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satira

No, il Tapiro d’oro ad Ambra Angiolini non è satira, ma becero gossip sulla pelle di una donna tradita

La trasmissione Striscia la notizia con il suo inviato Valerio Staffelli ha deciso di consegnare il Tapiro d’oro ad Ambra Angiolini che se lo sarebbe meritato perché è stata lasciata dal suo compagno, l’allenatore della Juventus Massimiliano Allegri, e questa cosa deve aver fatto riderissimo Antonio Ricci e la sua truppa.

La figlia di Angiolini (siano benedetti questi ragazzi che stanno crescendo imponendo una modernità dei modi e dei diritti che può farci molto bene) non è stata zitta: «So bene che, in quanto personaggio pubblico, secondo alcuni è giusto che la sua vita, anche quella privata, venga sbandierata ai quattro venti. Ma è davvero necessario infierire?», ha scritto sul suo account Instagram.

Ma c’è un punto importante in tutta questa storia: che la relazione tra Angiolini e Allegri sia finita l’hanno riportato numerosi giornali di gossip raccontando di un tradimento del mister della Juventus che sarebbe stato una della cause della fine.

Ricapitolando: un uomo tradisce la sua compagna (entrambi personaggi pubblici) e la trasmissione Striscia la notizia decide di “premiare” scanzonando la tradita. La vedete la miseria? Dietro quel premio c’è una serie di punti che vanno osservati.

Primo, la satira. «Era per ridere, è satira», spiega qualcuno in queste ore utilizzando (a casaccio) il diritto di satira senza conoscerne la storia e il significato. La satira si realizza nel momento in cui attraverso la risata si mostrano debolezze e mancanze dei potenti che altrimenti sarebbe difficile mostrare.

Per questo la satira si fa contro i re: distruggere attraverso il sorriso la prepotenza di chi detiene un qualsiasi potere è lo spazio in cui i giullari riescono a prendersi delle libertà che difficilmente verrebbero concesse. Se Striscia la notizia avesse voluto fare satira avrebbe potuto consegnare il Tapiro a Massimiliano Allegri per il suo pisellino in fuori gioco: questa sarebbe stata satira. Non capire tra il traditore e la tradita chi dei due è il più debole appare un errore piuttosto grossolano. Fare satira sulle vittime rischia di essere semplicemente un’esposizione al pubblico ludibrio, qualcosa molto vicino alla rivittimizzazione.

Secondo, la donna. Guarda caso ancora una volta è la donna a essere messa sotto la lente. Che incredibile coincidenza, vero? Consegnare il Tapiro alla donna tradita veicola sotto traccia il messaggio che Ambra non sia stata in grado di “tenersi” il suo compagno.

In fondo la fedeltà maschile (questo lo dice anche l’evoluzione del codice penale) è qualcosa che le donne si devono meritare assolvendo tutti i propri doveri. Cosa c’è di meglio di un Tapiro per dire a Angiolini che fa molto ridere il fatto di non essere stata all’altezza del suo uomo stallone? Se è stata tradita significa che qualcosa avrà sbagliato, in qualcosa sarà stata deficitaria.

La fedeltà di un uomo bisogna guadagnarsela tutti i giorni mentre la fedeltà della donna è data per scontata (mica per niente era un reato fino a non molto tempo fa). Quel Tapiro dice “cara Ambra ci hai provato ad essere la compagna di quel figo di Allegri ma lui, si sa, sta in quel mondo dove i maschi proprio non riescono a tenere a bada il proprio pene. Peccato. Ridiamoci su”. E le battute di Staffelli su Allegri e il suo fuoriclasse Dybala confermano la modalità: troppi campioni, peccato.

Terzo, la televisione. Una televisione che ancora nel 2021 ritiene il sentimento un vezzo da sventolare per costruirci una notizia. Come se si giocasse alle figurine si mischiano le carte per immaginare gli accoppiamenti e per mettere in vetrina le prede e i cacciatori. Se qualcuno è un personaggio pubblico allora ci si sente in diritto di grufolare nel suo privato. Chi se ne fotte di tutti quelli che stanno intorno (i figli, ad esempio).

Una televisione che ancora nel 2021 trova simpatica l’idea di assediare una donna tradita per sbertucciarla di fronte alle telecamere. Una televisione che ancora usa il modello dell’esposizione della sfigata che è stata lasciata. Modelli che erano stupidi e vecchi 20 anni fa e che nella redazione di Striscia fanno ridere ancora quattro maschi invecchiati che sono scollegati dal tempo.

Ultimo, l’uomo. Il traditore ha potuto assistere bello tranquillo nella sua casa di Torino allo spot di sponda della sua mascolinità. Nessuno osi disturbare il mister, che ha cose troppo serie da fare. Chissà che pacche sulle spalle per avere mostrato indirettamente in prima serata la sua vorace mascolinità. Ben fatto, bravi, davvero.

L’articolo proviene da TPI.it qui

«Un racconto che è insieme una distopia su un futuro molto vicino e una satira sul sovranismo e sulla retorica che lo accompagna, consigliatissimo.» “non siamo creature mansuete” su #Carnaio

In due parole: un paese come tanti deve affrontare una strana marea, quei corpi senza vita faranno emergere il peggio, una distopia, una satira che parla del nostro crudele presente

DF località di mare, mediamente depressa, mediamente sviluppata, mediamente turistica… un posto come tanti finché non cominciano ad arrivare cadaveri: pochi all’inizio, poi sempre di più, ondate di marea che inondano la città di corpi senza vita. Sono tutti molto simili, ragazzi dalla pelle scura, in buone condizioni fisiche, restati in mare per giorni prima di arrivare a DF. La città costretta ad affrontare questa marea adotta soluzioni di emergenza, ben presto però trova anche il modo di trarne profitto e si rinchiude letteralmente in se stessa fino a perdere davvero ogni umanità. Ogni abitante poi affronta e vive la mare a modo suo: il pescatore, il sindaco, la bella donna, il dottore, il giornalista, la segretaria, l’imprenditore, il commissario… non si sa da dove vengono i corpi, chi erano prima che il mare li trascinasse lì, nessuno se ne preoccupa, nessuno se ne interessa, sono solo altri, sono quelli, sono loro e non sono noi, invasori… Un racconto che è insieme una distopia su un futuro molto vicino e una satira sul sovranismo e sulla retorica che lo accompagna, consigliatissimo.

