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stabilimenti balneari

Quei migranti che il Governo e l’Europa considerano carne da macello. Proprio come Salvini

Fuori da quelle navi dovrebbero attaccarci un cartello, avere il coraggio di farlo davvero, e scriverci su “carne da maneggiare con cura”. Le persone che continuano a essere alla deriva in questo Mediterraneo così tristemente uguale a se stesso non sono persone come tutti gli altri, non sono gente con un passato e con un presente o chissà perfino un futuro, quelle persone sono carne che non è buona nemmeno da mangiare ma che torna utilissima per il carpaccio della retorica politica e per essere lanciata a fette contro l’avversario di partito.

Se arrivano in Italia, come accade da 12 giorni alla Ocean Viking con a bordo 180 persone, allora sono carne pronta per essere addentata da Salvini e dai suoi amici per raccontare la solita invasione che non c’è e che non c’è mai stata, il tutto condito anche con il terrore del Covid che intanto viaggia per tutto il Veneto nella tasca di un dirigente d’azienda che ha giocato a fare il super eroe. Ma sono carne da macello anche per i partiti di governo, per quelli che vigliaccamente hanno paura di essere considerati troppo buoni, per quelli che invece i migranti li vorrebbero usare come fa certa destra ma non possono per equilibri di governo. E sono carne da macello anche per il presidente del Consiglio, che non riesce a trovare nessuna opportunità fotografica per potersi permettere di parlarne.

Sono carne da maneggiare con cura anche per la ministra Lamorgese, quella che ha usato la ferocia invisibile sui social per contrastare il feroce che è dappertutto sui social: stessi temi, stessi modi, stesso punto di vista ma atteggiamenti diversi che vorrebbero essere rivenduti come una qualità. Che qualità vacua, invece. Sono carne da maneggiare con cura anche i 52 migranti che sono a bordo del mercantile Talia che ha avuto l’ardore di ritardare la consegna del carico per salvare le persone, pensa un po’.

Quella foto di un macchinista che sorregge sulle braccia uno scheletrico profugo molle come un orologio di Dalì è il manifesto dell’Europa che tace e acconsente, che continua a fare i conti per i soldi da sparpagliare in giro ma che non ne vuole sapere di quella carne che arriva dal mare, quella carne che, disdetta, scappa ai carnefici libici che pure paghiamo così tanto e così bene. Non sono più persone, non sono più nemmeno numeri: sono carne da conservare perché non diventi rancida e non puzzi troppo alzando lo sdegno e sono carne a cui trovare un angolo dentro il congelatore senza spostare troppo tutto il resto.

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L’articolo proviene da TPI.it qui

Mafia capoccia: a Roma le cosche pascolano

ostiaPartendo dagli stabilimenti balneari di Ostia, annichilita da più di 100 arresti e dall’emersione di intrecci e alleanze mafiose, la penetrazione delle mafie a Roma grazie a decenni di silenzio

Di Pietro Orsatti e Silvia Cerami

Anticipazione del servizio in uscita sul prossimo numero de I Siciliani giovani e pubblicato in contemporanea da AntimafiaDuemila e sul blog di Pietro Orsatti.

I marmi dell’Eur, la tenuta del Presidente della Repubblica, i dormitori costruiti dai palazzinari, pochi chilometri e il mare di Ostia, il lido di Roma. Il Kursaal de I Vitelloni e il Plinius sono mezzi vuoti, i proprietari degli stabilimenti balneari non festeggiano. Pochi passi per attraversare il canale dei Pescatori e via verso il salotto buono. A segnarlo villa Papagni affacciata sul Tirreno, con i suoi putti e stucchi pacchiani, che un imprenditore e qualche suo amico amministratore sognavano di trasformare in casinò. E alle spalle Ostia che non vuol più essere borgatara, con i wine bar dell’happy hour, le vetrine griffate e persino l’area pedonale. Qui si fa lo “struscio” tutto l’anno, ma oggi no. Anche se si è in piena stagione. Nessuno si fa vedere, nessuno ha voglia di parlare. Come se fosse un set abbandonato, dove resta solo l’attesa, la tensione.

