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Uno vale uno ma congresso lo stesso

Ma chi dovrebbe volere un congresso, la scelta di un capo in un partito in cui gli unici capi avrebbero dovuto essere gli elettori e in cui semplicemente serviva un garante per il rispetto del regolamento interno? A proposito di regolamento interno: perché Di Maio avrebbe dato il via libera all’abolizione della regola dei 2 mandati (in particolare alle sindache Virginia Raggi e Chiara Appendino), in quale veste. E poi: chi c’è dietro l’estromissione di Casaleggio dagli ultimi movimenti interni al Movimento 5 Stelle? Oltre al non invito agli stati generali dell’economia a Casaleggio ormai ben pochi parlamentari versano i 300 euro mensili per l’Associazione Rousseau. A proposito di soldi: che fine hanno fatto i tagli agli stipendi degli eletti (fatevi un giro sul sito tirendiconto.it per verificare con i vostri occhi) e i famosi mega assegni che Beppe Grillo mostrava (giustamente) soddisfatto con tutte le restituzioni?

E poi: Beppe Grillo? Del Movimento 5 Stelle (a parte quelli comodamente seduti al governo) si sente solo la voce di ritorno di Alessandro Di Battista che ora torna alla carica per riprendersi in mano il Movimento (con posizioni completamente opposte ai suoi compagni di partito sul Mes che “non rispetterebbe gli interessi nazionali”, detto come un Salvini qualunque, e contro Conte che se vuole fare il leader “deve iscriversi al M5S”, come se non sapesse che il progetto di Conte è tutt’altro). Quelli che “uno vale uno” ora vogliono fare un congresso perché uno valga più degli altri, un altro dopo Grillo, dopo Casaleggio e dopo tutti quelli che in realtà valevano di più ma non avevano il fegato di ammetterlo.

Allora facciamo una cosa, cari amici del Movimento 5 Stelle: riconoscete che la maturazione di un movimento in forma-partito è la naturale sequenza delle cose in politica, riconoscete che molta dell’innovazione che avete sventolato è stata perlomeno annacquata (per usare un eufemismo) e mettetevi a fare politica con gli organi democratici che la Costituzione prevede. Semplicemente. Avrebbero dovuto aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno e ora sono i tonni pronti a farsi pescare dal nuovo leader all’orizzonte. È normale, accade sempre così. E chissà se qualcuno nel Partito Democratico comincia a capire che questa alleanza (e questo governo) poggia su un Movimento che non è mai stato in movimento com’è adesso.

Buon lunedì.

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“Il problema degli Usa sono 400 anni di schiavitù, ma qui in Italia non siamo messi meglio”: parla Igiaba Scego

Igiaba Scego è una scrittrice di origini somale che vive a Roma. Da sempre si occupa di stranieri, di integrazione e di diritti. Il suo ultimo libro è “La linea del colore” edito da Bompiani che ha come protagonista una donna afroamericana dell’ottocento che scopre l’Italia. L’abbiamo intervistata per TPI.

Negli USA è in atto una vera e propria rivoluzione culturale. Lei si occupa da anni di questi temi, come vede la narrazione di ciò che accade?
Due tipi di narrazione. Quella dei media mainstream che non hanno capito niente di quello che sta succedendo: stanno osservando questi movimenti con delle lenti molto vecchie e anche sbagliate. Quando mi tolgo gli occhiali io che sono miope vedo tutto sfocato e molti media mi hanno dato questa stessa sensazione, tranne alcune eccezioni come la giornalista de Il Manifesto Marina Catucci, veramente puntuale, Arianna Farinelli, Martino Mazzonis. Questo mi ha meravigliato perché l’immaginario statunitense è molto popolare, si pensa “almeno li conosciamo” e invece no. Noto la stessa nebulosità che scorgo quando si parla di Africa. Poi per fortuna c’è quella che arriva da giornali e esperti in lingua originale. E devo dire che è quello che mi ha aiutato ad orientarmi. Per esempio non mi perdo mai i commenti della professoressa Ruth Ben Ghiat che da anni ci spiega i meccanismi dello stato americano.