(fonte)

La satira secondo il PD

Sergio Staino ha detto sulla vignetta di Charlie Hebdo: «Neanche un ubriaco o il pazzo di quartiere farebbe una cosa simile, che senso ha? Quando ti metti al tavolo per disegnare qualcosa o c’è un senso in quello che fai o meglio non farlo tanto per offendere qualcuno. E’ tempo speso male. Ripeto, sarebbe meglio non parlarne. Altrimenti si fa il loro gioco.». Lo potete leggere qui.

Poi ha disegnato la vignetta qui sopra per perculare la Raggi e il M5S. Ecco. Appunto. Vedere per credere.

 

Aristofane e Charlie Hebdo

Galatea l’ha scritto come non si sarebbe potuto dire meglio:

«Aristofane era uno stronzo.

Non faceva satira. Almeno non sempre. Quando se la prese con Socrate, per esempio, mica se la stava prendendo con il potere. Aveva potere, Socrate? Ma quando mai. Era un filosofastro con le pezze al sedere, che manco era chiaro come campasse, forse facendosi mantenere sotto banco dai suoi discepoli, più probabilmente arraffando qua e là a scrocco ai banchetti uno spritz e i salatini.

Era un poveraccio, buffo e facile da prendere in giro, per giunta noto per essere tollerante. Uno che non avrebbe querelato, e nemmeno avrebbe mandato a casa di Aristofane qualche amico potente a minacciare. Era un poveraccio, Socrate, ma di buon carattere e inoffensivo.

Aristofane lo prese a bersaglio. Ci scrisse sopra una intera commedia, presentandolo come uno svampito intrallazzone. Fu feroce, e cattivo. Gratuitamente.»

Il suo post è qui.

Analfabeti funzionali, analfabeti sentimentali e satirofobi

Succede sempre così: se il mondo che ci circonda non corrisponde alla nostra idea di mondo ci impuntiamo come patetici indignati telecomandati.

Se Charlie Hebdo sfancula l’Islam (che odiamo poiché lo temiamo) allora tutti che reclamano la libertà di satira. In realtà scrivono “libertà di satira” ma intendono un fantomatico diritto di piasciare smargiassi sui propri nemici. La satira, in quel caso, è intesa come diritto di sottendere schifo verso gli altri. Se la satira attacca noi (la religione e in questo caso il traballante Paese che si sbriciola ogni terremoto) allora ci invertiamo: “e no, e non si può, e ci vuole rispetto!”. Qualcuno in queste ore addirittura scrive “hanno fatto bene a sparargli, a questi di Charlie Hebdo”.

Che brivido il conformismo benpensante. Che pena il sindaco di Amatrice che non ci spiega della ricostruzione della sua scuola e si indigna per la vignetta. Che pena questa rivolta sui social che non s’è accorta di un condannato nella squadra nominata a ricostruire Amatrice (basta leggere qui), che ha dimenticato gli “inciampi” di Errani (eccoli qui), che abita spesso sotto cemento mafioso depotenziato, che è convinta che L’Aquila sia stata ricostruita e si coagula invece intorno a una vignetta. Un’orda di rabbia vendicativa che ha lo stesso conato degli integralisti. Islamici, italiani, ipercattolici: le mandrie indignate che non riuscendo a cambiare il mondo pretendono di non essere disturbate dal mondo.

Tutti alla ricerca di un luogo in cui non dovere fare fatica, in cui essere sempre d’accordo. Il pensiero unico come sogno della nuova borghesia morale. E poi ci si lamenta di avere una classe dirigente riducibile a piazzisti, pubblicitari e comunicatori turbospinti.

E nessuno si accorge che la vignetta ha funzionato. Un’altra volta ancora.

Le minacce dei Casamonica al comico Dado sono una possibilità

dado1020Le minacce dei Casamonica al comico Dado per una semplice canzoncina irriverente pubblicata su Facebook ci dicono che la risata funziona e che i clan esistono grazie al generale timore reverenziale. Ma portano anche una buona notizia: ognuno con poco potrebbe risultare fastidioso. E se lo facessimo tutti la mafiosità non sarebbe esibita ma nascosta come una malattia di cui vergognarsi. Ne ho scritto qui.

Il corteo dei Giuda

parigi-manifestazione-per-charlie-hebdo-e-la-liberta-di-espressione-46-631273Gli amici della satira sono arrivati tutti insieme su un autobus nero dai vetri oscurati come una squadra di calcio. Poi si sono piazzati a semicerchio alla testa del corteo, loro che di solito i cortei li subiscono. Angelona Merkel e Francois Hollande si sono molto abbracciati e per un pomeriggio hanno dimenticato il 3%. C’erano anche David Cameron e Matteo Renzi, con i suoi pantaloni di un blu elettrico che era impossibile non notare in tutte le inquadrature di gruppo. Non c’era Obama, che della lotta al terrorismo ha quasi fatto una professione, e non s’è capito perché. 

Sono tutti Charlie, dunque, i nostri capi di Stato. Lo sono anche Abu Mazen e Benjamin Netanyahu, riconosciuti campioni della libertà di stampa e di satira. Lo sono i reali di Giordania, il premier turco Ahmet Davutoglu, che nelle sue carceri protegge una cinquantina di cronisti, e il presidente del Gabon, Ali Bongo, che si illustra nelle classifiche di “Reporters sans frontières”. Se si voleva una rappresentazione plastica dell’ipocrisia del potere non se ne poteva immaginare una migliore. Almeno Putin, altro eroe della libertà di stampa, s’è reso conto dell’assurdità ed è rimasto a casa.

(link)

#JeSuisCharlie con il culo degli altri

Ultimamente non mi capita spesso ma trovo perfetto questo articolo di Marco Travaglio:

Eppure non è poi così difficile capirlo che difendere la libertà di espressione non significa condividere tutto quello che pensano, dicono, scrivono e disegnano quelli che se ne avvalgono. Non è poi così difficile capire che difendere la satira senza limiti non vuol dire che chi la fa non possa avere limiti (tutti ne abbiamo, e sono unici al mondo: dipendono dallo stile, dalla cultura, dall’educazione, dalla sensibilità, dall’eventuale fede di ciascun individuo). Vuol dire che quei limiti non possono e non devono essere fissati per legge, con tanto di sanzione a chi li viola: fermo restando il Codice penale per punire chi commette violenze, o istiga a commetterle, ma non chi esprime un pensiero, foss’anche il più bieco e ributtante.