Due operazioni a meno di quindici giorni di distanza l’una dall’altra hanno portato ad un centinaio di arresti. Colpito il clan degli “zingari” vicino ai Casamonica, che dalla periferia est della Capitale sono scesi a prendersi Ostia, pezzi della vecchia Banda della Magliana, ex Nar riciclati nella criminalità organizzata, addirittura uomini di spicco della famiglia di Cosa nostra dei Caruana-Cutrera. Famiglie a cui da vent’anni non si può dire di no, gli Spada, i Fasciani, i Triassi. Una triade che ha creato una “pace armata” per spartirsi gli affari. E poi le ispezioni all’ufficio tecnico del Municipio, affacciato proprio sulla spiaggia dei Triassi, gli indagati, i vertici sospesi per appalti e concessioni a favore dei clan. E quella parola, Mafia, che a Roma si ha da sempre difficoltà a pronunciare. Invece ora si sussurra, gira fra i tavolini dei bar, negli sguardi delle persone.

La guerra che nessuno voleva vedere

«Dallo scorso anno era evidente che si era alzato il livello, che c’era chi puntava più in alto e gli equilibri rischiavano di saltare», racconta uno “sbirro” che da anni osserva l’evolversi della Roma criminale. Da quando, con due esecuzioni spietate, Francesco Antonini e Giovanni Galleoni sono stati ammazzati. Gli investigatori ritengono, oggi, proprio dagli Spada. Due quarantenni cresciuti all’ombra della Banda della Magliana, quella che si dava per estinta negli anni ’90 e che invece c’è ancora.

«Non era un regolamento di conti di poco peso, ma l’inizio della guerra». E la guerra non è solo a Ostia, ma sta insanguinando, da quasi tre anni, tutta la Capitale: da Tor Sapienza a Tor Bella Monaca, daBoccea alla Cassia e alla Flaminia, giù fino alla Laurentina e alla PontinaPiù di 60 morti in 30 mesi. A Ostia però gli equilibri, le alleanze e i confini, sono ravvicinati e visibili. Microcosmo dove è possibile tutto e tutto avviene davanti agli occhi di questa città nella città. «I fatti, meglio sarebbe dire i cadaveri che insanguinano la Capitale, danno ragione a chi sostiene l’esistenza in Roma di una criminalità organizzata operante secondo gli stilemi delle associazioni mafiose». Non l’hanno scritto oggi. Si leggeva già nel 1991 nel capitolo dedicato a Roma della relazione della commissione Antimafia presieduta da Gerardo Chiaromonte.

“Baficchio” e “Sorcanera”, come erano chiamati nel giro Antonini e Galleoni, sono morti a meno di un chilometro a ovest dalla Rotonda della dolce vita, nel territorio degli “zingari” di piazza Gasparri. Qui il sole brucia i cassonetti già anneriti dalle fiamme, tende enormi nascondono terrazzi scrostati dalla salsedine, tutte le saracinesche sono serrate. I bagnanti sono poco più in là, ma oggi le strade sono deserte. Un pit bull ringhia dietro gli ondulati, solo una vecchia vestita di nero si affaccia dalla porta sormontata da un capitello con aquila e leone di un negozio abusivo trasformato in abitazione. Meglio restare a casa, meglio nascondersi. Agli angoli delle strade solo le sentinelle: marsupio in vita e occhi attenti. Controllano chi entra e chi esce. Non per lo spaccio, non per due giornalisti, non per verificare l’arrivo delle Forze dell’Ordine, ma per il timore che, visto il numero e la qualità degli arresti delle ultime settimane, ai nemici venga la tentazione di pareggiare i conti. Qui a ‘Ostia Nuova’, nel quartiere degli Spada, si sorveglia per paura.

