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sentenza

Cosa mi piace del dibattito sulla sentenza di Mafia Capitale

Dunque è stata emessa la sentenza (di primo grado) per il processo Mafia Capitale. Che, anche se si chiama Mafia Capitale, ora questi esultano perchè sono solo criminali, corrotti e corruttori e non mafiosi. E così si è alzato tutto un ghirigori di esperti sulla sentenza che in sostanza urlano “avevo ragione!”, oppure “che schifo!”.

Si passa da chi ci vorrebbe convincere che Carminati e compagni abbiano fatto semplicemente una cazzata, come se avessero esagerato un po’ con il bere e dall’altra parte c’è chi dice che il Tribunale di Roma ha stabilito che non esiste la mafia a Roma, come se si trattasse di un giudizio universale, mica di un processo specifico.

Poi, immancabilmente, ci sono i professionisti della lotta alle fake news (le vedono ovunque) che in base all’appartenenza rovesciano il vero e il falso del fake nella news. Fantastico.

Chi ha scritto un pezzo molto sensato è Gilioli (ne ho scritto qui).

Ma l’aspetto più divertente è che tutti discutono una sentenza di cui mancano le motivazioni (ovviamente non sono state ancora depositate). In pratica tutti si azzuffano accusandosi di avere “inventato” notizie facendo leva su una sentenza che non abbiamo ancora letta per intero. Fantastico. Bravi. Avanti così.

Ora è sentenza: la ‘ndrangheta esiste

Struttura_ndrangheta

Ne scrive Attilio Bolzoni per Repubblica:

La mafia non ci sarà ad Ostia – come assicurano i giudici della Corte di Appello di Roma – però, in Calabria, sicuramente la ‘ndrangheta c’è. Detta così potrebbe sembrare anche una banalità, ma per la prima volta — ieri — la Cassazione ha messo il suo bollo sull’esistenza in vita di questa associazione criminale segreta. Una sentenza di ultimo grado attesta che la ‘ndrangheta non è un’invenzione letteraria o giornalistica, è una mafia con i suoi capi e le sue regole, è una mafia pericolosissima che per lungo tempo ha considerato la Calabria il cortile di casa propria.

Se lo ricorderanno i boss di Reggio, e quelli della Piana di Gioia Tauro e gli altri dell’Aspromonte, il 17 giugno del 2016 — un venerdì 17, sarà un caso? — data indimenticabile per la giustizia italiana e anche per loro, i capi di una consorteria di assassini che per decenni è rimasta al riparo, lontana dai riflettori, nascosta, impenetrabile.

La ‘ndrangheta c’è, è una e una sola («Ha una struttura unitaria»), ha un governo («È un vertice collegiale chiamato “la Provincia”») composto da rappresentanti delle «locali» («Le organizzazioni che comandano sul territorio ») di Reggio Calabria, della costa tirrenica e di quella jonica e che ha potere in tutti i luoghi — il mondo intero — dove si è diffusa e radicata. Questa sentenza della Suprema Corte ha un valore che non è eccessivo definire storico. Come quello della Cassazione del 30 gennaio del 1992 sul maxi processo istruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, fino ad allora c’era una mafia dominante ma per la legge sempre presunta. Così oggi, come un quarto di secolo fa per Cosa Nostra, nel marmo della giurisprudenza viene scolpito il nome ‘ndrangheta.

È il gran finale di una battaglia portata avanti dallo Stato dopo anni di colpevole «dimenticanza» dell’aristocrazia criminale calabrese, un’associazione ritenuta a torto «minore» e che in virtù della scarsa considerazione che godeva negli apparati investigativi-giudiziari — ma anche perché aveva strategicamente scelto di non fare la guerra alle Istituzioni come la Cosa Nostra di Totò Riina in Sicilia — nel cono d’ombra è riuscita a conquistarsi spazio e ricchezza. E, stagione dopo stagione, fama di mafia più ricca e potente d’Europa con ambasciatori e alleati dall’Australia al Venezuela, dal Messico al Portogallo. Naturalmente con una capacità enorme di infiltrazione anche in Italia, soprattutto a Roma, a Milano, in Emilia, in Piemonte.