Giovedì a Servizio Pubblico e venerdì sul Fatto ho ricordato come i nostri politici e i loro servi hanno risolto in Italia il secolare dibattito sulla satira: abolendola dalla Rai. Ieri un poveretto con le mèches che scrive su Liberomi ha accusato di aver fatto «senza vergogna» un «odioso paragone tra l’editto islamico e quello bulgaro», cioè di aver messo sullo stesso piano «la vostra industrietta macinasoldi e le vostre barzellette sporche» con «la satira vera, quella degli ammazzati di Parigi». Poi ha ripetuto la vecchia barzelletta dei programmi di Luttazzi e di Sabina Guzzanti «morti da soli» perché «non facevano ascolti» (uahahahahahah). Se ogni tanto capisse ciò che legge e ascolta, il tapino scoprirebbe che non ho fatto alcun paragone («quella di Parigi è una tragedia, in Italia siamo sempre alla farsa», ho detto).
Ho semplicemente sbeffeggiato l’ipocrisia di una classe politica e giornalistica, con e senza mèches (questa sì “macinasoldi”, e pubblici), che ha passato la vita a praticare e giustificare le peggiori censure, salvo poi strillare «Je suis Charlie» e difendere la satira senza limiti, ma solo in Francia e dopo che l’hanno ammazzata. Ieri ho citato un articolo di Pigi Battista sul Corriere nel 2006: diceva – capita persino a lui – cose condivisibili e liberali. E cioè che «non sarà superfluo un supplemento di attenzione per scorgere qualcosa di repellente in quelle vignette di cui pure deve essere libera la circolazione». Cioè criticava delle criticabilissime vignette, ma al contempo metteva in guardia chiunque osasse anche soltanto pensare di vietarle per legge o di chiudere i giornali che le pubblicavano.
È la stessa critica che faceva Vauro, sulla reazione violenta che certe vignette sul Profeta potevano innescare, senza citare Charlie Hebdo né invocare censure o chiusure: quindi è ridicolo che oggi Battista additi Vauro al pubblico ludibrio. La satira scortica tutto e tutti, ci mancherebbe che pretendesse l’immunità dalle critiche. Perciò è sciacallesca l’operazione del Giornale, che sbatte Vauro in prima pagina accusandolo di versare «lacrime di coccodrillo» sui giornalisti e i vignettisti assassinati. Come se chi ha criticato una vignetta su Maometto bombarolo fosse un complice dei macellai islamisti. Ciascuno è libero di ritenere sbagliata o anche repellente una vignetta, un articolo, un libro, un programma tv, un film. Ciò che nessuno può fare è proibirli o chiuderli (come s’è fatto ripetutamente in Italia, con buona pace dei servi di regime), in nome di un “limite” che nessuno ha il diritto di fissare.Cantava Lucio Dalla: «È chiaro: il pensiero dà fastidio, anche se chi pensa è muto come un pesce, anzi è un pesce, e come pesce è difficile da bloccare, perché lo protegge il mare, com’è profondo il mare. Certo, chi comanda non è disposto a fare distinzioni poetiche: il pensiero, come l’oceano, non lo puoi bloccare, non lo puoi recintare…». A me, personalmente, non verrebbe mai in mente di pensare o di scrivere che “il Corano è merda”, come dice una delle vignette incriminate di Charlie Hebdo. Perciò, se ci arrivasse una vignetta così gratuita sul Corano, sul Vangelo, sul Talmud o sul libro sacro o sul simbolo di qualsiasi altra religione, anche noi che ospitiamo più satira di tutti gli altri ci penseremmo un bel po’ prima di pubblicarla.

In nome di un limite che è chiaro e dichiarato: la sensibilità dei lettori, fossero anche soltanto uno o due quelli che potrebbero offendersi. Un quotidiano libero di informazione non è la buca delle lettere né Hyde Park Corner, ma un servizio ai propri lettori. Al contempo, è giusto e liberatorio che esistano giornali come Charlie Hebdo (ne avevamo anche in Italia, pensiamo al Male e a certe fasi di Cuore), interamente consacrati alla satira più libertina, che non hanno né debbono avere limiti. E, se qualcuno tenta di zittirli, chiudendoli o addirittura decimandone la redazione a raffiche di kalashnikov, le pagine di questo giornale libero sono a loro disposizione per ospitarli. A scatola chiusa.Ronald Reagan, ancora in piena guerra fredda, raccontava questa barzelletta: «Un giornalista americano dice a un collega sovietico: “La differenza fra i nostri paesi è che io posso scrivere che Reagan è uno stronzo e non mi succede niente, perché noi siamo una democrazia”. E il sovietico: “Ma pure noi! Infatti anch’io domani posso scrivere che Reagan è uno stronzo”…». È facile per gli integralisti cattolici, protestanti, ebrei solidarizzare con la satira, ora che è stata colpita da tre islamisti sanguinari: bisognerebbe farlo sempre contro ogni censura (non contro ogni critica), anche quando nel mirino c’è la propria religione.

Invece era tutt’altro che scontata la condanna degli stragisti parigini da parte degli ultraradicali di Hamas e di Hezbollah. La satira ha questo di bello: il suo linguaggio immediato e scioccante illumina e spalanca i cervelli. Chissà, forse il sacrificio dei ragazzacci di Charlie non è stato inutile.

(Il Fatto Quotidiano, 11 gennaio 2015)

Il Sultano e San Francesco (la risposta di Tiziano Terzani a Oriana Fallaci, e a molti in queste ore)

di Tiziano Terzani

532948_10152902333161760_1228191903519466569_nOriana, dalla finestra di una casa poco lontana da quella in cui anche tu sei nata, guardo le lame austere ed eleganti dei cipressi contro il cielo e ti penso a guardare, dalle tue finestre a New York, il panorama dei grattacieli da cui ora mancano le Torri Gemelle. Mi torna in mente un pomeriggio di tanti, tantissimi anni fa quando assieme facemmo una lunga passeggiata per le stradine di questi nostri colli argentati dagli ulivi. Io mi affacciavo, piccolo, alla professione nella quale tu eri gia’ grande e tu proponesti di scambiarci delle “Lettere da due mondi diversi”: io dalla Cina dell’immediato dopo-Mao in cui andavo a vivere, tu dall’America. Per colpa mia non lo facemmo. Ma e’ in nome di quella tua generosa offerta di allora, e non certo per coinvolgerti ora in una corrispondenza che tutti e due vogliamo evitare, che mi permetto di scriverti. Davvero mai come ora, pur vivendo sullo stesso pianeta, ho l’impressione di stare in un mondo assolutamente diverso dal tuo.