«È dagli anni ’80 che non si respirava un clima del genere sul litorale, ma nonostante i morti per strada, i negozi e i capanni incendiati, nessuno si è allarmato più di tanto. Fino a quando non sono scattati i blitz. Allora tutti a mostrare preoccupazione, non per il quartiere, ma per l’immagine di Ostia e per il quieto vivere». Non ha peli sulla lingua il cinquantenne nato e cresciuto a due passi dal mare, ma che vive da trent’anni metà della sua vita a Roma in un ministero. Trenino e metro, la mattina. Metro e trenino la sera. E poi via a passo spedito e testa bassa, fino al confine del Bronx attorno a piazza Gasparri, lì a due passi dal teatro di Affabulazione, uno dei primi luoghi occupati a Roma già negli anni ’70 e da sempre fortino nell’abbandono di Ostia Ponente. «Se ne sono accorti, finalmente. C’è la mafia. Ci sono i tossici e si spara, ma la mafia non è solo qui nel ghetto, non ha solo la faccia coatta. Gira con il vestito buono e fa affari con tutti».

Gli affari dietro gli ombrelloni

Scommesse clandestine, estorsioni, usura, ma non solo. A Ostia si fanno gli affari, quelli grossi. Basta guardare poco più in là. Dietro due palazzoni popolari appiccicati e la piscina abusiva pericolante, ecco l’hotel quattro stelle, il lungomare. Con il cartello “divieto di balneazione” e il bagnino pronto a sorridere ai bambini in acqua. Quattordici chilometri di concessioni e di stabilimenti in grado di fruttare 60 milioni di euro a stagione.

Pochi metri a destra il porto turistico di Roma. Quello che «porterà ricchezza». Oltre 900 posti barca, 2000 posti auto, possibilità d’attracco per mega yacht da settanta metri. Un centinaio di milioni di euro spesi. E poi bar, locali, negozi di lusso. Oggi i pochi che sono aperti vendono vestitini “made in China”, di barche non se ne vedono molte, ma si pensa ad ampliarlo lo stesso. Il raddoppio lo vogliono i balneari e gli imprenditori del cemento, anche se il porto è stato un fallimento e infatti è fallito con tanto di libri in tribunale. Storia storta fin dall’inizio. I calcinacci per costruirlo furono svelati da una mareggiata, stavano lì sotto la sabbia. Quanto al direttore, Mauro Balini, «sin dalle prime conversazioni registrate sulla sua utenza – scrive il Gip nell’ordinanza dell’operazione “Nuova Alba” che ha portato a più di 50 arresti il 26 luglio scorso e dove dopo anni si contesta per la prima volta il reato di associazione mafiosa – è stato possibile avere conferma dell’esistenza di un ambiente economico-finanziario inquietante, all’interno del quale agivano appartenenti alla criminalità organizzata interessati ai rilevanti movimenti di capitali e ai grossi investimenti che si stavano realizzando nel territorio di Ostia Lido».

Ed è lui si legge «a mantenere importanti rapporti con elevate personalità anche militari; è Balini a trattare con Cmc Ravenna; con Epd Limited London; con Italia Navigando, avvalendosi di significativi intermediari. Accedere a lui equivale ad accedere ai piani alti, e scalzare i suoi abituali collaboratori equivale ad inserirsi nel circuito degli affari presentabili».

È grande il mondo guardato attraverso la rete di affari del porto di Roma che emergono dall’inchiesta. La Cmc Ravenna, con partner e attività in mezzo mondo, è una coop che i occupa di edilizia, trasporti, logistica portuale, gestione dei rifiuti. Un colosso, come lo sono Epd London (azienda ad alta tecnologia inglese) e Italia Navigando, società del Gruppo Invitalia, l’Agenzia Nazionale per l’Attrazione degli Investimenti e lo Sviluppo d’Impresa, che si occupa di investimenti e promozione dei porti turistici nel nostro Paese.

Il porto, che è porta di accesso via mare a Roma e via privilegiata, e nascosta, per armi e droga. Il 30 per cento della coca passa da queste coste. Un affare da decine di milioni di euro al mese, cifre colossali, perché ogni carico che entra sulla piazza romana rende fino a quattrocento volte il prezzo pagato dagli importatori che lo fanno arrivare dalla Colombia, dalla Bolivia, dal Venezuela, dalle coste dell’Africa, passando per Gioia Tauro e il lido della Capitale.

Alle spalle l’Idroscalo con i cantieri super esclusivi, tra le carcasse d’auto e i divani abbandonati, nella terra di nessuno dove è stato massacrato Pier Paolo Pasolini. Il monumento per ricordarlo l’hanno dovuto chiudere dentro la riserva della Lipu, che troppe volte l’avevano distrutto.

