Vai al contenuto

teatro civile

Letteratume recensisce #ACasaLoro

(fonte)

Il racconto di una tragedia rischia di scadere nel sensazionalismo (o nella propaganda) se non si ricostruiscono fatti e contesto con metodo e onestà intellettuale e se non si dosano correttamente questi elementi con una sapiente capacità narrativa.

In A casa loro si affronta il delicatissimo tema delle morti nel Mediterraneo grazie al virtuoso incontro tra il teatro civile di Giulio Cavalli e il giornalismo d’inchiesta di Nello Scavo: un monologo prima portato in scena sui palchi d’Italia e ora un libro pubblicato da People, casa editrice fondata e diretta da Pippo Civati, sempre in prima linea nel racconto criticamente costruttivo del presente.

A casa loro è un urlo straziante che deve giungere alle orecchie di chi vuol capire ma soprattutto a quelle di chi non vuol sentire, di chi crede ancora che esista un noi e un loro e che i confini siano barriere invalicabili soggette alla discutibile discrezionalità di un caudillo o di un tiranno 4.0.

Il monologo teatrale di Giulio Cavalli, incentrato sulle accurate ricostruzioni di Nello Scavo, tocca le corde intime perché mostra persone e vite umane, spesso trattate da un’informazione sciatta e distratta solo come un’impietosa statistica.

Invece qui ci sono le storie, i sogni strappati, il peso di vite annientate, sfregiate, distrutte.

Viaggi e fughe spesso mai terminati, se non nei fondali del Mediterraneo, versione moderna delle camere a gas naziste.

«Il mare non uccide. Ad uccidere sono le persone, la povertà, le politiche sbagliate e le diseguaglianze che rendono il mondo un posto opposto dipendentemente dal nascere dalla parte giusta o sbagliata.»

Ci sono Karim e le sue storie, la bella Rhoda che voleva essere brutta per scampare alle indicibili violenze del “Bastardo di Zuara”, Efrem che come una pallina di ping pong aspetta il prossimo rimbalzo fuori dall’Italia; ci sono i pescatori lampedusani, che lottano intimamente contro l’assuefazione al dolore, c’è Victory svenduto all’asta come una merce e c’è una Dichiarazione Universale dei Diritti Umani tristemente disattesa da uomini e istituzioni.

La ricostruzione dell’inferno libico e delle sue atroci conseguenze trova compimento in un viaggio narrativo che è anche un “safari lessicale”: sapere cosa significhino Madame Boga, Native doctor, Connection man o Lapalapa, è fondamentale se si vuole dare un senso a tutto questo e capire dove può arrivare l’occultamento della verità.

Una ricerca della verità che è costata a entrambi gli autori una vita sotto scorta: il quotidiano impegno nello svelare gli orrori, le ingiustizie e le storture, uno della mafia nostrana, l’altro di quella nordafricana, è infatti la loro stella polare.

«Quando davvero la storia riuscirà a mostrare le dimensioni della tragedia, sul barcone ripescato sarà il museo della vigliaccheria.»

Affinché il messaggio di Scavo e Cavalli non si disperda, occorre che ognuno di noi legga e faccia conoscere questo testo (e altri di questa natura), perché il futuro ce ne renderà conto e non si potrà vivere con il tormento e la responsabilità di non aver permesso ad esseri umani come noi di cominciare una nuova vita, di trovare un’alternativa o più semplicemente di sentire il mondo come casa propria.

Affinché non esista più una “casa nostra” contro una “casa loro” e perché nessuno potrà più dire “non sapevamo”.

#Carnaio la mia intervista a Il Cittadino

L’INTERVISTA L’AUTORE LODIGIANO SI RACCONTA A MARGINE DELL’IMPORTANTE RISULTATO RAGGIUNTO CON IL SUO “CARNAIO”

Cavalli: dopo il podio nel Campiello più narrativa e meno palcoscenico

Ho voglia di raccontare storie in cui io ci sono il meno possibile. E la letteratura me lo permette»

Rossella Mungiello

Per anni ha calcato il palcoscenico nei panni di un canta- storie. Usando la voce e la fisicità per dare vita a spettacoli amari e di denuncia, rinunciando anche alla sua libertà personale, vivendo sotto scorta per le minacce subite dalla criminalità. Oggi sceglie di stare più al riparo, di privile- giare la parola scritta, di prendersi il tempo per far nascere e crescere una storia.

