roberta. Al marito Fulvio Stefanelli (indagato), che la invita «a stare attenta», lei replica entusiasta: «Ma ragazzi! Domani è un affare che guadagno un milione di euro!!». E al vecchio padre, pure lui preoccupato, risponde in gergo bolognese: «Oh ragazzuoli, funziona così!!». E come funzionassero le cose, pareva saperlo bene Roberta, stando al quadro che fanno di lei gli inquirenti. «Pur senza farne parte – scrivono -, la consulente bolognese ha contribuito alla realizzazione degli scopi dell’organizzazione mafiosa, mettendosi a completa disposizione di Antonio Gualtieri (cutrese, 51 anni, uno dei capi tra Reggio e Piacenza in stretti legami con la casa madre di Cutro, ndr.), fornendo consulenze e partecipando anche in loro vece ad incontri di gestione di affari del sodalizio in Emilia, Lombardia e Veneto nella totale consapevolezza di dare un apporto a un gruppo organizzato appartenente alla ‘ndrangheta».
Ma è la carica emotiva che impressiona. Come se quel mondo popolato di boss dal curriculum truce e da riti tribali innervati da logiche criminali avesse su di lei l’effetto di una droga. Parla e si muove come in una fiction. Al padre che le chiede con chi abbia a che fare, risponde di getto: «E’ il numero 2 della Calabria, della ’ndrangheta… Comanda tutto a Reggio… Sono imprenditori che rappresentano 140 aziende, no, non droga, sono diversi, però lo sgarro a loro non si fa…».
Adesso rischia grosso, Roberta. Il suo avvocato, Girolamo Mancino, si augura che «la sua posizione possa ridimensionarsi». E cercherà di far passare la linea difensiva della non partecipazione della signora alle logiche del clan («Ha solo seguito alcune pratiche dal punto di vista professionale»). La stessa Roberta, d’altronde, era consapevole della situazione. Con i suoi sodali in affari era stata chiara: «Ricordatevi bene, visto che siete uomini d’onore! Perché ho paura che con il mio sto dentro vent’anni… Io voglio i vostri avvocati, però mi tirate fuori, ebbè, è il minimo…».
(clic)