Da sempre una zona che fa gola a tanti. Un’area tutta da rivoluzionare. Pontile, porto turistico, persino un lungomare artificiale da costruire. Erano i tempi entusiastici dell’ex sindaco Gianni Alemanno per il mega progetto “Waterfront”. Previsti investimenti faraonici, che il Lido è «un monte d’oro», spiegava l’allora presidente del Municipio, Giacomo Vizzani. Oggi al X Municipio si tagliano pure i fondi per gli insegnati di sostegno per il disavanzo lasciato dalla scorsa amministrazione, ma che importa.

Il porto da gestire e da ampliare significa soldi, tanti soldi che le organizzazioni criminali vogliono controllare. Soldi da mettere accanto agli affari che da sempre fanno ricca Ostia, quelli degli stabilimenti balneari. E quindi non stupisce leggere nelle carte dell’inchiesta in corso, che un esponente dellafamiglia Giacometti, sodalizio già entrato nel 2004 nell’inchiesta Anco Marzio, che contestò l’associazione mafiosa, poi rigettata dal tribunale di Roma – avrebbe contattato «una persona presentatagli dal senatore Luigi Grillo», proprio per accedere all’affare delle concessioni balneari, data la preoccupazione per la nuova normativa europea, che impone dal 2015 l’affidamento delle spiagge demaniali solo attraverso gare pubbliche.

La porta di Roma

Ostia, bocca per sfamare il corpo di Roma. Con le mafie tradizionali, i colletti bianchi e i delinquenti locali che si sono mossi in libertà per decenni, reinvestendo il denaro di Cosa nostra, camorra e ’ndrangheta. Dividendosi il controllo, spartendosi i soldi.

Ostia con il suo “sindaco ombra”, “Don” Carmine, a capo dei Fasciani. Già strozzino con la Banda della Magliana, vanta amicizie trasversali: dalla camorra di Michele ‘o Pazzo’ Senese, al mondo eversivo degli ex Nar di Gennaro Mokbel, passando per Paolo Papalini, il fratello presidente dell’Assobalneari. Quello che ha concesso le concessioni per gli stabilimenti e firmato “determinazioni dirigenziali” per “lavori di somma urgenza” che appaltano 14 milioni di opere senza gara. “Don” Carmine, fuori e dentro del carcere, è sempre riuscito a gestire i suoi affari, soprattutto il narcotraffico.

L’élite di Cosa Nostra

E poi i fratelli “er Mafia”, Vito e Vincenzo Triassi, considerati luogotenenti della famiglia Caruana-Cuntrera, i Rotschild della mafia. La presenza dei Cuntrea – Caruana a Ostia, già certa negli anni ’70, ma oggi con un peso ben maggiore, non è un dato di poco conto. È gente di cerniera fra i siciliani e i cugini della Cosa nostra americana. Originari dell’agrigentino e già molto attivi nel contrabbando nell’immediato Dopoguerra, con probabili collegamenti con la rete messa in piedi da Lucky Luciano e dai corsi e i marsigliesi, spostarono il baricentro del proprio business trasferendosi fra Canada, Venezuela e Brasile prima dello scoppio della prima guerra di mafia negli anni ’50. Diventarono quindi asse portante del narcotraffico fra Sicilia e Usa, anticipando perfino la ‘ndrangheta nell’affare della cocaina, tanto da aprire un rapporto preferenziale con i narcos colombiani del cartello di Calì. Implicati poi nella Pizza Connection e in altri traffici internazionali, rientrarono negli anni ’70 in Sicilia (mantenendo le basi all’estero) e insediando una famiglia di Cosa nostra proprio a Ostia. Coinvolti nella French Connection, su cui indagarono fra gli altri Giovanni Falcone e Ciaccio Montalto, giocarono probabilmente un ruolo negli eventi che portarono all’assassinio del giudice francese Pierre Michel nel 1981.