Quale distorsione nota più delle altre?
Questo parlare di saccheggi piuttosto che parlare del cuore del movimento. Molti giornali non hanno raccontato ai lettori cosa c’era prima, quei 400 anni di oppressione. Mancano ponti tra qui e lì. Io sono scrittrice e la stessa cosa la vedo nell’editoria: l’editoria italiana ha pubblicato negli ultimi anni moltissimi afroamericani ma non c’è stato quel passaggio necessario da editoria ai giornali e media in genere che aprisse un sano dibattito su questi libri e permettesse una loro diffusione anche scolastica.

Quindi si è perso ciò che è avvenuto negli anni precedenti, non ci sono stati ambasciatori e ponti. Si arriva così a non capire perché questa lotta è così lunga, non si riflette sulla genesi della schiavitù, questo è un grosso gap scolastico che non ha permesso a molti italiani di capire fenomeni come schiavitù, segregazioni negli USA e perfino lotte per i diritti civili. Pochi hanno letto Toni Morrison, anche tra i professionisti dell’informazione. E quindi mi ha colpito questo indugiare su aspetti marginali senza andare al cuore del problema. Manca una preparazione all’America, io ho visto “molta ignoranza”. Molto non sapere. Quello che si conosce è solo superficiale.

Negli USA il dibattito si è aperto non solo sulla violenza che ha portato per ultimo alla morte di Floyd, ma anche sulla profilazione razziale delle Forze dell’Ordine. C’è un razzismo insito anche nella gestione italiana secondo lei?
Sulla polizia non saprei dirti. Posso dirti che loro, negli USA, hanno questa storia di schiavitù ma da loro anche chi è contro i neri sa cosa è successo mentre in Italia quello che c’è dietro di noi, come il colonialismo, non è molto conosciuto, c’è una rimozione totale e non ci fa capire che quegli stereotipi continuano a agire sui corpi del presente. A me ha sempre colpito come per esempio le leggi italiane sull’immigrazione si basino quasi sempre su un modello astratto, su questo cosidetto altro che non è un potenziale cittadino ma un potenziale suddito coloniale, il modello è quello del sudditto somalo, eritreo o libico dei tempi del colonialismo italiano. si continua cos’ a perpetuare l’idea dello straniero nella legislazione come suddito, una persona senza diritti.

Non è un caso che la Bossi-Fini e i Decreti Sicurezza più la mancata riforma sulla cittadinanza siano delle costanti nella politica italiana, perché vale lo ius sanguinis e non lo ius soli o lo ius culturae, un Paese trincerato nel suo sangue che poi se lo andiamo a “analizzare” storicamente questo famigerato sangue risulta essere è quello più meticcio del mondo. Questo mi sconvolge, questa storia passata mai discussa che si ripresenta in forma di legge e ci incasina il presente, il modello è ancora quello coloniale sarebbe interessantissimo che i giuristi ci lavorassero su questo, su come decolonizzare le leggi perché sono troppo pieni di passato.

Vede dei casi di razzismo endemici in Italia, anche da parte di quelli che non sono consapevolmente razzisti?
Il razzismo in Italia non è solo anti nero ma è anche anti meridionale. Ad esempio due ore fa stavo andando al supermercato, dove due persone stavano litigando e un signore ha detto a una signora “sporca calabrese”. Qui c’è una questione meridionale che è la mamma di tutti i razzismi italiani, quello che è stato fatto al Sud è lo stesso trattamento riservato alle colonie. Quando avevo 25 anni avevo fatto un colloquio di lavoro vestita come sono sempre vestita e la persona che avevo davanti mi ha detto “lei è musulmana, si vede” io gli ho detto “deve farmi colloquio di lavoro” e lui “ma voi volete pause di preghiera e ramadan”: sono uscita e ho pianto, è un razzismo altrettanto umiliante. Ho smesso perché ai tempi mi vedevano e mi dicevano sempre no. Lo vedi dallo sguardo e poi c’è stato tanto razzismo biologico, dalle elementari mi chiamavano sporca negra e mi hanno buttato un barattolo di coleotteri in testa “perché sono neri come te”. Oppure odiavo negli anni ’90, ero ancora adolescente, quando si fermavano le macchine mentre stavo alla fermata ad aspettare il bus e ti facevano vedere i soldi chiedendo sesso orale, perché nera significava prostituta.