Ti scrivo anche – e pubblicamente per questo – per non far sentire troppo soli quei lettori che forse, come me, sono rimasti sbigottiti dalle tue invettive, quasi come dal crollo delle due Torri. La’ morivano migliaia di persone e con loro il nostro senso di sicurezza; nelle tue parole sembra morire il meglio della testa umana – la ragione; il meglio del cuore – la compassione.

Il tuo sfogo mi ha colpito, ferito e mi ha fatto pensare a Karl Kraus. “Chi ha qualcosa da dire si faccia avanti e taccia”, scrisse, disperato dal fatto che, dinanzi all’indicibile orrore della Prima Guerra Mondiale, alla gente non si fosse paralizzata la lingua. Al contrario, gli si era sciolta, creando tutto attorno un assurdo e confondente chiacchierio. Tacere per Kraus significava riprendere fiato, cercare le parole giuste, riflettere prima di esprimersi. Lui uso’ di quel consapevole silenzio per scrivere Gli ultimi giorni dell’umanita’, un’opera che sembra essere ancora di un’inquietante attualita’.

Pensare quel che pensi e scriverlo e’ un tuo diritto. Il problema e’ pero’ che, grazie alla tua notorieta’, la tua brillante lezione di intolleranza arriva ora anche nelle scuole, influenza tanti giovani e questo mi inquieta.

Il nostro di ora e’ un momento di straordinaria importanza. L’orrore indicibile e’ appena cominciato, ma e’ ancora possibile fermarlo facendo di questo momento una grande occasione di ripensamento. E un momento anche di enorme responsabilita’ perche’ certe concitate parole, pronunciate dalle lingue sciolte, servono solo a risvegliare i nostri istinti piu’ bassi, ad aizzare la bestia dell’odio che dorme in ognuno di noi ed a provocare quella cecita’ delle passioni che rende pensabile ogni misfatto e permette, a noi come ai nostri nemici, il suicidarsi e l’uccidere. “Conquistare le passioni mi pare di gran lunga piu’ difficile che conquistare il mondo con la forza delle armi. Ho ancora un difficile cammino dinanzi a me”, scriveva nel 1925 quella bell’anima di Gandhi. Ed aggiungeva: “Finche’ l’uomo non si mettera’ di sua volonta’ all’ultimo posto fra le altre creature sulla terra, non ci sara’ per lui alcuna salvezza”.

E tu, Oriana, mettendoti al primo posto di questa crociata contro tutti quelli che non sono come te o che ti sono antipatici, credi davvero di offrirci salvezza? La salvezza non e’ nella tua rabbia accalorata, ne’ nella calcolata campagna militare chiamata, tanto per rendercela piu’ accettabile, “Liberta’ duratura”.

O tu pensi davvero che la violenza sia il miglior modo per sconfiggere la violenza? Da che mondo e’ mondo non c’e’ stata ancora la guerra che ha messo fine a tutte le guerre. Non lo sara’ nemmeno questa.

Quel che ci sta succedendo e’ nuovo. Il mondo ci sta cambiando attorno. Cambiamo allora il nostro modo di pensare, il nostro modo di stare al mondo. E una grande occasione. Non perdiamola: rimettiamo in discussione tutto, immaginiamoci un futuro diverso da quello che ci illudevamo d’aver davanti prima dell’11 settembre e soprattutto non arrendiamoci alla inevitabilita’ di nulla, tanto meno all’inevitabilita’ della guerra come strumento di giustizia o semplicemente di vendetta.

Le guerre sono tutte terribili. Il moderno affinarsi delle tecniche di distruzione e di morte le rendono sempre piu’ tali. Pensiamoci bene: se noi siamo disposti a combattere la guerra attuale con ogni arma a nostra disposizione, compresa quella atomica, come propone il Segretario alla Difesa americano, allora dobbiamo aspettarci che anche i nostri nemici, chiunque essi siano, saranno ancor piu’ determinati di prima a fare lo stesso, ad agire senza regole, senza il rispetto di nessun principio. Se alla violenza del loro attacco alle Torri Gemelle noi risponderemo con una ancor piu’ terribile violenza – ora in Afghanistan, poi in Iraq, poi chi sa dove -, alla nostra ne seguira’ necessariamente una loro ancora piu’ orribile e poi un’altra nostra e cosi’ via.

Perche’ non fermarsi prima? Abbiamo perso la misura di chi siamo, il senso di quanto fragile ed interconnesso sia il mondo in cui viviamo, e ci illudiamo di poter usare una dose, magari “intelligente”, di violenza per mettere fine alla terribile violenza altrui.

Cambiamo illusione e, tanto per cominciare, chiediamo a chi fra di noi dispone di armi nucleari, armi chimiche e armi batteriologiche – Stati Uniti in testa – d’impegnarsi solennemente con tutta l’umanita’ a non usarle mai per primo, invece di ricordarcene minacciosamente la disponibilita’. Sarebbe un primo passo in una nuova direzione. Non solo questo darebbe a chi lo fa un vantaggio morale – di per se’ un’arma importante per il futuro -, ma potrebbe anche disinnescare l’orrore indicibile ora attivato dalla reazione a catena della vendetta. In questi giorni ho ripreso in mano un bellissimo libro (peccato che non sia ancora in italiano) di un vecchio amico, uscito due anni fa in Germania. Il libro si intitola Die Kunst, nicht regiert zu werden: ethische Politik von Sokrates bis Mozart (L’arte di non essere governati: l’etica politica da Socrate a Mozart). L’autore e’ Ekkehart Krippendorff, che ha insegnato per anni a Bologna prima di tornare all’Universita’ di Berlino. La affascinante tesi di Krippendorff e’ che la politica, nella sua espressione piu’ nobile, nasce dal superamento della vendetta e che la cultura occidentale ha le sue radici piu’ profonde in alcuni miti, come quello di Caino e quello delle Erinni, intesi da sempre a ricordare all’uomo la necessita’ di rompere il circolo vizioso della vendetta per dare origine alla civilta’.