Per misurare il loro peso criminale è importante osservare quale ruolo ricoprirono nella seconda guerra di mafia. In prima battuta si schierarono con i palermitani di Stefano Bontade e degli Inzerillo per poi saltare sulle barricate dei corleonesi guidati da Totò Riina. Una delle famiglie che ha pagato meno la dittatura dei “viddani” di Corleone e anzi ha accresciuto il proprio business con la “mattanza”. Oggi vederli centrali, se pur in ritirata a davanti all’offensiva degli Spada e soprattutto dei Fasciani, fa pensare. Fa pensare soprattutto perché Ostia è una delle porte di accesso per il traffico europeo della cocaina e ancora dell’eroina. Perché hanno cercato e trovato alleanze con pezzi della vecchia Banda della Magliana..

“Alba Nuova” e le altre inchieste che stanno interessando il litorale romano sembrano colpire tutti, ma i Cuntrea – Caruana, pur accusando in qualche modo il colpo, da una uscita di scena anche per via giudiziaria dei rivali Fasciani e Spada hanno tutto da guadagnare. Anche perché difficilmente si sono prestati a essere braccio dei colletti bianchi locali. Ostia conta, ma è solo un tassello di una trama ampia e complessa, una particolarità che il pentito di Cosa nostra Gaspare Spatuzza descrive con inquietante esattezza: «La cosa che ho notato che rispetto alla mafia, la mafia palermitana o siciliana che sia, a Roma hanno tutta un’altra mentalità, nel senso che non si vogliono sporcare le mani direttamente; il romano cerca di farsi proteggere le spalle; agire in seconda fila e però investire più…per avere più proventi possibile. Quindi cerca di non apparire ed esporsi (…) Sono ancora più criminali della manovalanza….perché fin quando sei sulla sfera ‘braccio armato’ e ‘braccio operativo’, diciamo, viene più facile localizzarli, ma dietro le quinte…». :

I “pudori” delle istituzioni

Timidamente intanto si comincia a prendere atto della escalation militare e affaristica delle mafie che insanguina non solo sul litorale, ma tutta la Capitale. Timidamente, anche se oramai, dopo decine di morti in “regolamenti di conti”, è impossibile non parlare di guerra di mafia. Dal centro alla periferia. Dai romani della “Banda” fino agli “scissionisti” e i Casalesi, dalla ‘ndrangheta a Cosa nostra che investono in attività commerciali e immobili di pregio in centro, ai Casamonica e alle loro enclave diventate fortini, fino ad arrivare agli stranieri che operano attraverso una sorta di rete di subappalti criminali. Una timidezza che porta il Prefetto Giuseppe Pecoraro al termine della riunione del Comitato per l’ordine e la sicurezza a parlare di «fatti e comportamenti riconducibili alla criminalità organizzata», salvo poi nascondere la mano con un pilatesco «non parliamo di colletti bianchi, non mi sento di includerli».

La banda mai diventata ex

Si ha la sensazione di essere precipitati nel passato. Ostia, Roma. Per tornare verso il centro si percorre la Cristoforo Colombo. Qui a poche centinaia di metri dalla zona residenziale bene dell’Ardeatino, con le finestre vista parco e i palazzi in cortina, qualche giorno fa un uomo è entrato in un centro estetico. «C’è Cinzia?», ha domandato. La donna, Cinzia Pugliese, si è presentata e l’uomo con tutta calma ha estratto una pistola e l’ha gambizzata. Il procuratore Giuseppe Pignatone parla di un possibile collegamento con il clan Fasciani. E la Pugliese non era certo una sconosciuta. Per anni infatti avrebbe avuto una relazione con Angelo Angelotti, ucciso il 28 aprile dello scorso anno a Spinaceto durante una rapina. Angelo Angelotti, uomo di spicco della vecchia Banda della Magliana, quello che avrebbe organizzato l’imboscata nel 1990 in via del Pellegrino a Enrico De Pedis, il capo, “Renatino”.

«La Banda della Magliana esiste ancora, ha usato e continua ad usare i soldi di chi è morto o è finito in galera. Forse non ha più bisogno di sparare. O almeno, di sparare spesso», raccontava nel 2010 davanti alle telecamere un altro ex della Banda, Antonio Mancini. Oggi è difficile dargli del millantatore o dell’allarmista.