Io ho imparato a schivarli anche. Ho imparato a reagire. Mia madre dice che il razzismo non lo combatti urlando, ma lo combatti con la riflessione e la conoscenza anche quando sei nel mezzo del disastro, lei mi ha sempre detto di uscirne con una frase arguta, è l’unico modo. Mia madre, James Baldwin e Malcom X sono stati i miei maestri nell’usare la riflessione, le parole, per questo scrivo. Volevo capire come mai mi succedevano una serie di cose e volevo capire qual era la radice, sempre storica. In tutto questo ho trovato molti alleati, penso alla mia professoressa di italiano alle superiori, ai professori universitari che mi hanno dato strumenti che mi hanno cambiato la prospettiva. Sandro Portelli mi ha insegnato molte cose della vita, con l’Italia che ha tutte l sue complicazioni. Ho applicato la strumentazione che loro hanno applicato alla loro lotta e alla loro riflessione teorica.

Come le sembra il dibattito politico italiano sul tema?
Qui non c’è dibattito. Qui il dibattito è finito con il tradimento sulla legge sulla cittadinanza. Poi si è riesumato un discorso sulle regolarizzazioni molto mercantile. Io ho questa sensazione di tante lotte fatte anche collettive: afrodiscendenti, albanesi, arabi, sudamericani, i loro figli nati qui italiani senza diritti e poi anche moltissimi italiani bianchi… Ecco tutti noi ci siamo ritrovati dal 2005 fino al governo Renzi a lottare in piazza, cambiavano le piazze, c’erano tanti bambini e tecnicamente con le scuole abbiamo lavorato moltissimo (penso a due scuole di Roma in particolare la Pisacane e la Di Donato i cui professori si sono spesi tantissimo per far avere diritti ai loro studenti) , però poi questa lotta è stata tradita da tutto l’arco costituzionale: la destra ha fatto ostruzionismo ma gli altri l’hanno reso possibile ed è una cicatrice che mi fa molto male.

Poi c’è stata la raccolta firme dei Radicali e quella era una buona iniziativa ma poi a causa degli eventi caduta nel vuoto e adesso il dibattito è stato sulle regolarizzazioni perché servivano braccia per l’ortofrutta e basta. Queste persone cadono in irregolarità per un meccanismo della Bossi-Fini, sono ricattabili in situazione di pandemia, dovremmo avere più persone regolari possibili ma così è stato un mercato degli schiavi. Io capisco gli sforzi di chi ha chiesto la regolarizzazione ma il risultato è stato misero. Servirebbe più coraggio: l’Italia non può pensare che sia un tema possibile da scacciare in eterno, il Paese è già cambiato, io alla manifestazione per George Floyd a Roma ero con i miei 46 anni vecchia in confronto a chi è sceso in piazza. Tu vedi che hai seconde e terze generazioni, più di 50 anni di popolazione transculturale che ha varie origini. Ma ancora tutto questo non si trasforma in quotidianità. E come se ci fossero enormi barriere. Così non vedi maestri, autisti dell’autobus, professori con altra origine: alcuni luoghi del lavoro non sono al passo con i tempi. Anche nell’editoria.

Lei è fiduciosa che la lezione che arriva dagli USA possa avere un impatto importante anche qui?
Secondo me quella americana è una grande rivoluzione culturale perché gli afrodiscendenti sono legati tra loro, è una rete, per noi sono un modello e quello che sta succedendo negli Usa è clamoroso, è una rivoluzione culturale, non è solo rabbia per Floyd ma è un momento che è stato preparato negli ultimi 20 anni. Da loro la cultura è sempre stata forte, nella musica nella letteratura, i premi Pulitzer quest’anno molti erano neri e penso al disco di Beyoncè di alcuni anni fa tutto sull’identità nera. Questo forse spingerà pure noi qui ad avere una riflessione più ampia e profonda, probabilmente ci spingerà a produrre più libri, più musica, più film, più lotte sociali e non solo afrodiscendenti, perché l’Italia ha una migrazione a mosaico, complessa, fatta di tante diversità che vanno dall’Est Europa al Sudamerica.