Caino uccide il fratello, ma Dio impedisce agli uomini di vendicare Abele e, dopo aver marchiato Caino – un marchio che e’ anche una protezione -, lo condanna all’esilio dove quello fonda la prima citta’. La vendetta non e’ degli uomini, spetta a Dio.

Secondo Krippendorff il teatro, da Eschilo a Shakespeare, ha avuto una funzione determinante nella formazione dell’uomo occidentale perche’ col suo mettere sulla scena tutti i protagonisti di un conflitto, ognuno col suo punto di vista, i suoi ripensamenti e le sue possibili scelte di azione, il teatro e’ servito a far riflettere sul senso delle passioni e sulla inutilita’ della violenza che non raggiunge mai il suo fine.

Purtroppo, oggi, sul palcoscenico del mondo noi occidentali siamo insieme i soli protagonisti ed i soli spettatori, e cosi’, attraverso le nostre televisioni ed i nostri giornali, non ascoltiamo che le nostre ragioni, non proviamo che il nostro dolore.

A te, Oriana, i kamikaze non interessano. A me tanto invece. Ho passato giorni in Sri Lanka con alcuni giovani delle “Tigri Tamil”, votati al suicidio. Mi interessano i giovani palestinesi di “Hamas” che si fanno saltare in aria nelle pizzerie israeliane. Un po’ di pieta’ sarebbe forse venuta anche a te se in Giappone, sull’isola di Kyushu, tu avessi visitato Chiran, il centro dove i primi kamikaze vennero addestrati e tu avessi letto le parole, a volte poetiche e tristissime, scritte segretamente prima di andare, riluttanti, a morire per la bandiera e per l’Imperatore. I kamikaze mi interessano perche’ vorrei capire che cosa li rende cosi’ disposti a quell’innaturale atto che e’ il suicidio e che cosa potrebbe fermarli.

Quelli di noi a cui i figli – fortunatamente – sono nati, si preoccupano oggi moltissimo di vederli bruciare nella fiammata di questo nuovo, dilagante tipo di violenza di cui l’ecatombe nelle Torri Gemelle potrebbe essere solo un episodio.

Non si tratta di giustificare, di condonare, ma di capire. Capire, perche’ io sono convinto che il problema del terrorismo non si risolvera’ uccidendo i terroristi, ma eliminando le ragioni che li rendono tali.

Niente nella storia umana e’ semplice da spiegare e fra un fatto ed un altro c’e’ raramente una correlazione diretta e precisa. Ogni evento, anche della nostra vita, e’ il risultato di migliaia di cause che producono, assieme a quell’evento, altre migliaia di effetti, che a loro volta sono le cause di altre migliaia di effetti. L’attacco alle Torri Gemelle e’ uno di questi eventi: il risultato di tanti e complessi fatti antecedenti. Certo non e’ l’atto di “una guerra di religione” degli estremisti musulmani per la conquista delle nostre anime, una Crociata alla rovescia, come la chiami tu, Oriana. Non e’ neppure “un attacco alla liberta’ ed alla democrazia occidentale”, come vorrebbe la semplicistica formula ora usata dai politici. Un vecchio accademico dell’Universita’ di Berkeley, un uomo certo non sospetto di anti-americanismo o di simpatie sinistrorse da’ di questa storia una interpretazione completamente diversa. “Gli assassini suicidi dell’11 settembre non hanno attaccato l’America: hanno attaccato la politica estera americana”, scrive Chalmers Johnson nel numero di The Nation del 15 ottobre. Per lui, autore di vari libri – l’ultimo, Blowback, contraccolpo, uscito l’anno scorso (in Italia edito da Garzanti, ndr) ha del profetico – si tratterebbe appunto di un ennesimo “contraccolpo” al fatto che, nonostante la fine della Guerra Fredda e lo sfasciarsi dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti hanno mantenuto intatta la loro rete imperiale di circa 800 installazioni militari nel mondo Con una analisi che al tempo della Guerra Fredda sarebbe parsa il prodotto della disinformazione del Kgb, Chalmers Johnson fa l’elenco di tutti gli imbrogli, complotti, colpi di Stato, delle persecuzioni, degli assassinii e degli interventi a favore di regimi dittatoriali e corrotti nei quali gli Stati Uniti sono stati apertamente o clandestinamente coinvolti in America Latina, in Africa, in Asia e nel Medio Oriente dalla fine della Seconda Guerra Mondiale ad oggi.

Il “contraccolpo” dell’attacco alle Torri Gemelle ed al Pentagono avrebbe a che fare con tutta una serie di fatti di questo tipo: fatti che vanno dal colpo di Stato ispirato dalla Cia contro Mossadeq nel 1953, seguito dall’installazione dello Shah in Iran, alla Guerra del Golfo, con la conseguente permanenza delle truppe americane nella penisola araba, in particolare l’Arabia Saudita dove sono i luoghi sacri dell’Islam. Secondo Johnson sarebbe stata questa politica americana “a convincere tanta brava gente in tutto il mondo islamico che gli Stati Uniti sono un implacabile nemico”.

Cosi’ si spiegherebbe il virulento anti-americanismo diffuso nel mondo musulmano e che oggi tanto sorprende gli Stati Uniti ed i loro alleati.

Esatta o meno che sia l’analisi di Chalmers Johnson, e’ evidente che al fondo di tutti i problemi odierni degli americani e nostri nel Medio Oriente c’e’, a parte la questione israeliano-palestinese, la ossessiva preoccupazione occidentale di far restare nelle mani di regimi “amici”, qualunque essi fossero, le riserve petrolifere della regione. Questa e’ stata la trappola.

L’occasione per uscirne e’ ora.

Perche’ non rivediamo la nostra dipendenza economica dal petrolio? Perche’ non studiamo davvero, come avremmo potuto gia’ fare da una ventina d’anni, tutte le possibili fonti alternative di energia?

Ci eviteremmo cosi’ d’essere coinvolti nel Golfo con regimi non meno repressivi ed odiosi dei talebani; ci eviteremmo i sempre piu’ disastrosi “contraccolpi” che ci verranno sferrati dagli oppositori a quei regimi, e potremmo comunque contribuire a mantenere un migliore equilibrio ecologico sul pianeta.