Una scalata silenziosa fino all’assassinio a Locri nell’ottobre del 2005 del vicepresidente del consiglio regionale Francesco Fortugno e fino alla strage di Duisburg dell’agosto del 2007, sei ragazzi di San Luca uccisi fuori da un ristorante sulle rive del Reno. Da quel momento anche la ‘ndrangheta è diventata un’«emergenza nazionale». Sono cominciate le indagini vere dopo gli anni del «dialogo» e della non belligeranza con le cosche, del quieto vivere. A Reggio è arrivata una squadra di primissima scelta di investigatori dell’Arma dei carabinieri, della polizia e della finanza con il nuovo procuratore Giuseppe Pignatone e il suo vice Michele Prestipino (a loro si sono affiancati nei vari gradi di giudizio i pubblici ministeri Giovanni Musarò e Antonio De Bernardo) che hanno portato in Calabria un «metodo» — collaudato nelle «campagne» di Palermo — che ha rivoluzionato le indagini. Così è nata nel 2008 l’inchiesta «Crimine» fra le procure distrettuali di Reggio Calabria e di Milano e così si è messa la parola fine, con la sentenza della Cassazione di ieri pomeriggio, alle incertezze più o meno interessate sull’esistenza di una ‘ndrangheta come mafia dotata di una sua classe dirigente e con un’ossatura capillare non solo nelle terre di origine ma con presenze significative anche in tutti e cinque i Continenti.

È appena sei anni fa — il 30 marzo del 2010 — che il legislatore ha aggiunto a «Cosa Nostra» e a «Camorra», la parola «’Ndrangheta» fra le pieghe dell’articolo 416 bis, l’associazione di tipo mafioso. È nel 2008 che sono partite le prime indagini che hanno scoperto la realtà di una mafia calabrese, non un insieme di bande slegate una dall’altra ma un’organizzazione unica. È nel luglio del 2010 che sono stati firmati 121 provvedimenti di custodia cautelare contro altrettanti personaggi. I capi di Rosarno e di Gioia Tauro, di Palmi, di Locri, di Platì, di Africo. In primo grado, l’8 marzo del 2012, ne sono stati condannati una novantina e, soprattutto, ha retto l’impianto accusatorio sull’«unitarietà » dell’organizzazione. In secondo grado, il 27 febbraio del 2014, condanne quasi

tutte confermate e tesi dei pm che hanno tenuto al vaglio dei giudici d’Appello. Adesso la Cassazione ha scritto l’ultimo capitolo su una mafia considerata in passato di serie B. E che invece, dopo le stragi siciliane del 1992, ha salvato con le sue trame il sistema criminale italiano.

Leggere la sentenza, magari, su Beppe Sala

sala

Insomma ci dicono che la questione dell’incandidabilità di Sala sia l’ennesimo bluff degli ennesimi gufi. Che in verità questa volta sono grilli (è il M5S) ma ormai il gufo è un animale onnicomprensivo. E anzi se spiate sulle bacheche Facebook dei candidati in sostegno a Sala vedrete che lamentano questa “perdita di tempo” che hanno dovuto sorbirsi. E allora forse vale la pena leggere la sentenza:

«L’ineleggibilità deve essere tenuta nettamente distinta dall’incandidabilità. Quest’ultima implica l’impossibilità di prendere parte, fin dall’inizio, alla competizione elettorale (T.A.R. Catania, sez. III, 25/03/2015, n. 843) e conduce alla nullità delle elezioni (si veda quale dato positivo in tal senso le disposizioni di cui al D.lgs. n. 235/2012), a differenza, invece, dell’ineleggibilità che non invalida l’ammissione della lista e comporta, quale unico effetto, la decadenza del solo candidato, senza ulteriori conseguenze sugli altri esiti del voto (T.A.R. Campobasso, sez. I, 19/02/2010, n. 134) […]

(il mio buongiorno per Left continua qui)

Mauro Rostagno: 26 anni per riconoscere il volto.