Già vedo dei talenti per esempio del giornalismo come Angelo Boccato e Adil Mauro che non parlano solo di immigrazione o della loro identità, ma usano il loro sguardo per riflettere sui nodi della società. Adil e Angelo mi fanno ben sperare per il futuro. Ma ecco tutto deve partire da una riflessione anche storica che attraversa il dolore che abbiamo provato, In Italia nel 1979 un uomo somalo, Ahmed Ali Giama, in piazza della Pace a Roma è stato bruciato viva e Giacomo Valent nel 1985 è stato ucciso con 63 coltellate, era il fratello della prima eurodeputata nera Dacia Valent, ho scritto per Feltrinelli su questo (“Politica della violenza”, Feltrinelli Editore). In Brasile c’è stata Marielle Franco e ognuno sta producendo cultura e rivendicazioni partendo dalle proprie ferite, dai propri martiri e chiaramente questo momento rimarrà a lungo e potrà provocare cambiamenti perché i cambiamenti sono sempre prima culturali e poi sociali.

Leggi anche: 1. Quanti contagi possono causare le proteste in Usa? Un virologo ha provato a calcolarlo / 2. Si sposano in mezzo alla protesta per George Floyd a Philadelphia: “È stato ancora più memorabile” /3.  George Floyd, Minneapolis smantella il dipartimento di polizia: “Vogliamo un nuovo modello di sicurezza” /4. Banksy e l’omaggio a George Floyd: “Il razzismo è un problema dei bianchi”

L’articolo proviene da TPI.it qui

«Non riesco a respirare»

Eric Garner, George Floyd, Riccardo Magherini, Federico Aldrovandi… Sono morti che rimangono ai bordi delle strade, riemergono quando l’indignazione scoppia e poi vengono riseppellite di nuovo.

Il 17 luglio 2014, a Staten Island, l’agente Daniel Pantaleo afferrò per il collo fino a soffocare Eric Garner. «Non riesco a respirare», urlava disperato Garner. Morì senza respiro. George Floyd ha ripetuto «non riesco a respirare» negli otto minuti e 46 secondi in cui il poliziotto Derek Chauvin gli premeva il ginocchio sulla gola. I due si conoscevano, erano stati colleghi come buttafuori in un nightclub. Anche questa volta c’è un video che lascia pochi dubbi e che mostra i fatti. Poi c’è la macchina giudiziaria e quella, quando si tratta di forze dell’ordine, si inceppa in declinazioni mostruose: “Non ci sono elementi fisici che supportano una diagnosi di asfissia traumatica o di strangolamento”, dice il referto dell’autopsia, “gli effetti combinati dell’essere bloccato dalla polizia, delle sue patologie pregresse e di qualche potenziale sostanza intossicante nel suo corpo hanno probabilmente contribuito alla sua morte”. Alla fine sarà morto di droga. Sembra una storia già vista, eh?

I neri vengono ammazzati, preferibilmente se adolescenti: nel 2012 il 17enne Trayvon Martin in Florida, nel 2014 il 18enne Michael Brown a Ferguson, Missouri, finisce sempre così: i poliziotti assassini sono assolti, scoppiano le rivolte razziali, arriva la Guardia nazionale e comincia il coprifuoco. Secondo uno studio della National Academy of Sciences in Nord America la sesta causa di morte tra gli uomini di età tra i 25 e i 29 anni è un arresto di polizia per gli appartenenti a uno stesso nucleo etnico: rispetto ai bianchi, gli uomini afroamericani sono 2,5 volte più a rischio, le donne 1,4 volte. Per i nativi uomini, il rischio è di 1,2-1,7 volte maggiore, mentre per le donne tale fattore è compreso tra 1,1 e 2,1. Per gli uomini latini, infine, la probabilità cresce di 1,3-1,4 volte rispetto ai bianchi.

Ma non è tutto. Fatal Encounters è un sito fondato e diretto dal giornalista D. Brian Burghart che attraverso un’accurata rassegna stampa anche di testate minori e locali, ha raccolto in un database gli estremi di oltre 24.000 uccisioni effettuate dalla polizia dal 1° gennaio 2000 ad oggi: alla data del 6 gennaio 2019 venivano elencate 1810 vittime della polizia colpite tra il 1° gennaio e il 31 dicembre 2018. Questo significa che la polizia, prima ancora di un processo, ha ucciso 72 volte più persone di quante ne siano state messe a morte a seguito di una procedura giudiziaria.