Magari salviamo cosi’ anche l’Alaska che proprio un paio di mesi fa e’ stata aperta ai trivellatori, guarda caso dal presidente Bush, le cui radici politiche – tutti lo sanno – sono fra i petrolieri.

A proposito del petrolio, Oriana, sono certo che anche tu avrai notato come, con tutto quel che si sta scrivendo e dicendo sull’Afghanistan, pochissimi fanno notare che il grande interesse per questo paese e’ legato al fatto d’essere il passaggio obbligato di qualsiasi conduttura intesa a portare le immense risorse di metano e petrolio dell’Asia Centrale (vale a dire di quelle repubbliche ex-sovietiche ora tutte, improvvisamente, alleate con gli Stati Uniti) verso il Pakistan, l’India e da li’ nei paesi del Sud Est Asiatico. Il tutto senza dover passare dall’Iran. Nessuno in questi giorni ha ricordato che, ancora nel 1997, due delegazioni degli “orribili” talebani sono state ricevute a Washington (anche al Dipartimento di Stato) per trattare di questa faccenda e che una grande azienda petrolifera americana, la Unocal, con la consulenza niente di meno che di Henry Kissinger, si e’ impegnata col Turkmenistan a costruire quell’oleodotto attraverso l’Afghanistan.

E dunque possibile che, dietro i discorsi sulla necessita’ di proteggere la liberta’ e la democrazia, l’imminente attacco contro l’Afghanistan nasconda anche altre considerazioni meno altisonanti, ma non meno determinanti. E per questo che nell’America stessa alcuni intellettuali cominciano a preoccuparsi che la combinazione fra gli interessi dell’industria petrolifera con quelli dell’industria bellica – combinazione ora prominentemente rappresentata nella compagine al potere a Washington – finisca per determinare in un unico senso le future scelte politiche americane nel mondo e per limitare all’interno del paese, in ragione dell’emergenza anti-terrorismo, i margini di quelle straordinarie liberta’ che rendono l’America cosi’ particolare.

Il fatto che un giornalista televisivo americano sia stato redarguito dal pulpito della Casa Bianca per essersi chiesto se l’aggettivo “codardi”, usato da Bush, fosse appropriato per i terroristi-suicidi, cosi’ come la censura di certi programmi e l’allontanamento da alcuni giornali, di collaboratori giudicati non ortodossi, hanno aumentato queste preoccupazioni. L’aver diviso il mondo in maniera – mi pare – “talebana”, fra “quelli che stanno con noi e quelli contro di noi”, crea ovviamente i presupposti per quel clima da caccia alle streghe di cui l’America ha gia’ sofferto negli anni Cinquanta col maccartismo, quando tanti intellettuali, funzionari di Stato ed accademici, ingiustamente accusati di essere comunisti o loro simpatizzanti, vennero perseguitati, processati e in moltissimi casi lasciati senza lavoro.

Il tuo attacco, Oriana – anche a colpi di sputo – alle “cicale” ed agli intellettuali “del dubbio” va in quello stesso senso. Dubitare e’ una funzione essenziale del pensiero; il dubbio e’ il fondo della nostra cultura. Voler togliere il dubbio dalle nostre teste e’ come volere togliere l’aria ai nostri polmoni. Io non pretendo affatto d’aver risposte chiare e precise ai problemi del mondo (per questo non faccio il politico), ma penso sia utile che mi si lasci dubitare delle risposte altrui e mi si lasci porre delle oneste domande.

In questi tempi di guerra non deve essere un crimine parlare di pace. Purtroppo anche qui da noi, specie nel mondo “ufficiale” della politica e dell’establishment mediatico, c’e’ stata una disperante corsa alla ortodossia. E come se l’America ci mettesse gia’ paura. Capita cosi’ di sentir dire in televisione a un post-comunista in odore di una qualche carica nel suo partito, che il soldato Ryan e’ un importante simbolo di quell’America che per due volte ci ha salvato. Ma non c’era anche lui nelle marce contro la guerra americana in Vietnam?

Per i politici – me ne rendo conto – e’ un momento difficilissimo. Li capisco e capisco ancor piu’ l’angoscia di qualcuno che, avendo preso la via del potere come una scorciatoia per risolvere un piccolo conflitto di interessi terreni si ritrova ora alle prese con un enorme conflitto di interessi divini, una guerra di civilta’ combattuta in nome di Iddio e di Allah. No. Non li invidio, i politici.

Siamo fortunati noi, Oriana. Abbiamo poco da decidere e non trovandoci in mezzo ai flutti del fiume, abbiamo il privilegio di poter stare sulla riva a guardare la corrente.

Ma questo ci impone anche grandi responsabilita’ come quella, non facile, di andare dietro alla verita’ e di dedicarci soprattutto “a creare campi di comprensione, invece che campi di battaglia”, come ha scritto Edward Said, professore di origine palestinese ora alla Columbia University, in un saggio sul ruolo degli intellettuali uscito proprio una settimana prima degli attentati in America.

Il nostro mestiere consiste anche nel semplificare quel che e’ complicato. Ma non si puo’ esagerare, Oriana, presentando Arafat come la quintessenza della doppiezza e del terrorismo ed indicando le comunita’ di immigrati musulmani da noi come incubatrici di terroristi.

Le tue argomentazioni verranno ora usate nelle scuole contro quelle buoniste, da libro Cuore, ma tu credi che gli italiani di domani, educati a questo semplicismo intollerante, saranno migliori? Non sarebbe invece meglio che imparassero, a lezione di religione, anche che cosa e’ l’Islam? Che a lezione di letteratura leggessero anche Rumi o il da te disprezzato Omar Kayan? Non sarebbe meglio che ci fossero quelli che studiano l’arabo, oltre ai tanti che gia’ studiano l’inglese e magari il giapponese?

Lo sai che al ministero degli Esteri di questo nostro paese affacciato sul Mediterraneo e sul mondo musulmano, ci sono solo due funzionari che parlano arabo? Uno attualmente e’, come capita da noi, console ad Adelaide in Australia.

Mi frulla in testa una frase di Toynbee: “Le opere di artisti e letterati hanno vita piu’ lunga delle gesta di soldati, di statisti e mercanti. I poeti ed i filosofi vanno piu’ in la’ degli storici. Ma i santi e i profeti valgono di piu’ di tutti gli altri messi assieme”.