ROSTAGNOErgastolo per entrambi gli imputati del processo per l’omicidio di Mauro Rostagno. Dopo oltre due giorni di camera di consiglio la condanna alla pena perpetua per Vincenzo Virga, capomandamento della mafia di Trapani, e per il killer Vito Mazzara è stata letta dal Presidente Pellino alle 23,30 nell’aula Falcone di Trapani.

I due mafiosi erano accusati di essere l’organizzatore-mandante e l’esecutore dell’omicidio portato a termine la sera del 26 settembre del 1988 in contrada Lenzi, nelle campagne di Trapani. La condanna arriva dunque a ventisei anni dal fatto e dopo una lunga serie di depistaggi che si sono susseguiti nel tempoErgastolo per entrambi gli imputati del processo per l’omicidio di Mauro Rostagno.

Nel giorno del compleanno della figlia Maddalena finalmente arriva una sentenza che ristabilisce un briciolo di verità. E può farci solo bene.

Piemonte e ‘ndrangheta: la sentenza Minotauro

Raccontata da Attilio Occhipinti per generazionezero.org:

Puntuale alle 17 arriva il momento del giudizio. Oltre alla Regione Piemonte, alla Provincia di Torino e alle altre amministrazioni comunali costituitesi parti civili vi è anche don Luigi Ciotti. Sono 36 gli imputati condannati, circa la metà di loro è stata assolta. Questo è, in estrema sintesi, il bilancio di un processo che ha smascherato udienza dopo udienza il gioco della ‘ndrangheta in Piemonte.
L’operazione nata nel 2006 ha portato, nell’estate del 2011, all’arresto di 146 persone. Le indagini hanno portato alla luce il regno della malavita di stampo calabrese nel territorio piemontese, che, attraverso il favore di una certa politica piegata alla causa criminale, ha potuto godere di diversi privilegi. Il sequestro di milioni di euro di beni tra terreni, appartamenti e altri immobili, il giro degli stupefacenti, quello delle estorsioni, senza tralasciare quello del gioco d’azzardo, la speculazione attorno all’edilizia, di cui, tra l’altro, il collaboratore di giustizia Rocco Varacalli aveva parlato nel programma Presa Diretta. Tutto questo è Minotauro.
Dopo il comune di Bardonecchia, sciolto per mafia nel 1995, i comuni di Leini e Rivarolo sono “saltati” nel 2012 durante il corso delle indagini. A questo proposito, tornando alla sentenza, da segnalare le condanne di 10 anni per Nevio Coral, ex sindaco di Leini, e di 2 anni (più 600 euro di multa) ad Antonino Battaglia, ex segretario del comune di Rivarolo. Invece, per l’eurodeputato Fabrizio Bertot (PdL), ex sindaco di Rivarolo, è stata disposta la trasmissione degli atti in procura, affinché si indaghi per voto di scambio. La condanna più lunga, 21 anni e 6 mesi (più 4mila euro di multa), è stata invece inflitta a Vincenzo Argirò, considerato uno dei capi del Crimine (per questo e altri termini si veda il glossario) del capoluogo piemontese, mentre Salvatore Demasi, secondo la Procura capo locale di Rivoli, è stato condannato a 14 anni (3 in libertà vigilata).

Naturalmente non possiamo citare tutti i condannati, ma abbiamo riportato gli attori più in vista di questo losco giro di affari, favori e corruzione che tiene banco nel nordovest d’Italia. Sono, infatti,  nove le locali ‘ndranghetiste che nel corso di tutti questi mesi sono venute fuori dalle indagini e chissà quante altre ancora ce ne saranno.
Le vicende piemontesi sembrano avvicinarsi più al mito del vaso di Pandora che a quello del Minotauro, ma, mitologia a parte, siamo oramai ben lungi dal credere che il potere mafioso in queste terre sia meno forte di quel che si possa credere. È facile pensare che siamo solo all’inizio.

Ma perché?