Poi c’è il resto: un presidente incendiario che con il sorriso di Nerone osserva le proteste blindato nel suo ufficio spargendo parole di odio e di fuoco. Il mandante morale e morbido dello scontro ha gli occhietti iniettati di Trump.

Poi ci sono gli italiani che si dimenticano i nostri morti che non riuscivano a respirare: «mio figlio Federico è morto nello stesso modo di George Floyd. Schiacciato sotto le ginocchia e il peso di un poliziotto mentre chiedeva aiuto e diceva “non riesco a respirare”», ha scritto Patrizia Moretti, mamma di Federico Aldrovrandi. Urlava la stessa frase Riccardo Magherini, morto la notte del 3 marzo 2014 quando venne fermato dai carabinieri.

Sono morti che rimangono ai bordi delle strade, riemergono quando l’indignazione scoppia e poi vengono riseppellite di nuovo.

Buon lunedì.

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Oui, il Pd c’est moi

Non è tanto Matteo Renzi che stupisce. Renzi è così, piaccia o no, prendere o lasciare, e anche se paga lo scotto di una personalità piuttosto arrembante sempre pronta a sfociare nel bullismo, Renzi nel Pd sta facendo il Renzi, niente di nuovo, il suo solito copione.

Il tema piuttosto è un altro ed è ben altro dall’ex presidente del consiglio o l’ex segretario di turno ed è tutto incentrato sulle minoranze che nel Partito democratico si sono via via succedute e che paiono tutte le volte incagliarsi sullo stesso punto: il coraggio.

La direzione del partito di ieri (che ha praticamente votato sull’intervista televisiva del suo ex segretario) dimostra ancora una volta l’incapacità di elaborare, organizzare e sostenere una visione differente dalla maggioranza riuscendola a spiegare ai propri elettori e prendendosi la briga di portarla avanti anche nei luoghi decisionali del partito.

Mi spiego: al di là di quella che può essere la mia opinione personale su ciò che dovrebbe fare il Pd con il Movimento 5 stelle (e certo spetta al Pd deciderlo più che agli agguerriti editorialisti che si sentono tutti segretari oltre che allenatori) la scena di ieri porta con sé qualcosa di sgraziato nell’esito del voto: si direbbe, leggendo il risultato, che non sia mai esistita una posizione diversa da quella maggioritaria, come se tutto il can can dei giorni scorsi fosse solo una nostra allucinazione.

E non ce ne vorrà il ministro Orlando (e il reggente Martina) se non crediamo alla soffice giustificazione di chi dice «l’importante è essere unitari»: se si avesse così a cuore la solidità percepita da fuori forse si eviterebbero certi toni da tifo. Il tema è un altro: nel Partito democratico tutti si sgolano sulle differenze di posizione ma risultano pochissimo convincenti nei successivi riallineamenti. Tutte le volte. Sempre. Con quella sensazione di fondo che si sia semplicemente rimandata la coltellata e si finga che non sia successo niente.

Poi, però, sono gli stessi che ci dicono che «il Pd si cambia da dentro». E l’ha fatto solo Renzi, pensandoci bene.

Buon venerdì.

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Rimangono solo l’asinello e il bue

Sono andati a messa, i senatori assenti che hanno affossato lo Ius soli, si sono fatti accarezzare dal loro parroco e hanno pregato a mani giunte in bella mostra con tutta la giunzione che ci si aspetta da un Natale che precede di pochi mesi le prossime elezioni. Staranno inscenando tutta la bontà di cui sono capaci, protagonisti del pranzo in cui loro, da esimi senatori, danno lezioni di mondo come si addice a una classe dirigente sempre diligente alla proiezione che vogliono dare di se stessi.

Faranno foto tutto il giorno stando bene attenti a non inquadrare regali troppo costosi per non inimicarsi “la base”, con qualche spruzzata di qualche nonno ché la vecchiaia ha sempre il suo bell’effetto di tenerezza e, sicuro, inonderanno i propri social con mielose frasi di pace rubate da qualche sito di aforismi trovato grazie a google.

Poi, immancabile, ci sarà il presepe, che di questi tempi è l’olio di ricino a forma di statuette.