Dove sono oggi i santi ed i profeti? Davvero, ce ne vorrebbe almeno uno! Ci rivorrebbe un San Francesco. Anche i suoi erano tempi di crociate, ma il suo interesse era per “gli altri”, per quelli contro i quali combattevano i crociati. Fece di tutto per andarli a trovare. Ci provo’ una prima volta, ma la nave su cui viaggiava naufrago’ e lui si salvo’ a malapena. Ci provo’ una seconda volta, ma si ammalo’ prima di arrivare e torno’ indietro. Finalmente, nel corso della quinta crociata, durante l’assedio di Damietta in Egitto, amareggiato dal comportamento dei crociati (“vide il male ed il peccato”), sconvolto da una spaventosa battaglia di cui aveva visto le vittime, San Francesco attraverso’ le linee del fronte. Venne catturato, incatenato e portato al cospetto del Sultano. Peccato che non c’era ancora la Cnn – era il 1219 – perche’ sarebbe interessantissimo rivedere oggi il filmato di quell’incontro. Certo fu particolarissimo perche’, dopo una chiacchierata che probabilmente ando’ avanti nella notte, al mattino il Sultano lascio’ che San Francesco tornasse, incolume, all’accampamento dei crociati.

Mi diverte pensare che l’uno disse all’altro le sue ragioni, che San Francesco parlo’ di Cristo, che il Sultano lesse passi del Corano e che alla fine si trovarono d’accordo sul messaggio che il poverello di Assisi ripeteva ovunque: “Ama il prossimo tuo come te stesso”. Mi diverte anche immaginare che, siccome il frate sapeva ridere come predicare, fra i due non ci fu aggressivita’ e che si lasciarono di buon umore sapendo che comunque non potevano fermare la storia.

Ma oggi? Non fermarla puo’ voler dire farla finire. Ti ricordi, Oriana, Padre Balducci che predicava a Firenze quando noi eravamo ragazzi? Riguardo all’orrore dell’olocausto atomico pose una bella domanda: “La sindrome da fine del mondo, l’alternativa fra essere e non essere, hanno fatto diventare l’uomo piu’ umano?”. A guardarsi intorno la risposta mi pare debba essere “No”.

Ma non possiamo rinunciare alla speranza.

“Mi dica, che cosa spinge l’uomo alla guerra?”, chiedeva Albert Einstein nel 1932 in una lettera a Sigmund Freud. “E possibile dirigere l’evoluzione psichica dell’uomo in modo che egli diventi piu’ capace di resistere alla psicosi dell’odio e della distruzione?” Freud si prese due mesi per rispondergli. La sua conclusione fu che c’era da sperare: l’influsso di due fattori – un atteggiamento piu’ civile, ed il giustificato timore degli effetti di una guerra futura – avrebbe dovuto mettere fine alle guerre in un prossimo avvenire.

Giusto in tempo la morte risparmio’ a Freud gli orrori della Seconda Guerra Mondiale.

Non li risparmio’ invece ad Einstein, che divenne pero’ sempre piu’ convinto della necessita’ del pacifismo. Nel 1955, poco prima di morire, dalla sua casetta di Princeton in America dove aveva trovato rifugio, rivolse all’umanita’ un ultimo appello per la sua sopravvivenza:

“Ricordatevi che siete uomini e dimenticatevi tutto il resto”.

Per difendersi, Oriana, non c’e’ bisogno di offendere (penso ai tuoi sputi ed ai tuoi calci). Per proteggersi non c’e’ bisogno d’ammazzare. Ed anche in questo possono esserci delle giuste eccezioni.

M’e’ sempre piaciuta nei Jataka, le storie delle vite precedenti di Buddha, quella in cui persino lui, epitome della non violenza, in una incarnazione anteriore uccide. Viaggia su una barca assieme ad altre 500 persone. Lui, che ha gia’ i poteri della preveggenza, “vede” che uno dei passeggeri, un brigante, sta per ammazzare tutti e derubarli e lui lo previene buttandolo nell’acqua ad affogare per salvare gli altri.

Essere contro la pena di morte non vuol dire essere contro la pena in genere ed in favore della liberta’ di tutti i delinquenti. Ma per punire con giustizia occorre il rispetto di certe regole che sono il frutto dell’incivilimento, occorre il convincimento della ragione, occorrono delle prove. I gerarchi nazisti furono portati dinanzi al Tribunale di Norimberga; quelli giapponesi responsabili di tutte le atrocita’ commesse in Asia, furono portati dinanzi al Tribunale di Tokio prima di essere, gli uni e gli altri, dovutamente impiccati. Le prove contro ognuno di loro erano schiaccianti. Ma quelle contro Osama Bin Laden?

“Noi abbiamo tutte le prove contro Warren Anderson, presidente della Union Carbide. Aspettiamo che ce lo estradiate”, scrive in questi giorni dall’India agli americani, ovviamente a mo’ di provocazione, Arundhati Roy, la scrittrice de Il Dio delle piccole cose: una come te, Oriana, famosa e contestata, amata ed odiata. Come te, sempre pronta a cominciare una rissa, la Roy ha usato della discussione mondiale su Osama Bin Laden per chiedere che venga portato dinanzi ad un tribunale indiano il presidente americano della Union Carbide responsabile dell’esplosione nel 1984 nella fabbrica chimica di Bhopal in India che fece 16.000 morti. Un terrorista anche lui? Dal punto di vista di quei morti forse si’.

L’immagine del terrorista che ora ci viene additata come quella del “nemico” da abbattere e’ il miliardario saudita che, da una tana nelle montagne dell’Afghanistan, ordina l’attacco alle Torri Gemelle; e’ l’ingegnere-pilota, islamista fanatico, che in nome di Allah uccide se stesso e migliaia di innocenti; e’ il ragazzo palestinese che con una borsetta imbottita di dinamite si fa esplodere in mezzo ad una folla. Dobbiamo pero’ accettare che per altri il “terrorista” possa essere l’uomo d’affari che arriva in un paese povero del Terzo Mondo con nella borsetta non una bomba, ma i piani per la costruzione di una fabbrica chimica che, a causa di rischi di esplosione ed inquinamento, non potrebbe mai essere costruita in un paese ricco del Primo Mondo. E la centrale nucleare che fa ammalare di cancro la gente che ci vive vicino? E la diga che disloca decine di migliaia di famiglie? O semplicemente la costruzione di tante piccole industrie che cementificano risaie secolari, trasformando migliaia di contadini in operai per produrre scarpe da ginnastica o radioline, fino al giorno in cui e’ piu’ conveniente portare quelle lavorazioni altrove e le fabbriche chiudono, gli operai restano senza lavoro e non essendoci piu’ i campi per far crescere il riso, muoiono di fame?