Ma perché mentre si continua a parlare tra falchi e colombe della condanna per evasione fiscale di Silvio Berlusconi nessuno si è accorto (o ha voluto accorgersi) delle motivazioni allegate alla sentenza di condanna per Marcello Dell’Utri dove l’evasore Berlusconi viene riconosciuto inopportunamente vicino a Cosa Nostra?

Perché nessuno ha dato peso politico al fatto che  “è stato acclarato definitivamente che Dell’Utri ha partecipato a un incontro organizzato da lui stesso e (dal mafioso palermitano Gaetano) Cinà a Milano, presso il suo ufficio. Tale incontro, al quale erano presenti Dell’Utri, Gaetano Cinà, Stefano Bontade, Mimmo Teresi, Francesco Di Carlo e Silvio Berlusconi, aveva preceduto l’assunzione di Vittorio Mangano presso Villa Casati ad Arcore, così come riferito da Francesco Di Carlo e de relato da Antonino Galliano, e aveva siglato il patto di protezione con Berlusconi”?

Perché, al di là della frode fiscale, non si parla del fatto che “in virtù di tale patto – l’incontro- i contraenti (Cosa nostra da una parte e Silvio Berlusconi dall’altra) e il mediatore contrattiale (Marcello Dell’Utri), legati tra loro da rapporti personali, hanno conseguito un risultato concreto e tangibile, costituito dalla garanzia della protezione personale dell’imprenditore mediante l’esborso di somme di denaro che quest’ultimo ha versato a Cosa nostra tramite Marcello Dell’Utri che, mediando i termini dell’accordo, ha consentito che l’associazione mafiosa rafforzasse e consolidasse il proprio potere sul territorio mediante l’ingresso nelle proprie casse di ingenti somme di denaro”?

Perché non si dice che Berlusconi pagò 100 milioni di lire al mafioso Cinà per avere protezione?

Perché il centrosinistra è così lontano dalla legalità come non mai e vorrebbe insegnarci che chi la rincorre è solo un’anima bella? Quanto comodo fa tutto questo silenzio sulla sentenza Dell’Utri? A chi?

Stanotte conto le domande. Mica le pecore.

Un completo accantonamento dei principi-cardine dello Stato di diritto

Nella caserma di Bolzaneto, nei giorni successivi al G8 di Genova del 2001, il “clima” fu quello di un “completo accantonamento dei principi-cardine dello Stato di diritto”. La Cassazione motiva così la sentenza emessa il 14 giugno scorso, a carico degli agenti imputati per le violenze sui no global.

“Furono negati cibo e acqua” ai giovani fermati. “Fu vietato loro anche di andare in bagno e dovettero urinarsi addosso”. Un “trattamento gravemente lesivo della dignità delle persone”. Accuse pesanti quelle scritte di giudici della Cassazione.

“Vessazioni continue e diffuse in tutta la struttura” quelle a cui vennero sottoposti i no global reclusi. Non si trattò di “momenti di violenza che si alternavano a periodi di tranquillità – osservano gli ‘ermellini’ – ma dell’esatto contrario”. Un clima violento che sfociò nella costrizione rivolta ai fermati di inneggiare al fascismo.

In quei giorni caldi di luglio, la caserma di Polizia di Bolzaneto si trasformò in un “carcere provvisiorio” dove lo Stato di diritto fu soffocato da “un’atmosfera di soverchiante ostilità” a cui tutti, o quasi tutti, gli agenti contribuirono distribuendo violenza fisica e psicologica su ogni recluso: “Non c’erano celle dove non volassero calci e pugni e schiaffi” al minimo tentativo di protesta.

La Cassazione punta il dito contro chi era preposto al comando: “Non è da dubitarsi – scrivono i magistrati della Suprema corte – che ciascuno dei comandanti dei sottogruppi, avendo preso conoscenza di quanto accadeva, fosse soggetto all’obbligo di impedere l’ulteriore protrarsi delle consumazioni dei reati”. Cosa che non avvenne in quell’isola senza diritto in cui era stata trasformata la caserma di Bolzaneto.