Fotograferanno, ignoranti, quell’immagine che rappresenta la nascita di un bambino palestinese rifugiato in Egitto, i tre Magi (un uzbeko, un somalo e un siriano), i pastori pieni di cenci e portatori di malattie, quella madre e quel padre che da irresponsabili hanno pensato bene di avere un figlio senza nemmeno avere una casa e nemmeno un lavoro e in più fotograferanno le pessime condizioni igieniche in cui sono abituati a vivere perché è “la loro cultura”.

Poi racconteranno ai figli e ai nipotini di Babbo Natale, di minoranza etnica lappone che vorrebbe fingersi finlandese.

E alla fine rimangono solo il bue e l’asinello. E l’ipocrisia, a fiumi, insieme al prosecco.

Buon Natale.

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Banalizzare, criminalizzare, purché non se ne parli: il metodo No Tav applicato ai No Tap

Accade così: si alza la polvere facendo in modo di convincerci che la polvere sia il lascito dei violenti, si formano le squadriglie di picchiatori politici contro “quelli che dicono no a tutto”, si scialacqua solidarietà un po’ a caso in favore delle forze dell’ordine anche quando non ci sono disordini e si sventola il feticcio del progresso inevitabile (o del thatcheriano “non c’è alternativa”) per chiudere il discorso.

Ma il discorso, quello vero, quello che parte delle analisi e che per svilupparsi dovrebbe comprendere anche la possibilità che i decisori diano risposte convincenti, quel discorso in realtà non avviene mai. Ora ci manca solo che si faccia male qualcuno e poi anche i “No Tap” sono cotti a puntino per diventare la forma contemporanea dei “No Tav” in salsa pugliese. Le mosse piano piano si stanno incastrando tutte e anche l’ultimo tweet del senatore del PD Stefano Esposito (“Ogni giorno che passa i #NOTAP assomigliano drammaticamente ai #notav un grazie alle nostre #FFOO”) certifica che il processo si avvia a dare i suoi frutti.

Negli ultimi due giorni risuona soprattutto la barzelletta degli ulivi: “i no Tap? ambientalisti preoccupati per qualche manciata di alberi che verranno prontamente rimessi al loro posto” dicono più o meno i banalizzatori di partito. E fa niente se le ragioni della preoccupazione siano tutte scritte in un parere del 2014 di ben 37 pagine dell’Arpa protocollato dalla Regione Puglia (lo trovate qui); non importa che l’Espresso abbia raccontato come (ma va?) gli interessi particolari delle mafie abbiano messo qualcosa in più degli occhi sul progetto (è tutto qui) e non importa nemmeno che le motivazioni della protesta non siano contro il progetto in toto ma sulla località di approdo che era la peggiore delle soluzioni possibili: l’importante è che la protesta No Tap possa essere messa velocemente nel cassetto dei signornò e si divida subito tra le solite fazioni.

A questo aggiungeteci l’italica inclinazione alla servitù (come nel caso della viceministra Bellanova, PD, che si diceva contraria da candidata e ora seduta sulla poltrona da viceministro se la prende con Michele Emiliano perché si occupa più della sua regione piuttosto che della fedeltà agli ordini del capo) e vi accorgerete che di tutto si parla tranne che dell’analisi del dissenso.

 

(continua su Left)

Ma i 180 milioni di euro che la Lega ha preso (e speso indebitamente) da Roma ladrona?

(Un pezzo di Francesco Giurato e Antonio Pitoni per Il Fatto Quotidiano)

Dalla Lega Lombarda alla Lega Nord, transitando dalla prima alla seconda repubblica a suon di miliardi (di lire) prima e milioni (di euro) poi generosamente elargiti dallo Stato. Dal 1988 al 2013sono finiti nelle casse del partito fondato da Umberto Bossi e oggi guidato da Matteo Salvini, dopo la parentesi di Roberto Maroni, 179 milioni 961 mila. L’equivalente di 348 miliardi 453 milioni 826 mila lire. Una cuccagna, sotto forma di finanziamento pubblico e rimborsi elettorali, durata oltre un quarto di secolo. Ma nonostante l’ingente flusso di denaro versato nei conti della Lega oggi il piatto piange. Ne sanno qualcosa i 71 dipendenti messi solo qualche mese fa gentilmente alla porta dal Carroccio. Sorte condivisa anche dai giornalisti de “La Padania”, storico organo ufficiale del partito, che ha chiuso i battenti a novembre dell’anno scorso non prima, però, di aver incassato oltre 60 milioni di euro in 17 anni. Insomma, almeno per ora, la crisi la pagano soprattutto i dipendenti. In attesa che la magistratura faccia piena luce anche su altre responsabilità. A cominciare da quelle relative allo scandalo della distrazione dei rimborsi elettorali, che l’ex amministratore della Lega Francesco Belsito avrebbe utilizzato in parte per acquistare diamanti, finanziare investimenti tra Cipro e la Tanzania  e per comprare, secondo l’accusa, perfino una laurea in Albania al figlio prediletto del Senatùr, Renzo Bossi, detto il Trota. Vicenda sulla quale pendono due procedimenti penali, uno a Milano e l’altro a Genova.