Questo non e’ relativismo. Voglio solo dire che il terrorismo, come modo di usare la violenza, puo’ esprimersi in varie forme, a volte anche economiche, e che sara’ difficile arrivare ad una definizione comune del nemico da debellare.

I governi occidentali oggi sono uniti nell’essere a fianco degli Stati Uniti; pretendono di sapere esattamente chi sono i terroristi e come vanno combattuti.

Molto meno convinti pero’ sembrano i cittadini dei vari paesi. Per il momento non ci sono state in Europa dimostrazioni di massa per la pace; ma il senso del disagio e’ diffuso cosi’ come e’ diffusa la confusione su quel che si debba volere al posto della guerra.

“Dateci qualcosa di piu’ carino del capitalismo”, diceva il cartello di un dimostrante in Germania.

“Un mondo giusto non e’ mai NATO”, c’era scritto sullo striscione di alcuni giovani che marciavano giorni fa a Bologna. Gia’. Un mondo “piu’ giusto” e’ forse quel che noi tutti, ora piu’ che mai, potremmo pretendere. Un mondo in cui chi ha tanto si preoccupa di chi non ha nulla; un mondo retto da principi di legalita’ ed ispirato ad un po’ piu’ di moralita’.

La vastissima, composita alleanza che Washington sta mettendo in piedi, rovesciando vecchi schieramenti e riavvicinando paesi e personaggi che erano stati messi alla gogna, solo perche’ ora tornano comodi, e’ solo l’ennesimo esempio di quel cinismo politico che oggi alimenta il terrorismo in certe aree del mondo e scoraggia tanta brava gente nei nostri paesi.

Gli Stati Uniti, per avere la maggiore copertura possibile e per dare alla guerra contro il terrorismo un crisma di legalita’ internazionale, hanno coinvolto le Nazioni Unite, eppure gli Stati Uniti stessi rimangono il paese piu’ reticente a pagare le proprie quote al Palazzo di Vetro, sono il paese che non ha ancora ratificato ne’ il trattato costitutivo della Corte Internazionale di Giustizia, ne’ il trattato per la messa al bando delle mine anti-uomo e tanto meno quello di Kyoto sulle mutazioni climatiche. L’interesse nazionale americano ha la meglio su qualsiasi altro principio. Per questo ora Washington riscopre l’utilita’ del Pakistan, prima tenuto a distanza per il suo regime militare e punito con sanzioni economiche a causa dei suoi esperimenti nucleari; per questo la Cia sara’ presto autorizzata di nuovo ad assoldare mafiosi e gangster cui affidare i “lavoretti sporchi” di liquidare qua e la’ nel mondo le persone che la Cia stessa mettera’ sulla sua lista nera.

Eppure un giorno la politica dovra’ ricongiungersi con l’etica se vorremo vivere in un mondo migliore: migliore in Asia come in Africa, a Timbuctu come a Firenze.

A proposito, Oriana. Anche a me ogni volta che, come ora, ci passo, questa citta’ mi fa male e mi intristisce. Tutto e’ cambiato, tutto e’ involgarito. Ma la colpa non e’ dell’Islam o degli immigrati che ci si sono installati. Non son loro che han fatto di Firenze una citta’ bottegaia, prostituita al turismo! E successo dappertutto. Firenze era bella quando era piu’ piccola e piu’ povera. Ora e’ un obbrobrio, ma non perche’ i musulmani si attendano in Piazza del Duomo, perche’ i filippini si riuniscono il giovedi’ in Piazza Santa Maria Novella e gli albanesi ogni giorno attorno alla stazione.

E cosi’ perche’ anche Firenze s’e’ “globalizzata”, perche’ non ha resistito all’assalto di quella forza che, fino ad ieri, pareva irresistibile: la forza del mercato.

Nel giro di due anni da una bella strada del centro in cui mi piaceva andare a spasso e’ scomparsa una libreria storica, un vecchio bar, una tradizionalissima farmacia ed un negozio di musica. Per far posto a che? A tanti negozi di moda. Credimi, anch’io non mi ci ritrovo piu’.

Per questo sto, anch’io ritirato, in una sorta di baita nell’Himalaya indiana dinanzi alle piu’ divine montagne del mondo. Passo ore, da solo, a guardarle, li’ maestose ed immobili, simbolo della piu’ grande stabilita’, eppure anche loro, col passare delle ore, continuamente diverse e impermanenti come tutto in questo mondo.

La natura e’ una grande maestra, Oriana, e bisogna ogni tanto tornarci a prendere lezione. Tornaci anche tu. Chiusa nella scatola di un appartamento dentro la scatola di un grattacielo, con dinanzi altri grattacieli pieni di gente inscatolata, finirai per sentirti sola davvero; sentirai la tua esistenza come un accidente e non come parte di un tutto molto, molto piu’ grande di tutte le torri che hai davanti e di quelle che non ci sono piu’. Guarda un filo d’erba al vento e sentiti come lui. Ti passera’ anche la rabbia. Ti saluto, Oriana e ti auguro di tutto cuore di trovare pace.

Perche’ se quella non e’ dentro di noi non sara’ mai da nessuna parte.

(fonte)

Ciò che mi terrorizza del terrorismo (tra stupidi e avvoltoi)

Tanto per provare a capirsi in mezzo a tutto questo letamaio. Charlie Hebdo ha pubblicato anche copertine come questa:

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Io ho il terrore di chi sarebbe disposto a trasformare l’indignazione cristiana di fronte a questa immagine in violenza armata. Ho il terrore che poi siano le stesse persone che seminano odio in risposta all’odio, violenza contro la violenza, tradendo il Vangelo più di questa vignetta. Ho il terrore che non riusciremo a restare abbastanza umani per accorgersi che la differenza è tra i violenti e gli altri, non tra musulmani contro tutti.

E ho la pelle d’oca ogni volta che mi accorgo quanto sia subito pronta a scattare l’animalità più becera degli sciacalli che comunque, nonostante tutto, già oggi ci hanno guadagnato dai morti di Parigi.