‘Giornalismo d’inchiesta’: un po’ di chiarezza

Sono molti gli amici e colleghi che incorrono in denunce per diffamazione usate come avvertimenti morbidi per produrre un abbassamento generale di toni. Il giornalismo d’inchiesta cammina spesso sul crinale della calunnia contestata come prima reazione di chi si sente colpito in malafede e spesso in malafede incorre in un eccesso di difesa per proteggere un’impunità dall’informazione. La “sentenza Gabanelli” che ha sancito l’assoluzione della giornalista di Report ha chiarito molti punti importanti per la professione e più in generale sui confini giuridici della curiosità. Commentandola scrive l’avvocato Sabrina Peron:

La Corte di Cassazione, sezione penale, con la sentenza 27/2/2013 n. 9337, ha confermato l’assoluzione della giornalista Gabanelli, per un’inchiesta trasmessa dal programma Report sulle sofisticazioni dell’olio d’oliva. Secondo la Cassazione il risvolto del diritto all’espressione del pensiero del giornalista costituito al diritto della collettività ad essere informate non solo sulle notizie di cronaca ma anche sui temi sociali di particolare rilievo attinenti alla liberta, alla sicurezza, alla salute e agli altri diritti di interesse generale, sia operativo in concreto. Operativo evidentemente, alla condizione che, il sospetto e la denuncia siano esternati sulla base di elementi obiettivi e rilevanti. Difatti, nel giornalismo d’inchiesta il sospetto che non sia meramente congetturale o peggio ancora calunniatorio, deve mantenere il proprio carattere propulsivo e induttivo di approfondimenti, essendo autonomo e, di per sé, ontologicamente distinto dalla nozione di attribuzione di un fatto non vero.

E, come sottolinea la Peron, anche le sentenze passate tengono il punto:

Le inchieste giornalistiche consistono nel resoconto di attività di scavo, di ricerca ed indagine effettuate allo scopo di portare alla luce «verità nascoste», tramite il collegamento critico e ragionato di fatti, notizie e commenti (cfr. sull’argomento: AMADORE, L’inchiesta, in AA.VV, La professione del giornalista, CDG, Roma 2009, 113). Il giornalismo di inchiesta, è espressione più alta e nobile dell’attività di informazione; con tale tipologia di giornalismo, infatti, maggiormente si realizza il fine di detta attività quale prestazione di lavoro intellettuale volta alla raccolta, al commento e alla elaborazione di notizie destinate a formare oggetto di comunicazione interpersonale attraverso gli organi di informazione, per sollecitare i cittadini ad acquisire conoscenza di tematiche meritevoli, per il rilievo pubblico delle stesse (Cass. 2010/13269).

Le inchieste si distinguono, a seconda della tipologia, in investigative e conoscitive. Le prime ricercano della verità attraverso la ricostruzione di «vicende oscure le cui responsabilità rappresentano un mistero per la pubblica opinione» (Papuzzi Professione giornalista, Donzelli, 1998, 68). Quelle conoscitive, invece, informano «sulla società e la cultura del tempo in cui viviamo», non riguardano «avvenimenti precisi e specifici, come l’inchiesta di tipo investigativo», indagando invece i «fenomeni che segnano una società (Papuzzi Professione giornalista, cit.).