MANNA LOMBARDA Fondata nel 1982 da Umberto Bossi, è alle politiche del 1987 che la Lega Lombarda, precursore della Lega Nord, conquista i primi due seggi in Parlamento. E nel 1988, anno per altro di elezioni amministrative, inizia a beneficiare del finanziamento pubblico: 128 milioni di lire (66 mila euro). Un inizio soft prima del balzo oltre la soglia del miliardo già nel 1989, quando riesce a spedire anche due eurodeputati a Strasburgo: 1,03 miliardi del vecchio conio (536 mila euro) di cui 906 milioni proprio come rimborso per le spese elettorali sostenute per le elezioni europee. Somma che sale a 1,8 miliardi lire (962 mila euro) nel 1990, per poi scendere a 162 milioni (83 mila euro) nel 1991 alla vigilia di Mani Pulite. Nel 1992 la Lega Lombarda, diventata proprio in quell’anno Lega Nord, piazza in Parlamento una pattuglia di 55 deputati e 25 senatori. E il finanziamento pubblico lievita a 2,7 miliardi di lire (1,4 milioni di euro) prima di schizzare, l’anno successivo, a 7,1 miliardi (3,7 milioni di euro). Siamo nel 1993: sulla scia degli scandali di tangentopoli, con un referendum plebiscitario (il 90,3% dei consensi) gli italiani abrogano il finanziamento pubblico ai partiti. Che si adoperano immediatamente per aggirare il verdetto popolare, introducendo il nuovo meccanismo del fondo per le spese elettorale (1.600 lire per ogni cittadino italiano) da spartirsi in base ai voti ottenuti. Un sistema che resterà in vigore fino al 1997 e che consentirà alla Lega di incassare 11,8 miliardi di lire (6,1 milioni di euro) nel 1994, anno di elezioni politiche che fruttano al Carroccio, grazie all’alleanza con Forza Italia, una pattuglia parlamentare di 117 deputati e 60 senatori. Nel 1995 entrano in cassa 3,7 miliardi (1,9 milioni di euro) e altri 10 miliardi (5,2 milioni di euro) nel 1996.

RIMBORSI D’ORO L’anno successivo, nuovo maquillage per il sistema di calcolo dei finanziamenti elettorali. Arriva «la contribuzione volontaria ai movimenti o partiti politici», che lascia ai contribuenti la possibilità di destinare il 4 per mille dell’Irpef(Imposta sul reddito delle persone fisiche) al finanziamento di partiti e movimenti politici fino ad un massimo di 110 miliardi di lire (56,8 milioni di euro). Non solo, per il 1997, una norma transitoria ingrossa forfetariamente a 160 miliardi di lire (82,6 milioni di euro) la torta per l’anno in corso. E, proprio per il ’97, per la Lega arrivano 14,8 miliardi di lire (7,6 milioni di euro) che scendono però a 10,6 (5,5 milioni di euro) iscritti a bilancio nel 1998. Un campanello d’allarme che suggerisce ai partiti l’ennesimoblitz normativo che, puntualmente, arriva nel 1999: via il 4 per mille, arrivano i rimborsi elettorali (che entreranno in vigore dal 2001). In pratica, il totale ripristino del vecchio finanziamento pubblico abolito dal referendum del 1993 sotto mentite spoglie: contributo fisso di 4.000 lire per abitante e ben 5 diversi fondi (per le elezioni della Camera, del Senato, del Parlamento Europeo, dei Consigli regionali, e per i referendum) ai quali i partiti potranno attingere. Con un paletto: l’erogazione si interrompe in caso di fine anticipata della legislatura.