Al giornalismo di inchiesta, quale species del lavoro giornalistico, deve essere riconosciuta ampia tutela ordinamentale, tale da comportare in relazione ai limiti regolatori, dell’attività di informazione, qualegenus, già individuati dalla giurisprudenza di legittimità, una meno rigorosa e comunque diversa applicazione dell’attendibilità della fonte, fermi restando i limiti dell’interesse pubblico alla notizia e del linguaggio continente, ispirato ad una correttezza formale; è, infatti, evidente che nel giornalismo di inchiesta, viene meno l’esigenza di valutare l’attendibilità e la veridicità della provenienza della notizia, dovendosi ispirare il giornalista, nell’“attingere” direttamente l’informazione, principalmente ai criteri etici e deontologici della sua attività professionale, quali tra l’altro menzionati nell’ordinamento ex lege n. 69/1963 e nella Carta dei doveri (con particolare riferimento alla Premessa). Ne consegue che detta modalità di fare informazione non comporta violazione dell’onore e del prestigio di. soggetti giuridici, con relativo discredito sociale, qualora ricorrano: l’aggettivo interesse a rendere consapevole l’opinione pubblica di fatti ed avvenimenti socialmente rilevanti; l’uso di un linguaggio non offensivo e la non violazione di correttezza professionale. Inoltre, il giornalismo di inchiesta è da ritenersi legittimamente esercitato ove, oltre a rispettare la persona e la sua dignità, non ne leda la riservatezza per quanto in generale statuito dalle regole deontologiche in tema di trattamento dei dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica (Cass. 2010/13269).

E’ noto che giurisprudenza consolidata ritiene che il diritto di informazione possa esercitarsi anche qualora ne derivi una lesione dell’altrui reputazione, prestigio o decoro, a condizione che si tratti di un argomento di pubblico interesse (c.d. pertinenza), che siano rispettati i limiti dell’obiettività e della correttezza della forma espressiva (c.d. continenza) e che l’informazione sia sostanzialmente veritiera; quest’ultimo in uno con il conseguente dovere di esaminare, verificare e controllare – in termini di adeguata serietà professionale – la consistenza della relativa fonte di informazione (ex multis Cass. 5081/2010).

L’art. 21 Cost. – analogamente all’art. 10 CEDU – non protegge unicamente le idee favorevoli o inoffensive o indifferenti, nei confronti delle quali non si pone alcuna esigenza di tutela, essendo al contrario principalmente rivolto a garantire la libertà proprio delle opinioni che urtano, scuotono o inquietano (Cass. 25138/2007).

Sulla base di tale principio, la recente sentenza della Corte di cassazione che qui si pubblica, ribadisce che il «giornalismo di denuncia è tutelato dal principio costituzionale in materia di diritto alla libera manifestazione del pensiero, quando indichi motivatamente e argomentatamente un sospetto di illeciti, con il suggerimento di una direzione di indagine agli organi inquirenti o una denuncia di situazioni oscure che richiedono interventi normativi per poter essere chiarite».

Dunque – salvo il caso in cui il sospetto sia obiettivamente del tutto assurdo, e sempreché sussista anche il requisito del’interesse pubblico all’oggetto dell’indagine giornalistica – l’operato dell’autore del servizio è destinato a ricevere una tutela primaria rispetto a colui su cui il sospetto è destinata eventualmente a ricadere.

Come da tempo enunciato dalla giurisprudenza, l’interesse pubblico «è qualcosa di profondo e di serio, rivolto come esso è a permettere al lettore di rendersi conto delle situazioni di vita narrate al solo fine più generale della possibilità concreta d’insegnamento per la collettività e di miglioramento della convivenza, onde la pretesa coincidenza tra interesse sociale ed esigenze del pubblico può anche mancare» (App. Roma, 16.01.1991, FI, 1992, I, 942).

In particolare il «risvolto del diritto all’espressione del pensiero del giornalista costituito al diritto della collettività ad essere informate non solo sulle notizie di cronaca ma anche sui temi sociali di particolare rilievo attinenti alla liberta, alla sicurezza, alla salute e agli altri diritti di interesse generale, sia operativo in concreto. Operativo evidentemente, alla condizione che, il sospetto e la denuncia siano esternati sulla base di elementi obiettivi e rilevanti. Difatti, nel giornalismo d’inchiesta il sospetto che non sia meramente congetturale o peggio ancora calunniatorio, deve mantenere il proprio carattere propulsivo e induttivo di approfondimenti, essendo autonomo e, di per sé, ontologicamente distinto dalla nozione di attribuzione di un fatto non vero».

Per questo la sentenza vale la pena leggerla e conservarla (se volete da qui: Cass 9337 2013 giornalismo inchiesta)