ELEZIONI, CHE CUCCAGNA Intanto, sempre nel 1999, per la Lega arriva un assegno da 7,6 miliardi di lire (3,9 milioni di euro), cui se ne aggiungono altri due da 8,7 miliardi (4,5 milioni di euro) nel 2000 e nel 2001. E’ l’ultimo anno della lira che, dal 2002, lascia il posto all’euro. E, come per effetto dell’inflazione, il contributo pubblico si adegua alla nuova valuta: da 4.000 lire a 5 euro, un euro per ogni voto ottenuto per ogni anno di legislatura, da corrispondere in 5 rate annuali. E per la Lega, tornata di nuovo al governo nel 2001, è un’escalation senza sosta: 3,6 milioni di euro nel 2002, 4,2 nel 2003, 6,5 nel 2004 e 8,9 nel 2005. Una corsa che non si arresta nemmeno nel 2006, quando il centrodestra viene battuto alle politiche per la seconda volta dal centrosinistra guidato da Romano Prodi: nonostante la sconfitta, il Carroccio incassa 9,5 milioni e altri 9,6 nel 2007. Niente a confronto della cuccagna che inizierà nel 2008, quando nelle casse delle camicie verdi finiscono la bellezza di 17,1 milioni di euro.

CARROCCIO AL VERDE E’ l’effetto moltiplicatore di un decreto voluto dal governo Berlusconi in base al quale l’erogazione dei rimborsi elettorali è dovuta per tutti i 5 anni di legislatura, anche in caso discioglimento anticipato delle Camere. Proprio a partire dal 2008, quindi, i partiti iniziano a percepire un doppio rimborso, incassando contemporaneamente i ratei annuali della XV e della XVI legislatura. Nel 2009 il partito di Bossi sale così a 18,4 milioni per toccare il record storico con i 22,5 milioni del 2010. Anno in cui, sempre il governo Berlusconi, abrogherà il precedente decreto ponendo fine allo scandalo del doppio rimborso. E anche i conti della Lega ne risentiranno: 17,6 milioni nel 2011. La cuccagna finisce nel 2012 quando il governo Monti taglia il fondo per i rimborsi elettorali del 50%. Poi la spallata finale inferta dall’esecutivo di Enrico Letta che fissa al 2017 l’ultimo anno di erogazione dei rimborsi elettorali prima della definitiva scomparsa. Per il Carroccio c’è ancora tempo per incassare 8,8 milioni nel 2012 e 6,5 nel 2013. Mentre “La Padania” chiude i battenti e i dipendenti finiscono in cassa integrazione.

FINANZIAMENTI E RIMBORSI ELETTORALI ALLA LEGA NORD

(1988-2013)

1988 € 66.249,25 (128.276.429 lire)
1989 € 536.646,25 (1.039.092.041 lire)
1990 € 962.919,55 (1.864.472.246 lire)
1991 € 83.903,87 (162.460.547 lire)
1992 € 1.416.991,83 (2.743.678.776 lire)
1993 € 3.707.939,87 (7.179.572.723 lire)
1994 € 6.125.180,49 (11.860.003.225 lire)
1995 € 1.915.697,39 (3.709.307.393 lire)
1996 € 5.207.659,00 (10.083.433.932 lire)
1997 € 7.648.834,36 (14.810.208.519 lire)
1998 € 5.518.448,11 (10.685.205.533 lire)
1999 € 3.947.619,62 (7.643.657.442 lire)
2000 € 4.539.118,41 (8.788.958.807 lire)
2001 € 4.511.422,19 (8.735.332.610)
2002 € 3.693.849,60
2003 € 4.284.061,62
2004 € 6.515.891,41
2005 € 8.918.628,37
2006 € 9.533.054,95
2007 € 9.605.470,43
2008 € 17.184.833,91
2009 € 18.498.092,86
2010 € 22.506.486.93
2011 € 17.613.520,09
2012 € 8.884.218,85
2013 € 6.534.643,57

TOTALE 179.961.382,78

Oh, eccoci

Insomma abbiamo avuto il nostro bel da fare ma alla fine siamo tornati online e dovrebbe essere tutto a posto. Se trovate qualche problema di navigazione sul sito vi chiedo di segnalarlo qui. Ah: buona giornata, intanto.