Ci sarà sempre meno palcoscenico e sempre più narrativa nel prossimo futuro di Giulio Cavalli, scrittore lodigiano classe 1977 – già autore teatrale e attore (che ha lavorato con nomi con Dario Fo e Paolo Rossi ndr), giornalista ed editorialista, ma anche politico, eletto come consigliere regionale – che sabato sera si è imposto nel panorama nazionale della narrativa contemporanea con il secondo posto ottenuto al Premio Campiello con il suo “Carnaio”, edito da Fandango Libri. Un romanzo che racconta di un paesi- no DF, appollaiato sulla costa come tanti, in cui il pescatore Giovanni Ventimiglia, in un giorno di marzo, si imbatte in un cadavere rimasto a mollo per giorni. È il suo primo di una serie di ritrovamenti di cadaveri, tutti di giovani, tutti neri, che si susseguono al punto da costringere le autorità a escogitare una soluzione che diventa anche un modo per fare profitto.

Da dove è arrivato lo spunto narrativo?
«Il libro “Carnaio” nasce da un’immagine, frutto di una conversazione con un pescatore in Sicilia, dove mi trovavo per un reportage sull’immigrazione. Mi spiegava come spesso capiti ai pescatori di recuperare cadaveri in mare e di come, per evitare di avviare l’iter giudiziario, li ributtino in acqua, prometten- do in cambio tutto l’impegno possibile per salvare i vivi. Mi disse che i corpi sono come lessi dal tempo passato in mare: usò un termine culinario che, de- clinato alla vita umana, mi fece molto pensare a come il cannibalismo messo in atto nei confronti di altre morti inizi proprio nel riconoscerle come altro da noi. Non è un libro sull’immigrazione: è un libro sull’etica di una comunità che si sposta ogni giorno un metro più in là, in un scivolamento verso il basso che conduce all’orrore».
È quello che sta accadendo all’Italia di oggi?
«Credo che la letteratura non sia un editoriale politico lungo, ma che debba seminare dubbi. Se quel che accade oggi in Italia è questo, devono dirlo i let- tori. Il premio Campiello ha portato il libro in ambienti anche molto diversi, per sensibilità, sul tema dell’immigrazione e la soddisfazione più grande è sta- ta riuscire a uscire dall’agone politico e portare la discussione su un gradino più alto, con visioni diverse che si ritrovano però in valori comuni sui diritti».

Dopo il teatro civile, il giornalismo è stato quasi un approdo naturale, oggi lo è la letteratura?
«Tra il teatro, il giornalismo e la narrativa, quello che ho sentito più congenia- le negli ultimi anni è certamente la narrativa. E “Carnaio”, tra i miei romanzi, è quello che mi ha lasciato più libertà, nella scrittura e nella costruzione della storia ed è il mio primo libro da scrittore puro, dato che “Mio padre in una scatola da scarpe” (Rizzoli, 2015) è segnato dalla matrice a fuoco della criminalità organizzata e dell’antimafia, mentre “Santamamma” (Fandango Libri, 2017)è molto personale e autobiografico. Ed è ovvio che il Campiello, ma anche il premio Napoli e il Festival del Viaggiatore di Asolo, sono attestati di stima per il mio lavoro e mi danno molta soddisfazione. Il Campiello ha messo al centro l’attività di scrittore, come principale e prioritaria. Ho voglia di raccontare storie in cui io ci sia il meno possibile. E la letteratura me lo permette».

SondaLife recensisce lo spettacolo Mafie Maschere e Cornuti

(fonte)

 

(Visto il 28 novembre 2017 al Teatro della Cooperativa)

Di e con Giulio Cavalli

UNA RISATA CHE SBRICIOLA

 

Il Teatro Cooperativa prosegue, con la giullarata antimafiosa Mafie, maschere e cornuti di e con Giulio Cavalli, nel presentare pièces di solido teatro civile.

Giulio Cavalli, attore e autore teatrale da tempo minacciato, e quindi protetto dalle forze dell’ordine, per la sua attività antimafia, è giullare dell’oggi e senza l’ausilio di costumi e scenografie recupera proprio dalla tradizione giullaresca, rinverdita e rinvigorita negli ultimi decenni del XX secolo da Dario Fo, uno dei modi cardini del teatro popolare: porre alla berlina i potenti con lazzi e sberleffi per smitizzare tutto quello che ”ci fanno credere invincibile ed invece non lo è”. Lavorando soprattutto sulla parola Cavalli, che è fermamente convinto, a ragione, che la parola contro la mafia funziona, propone un teatro diretto che dà fastidio. Nomi, cognomi, fatti e fattacci, aneddoti snocciolati uno dietro l’altro proposti con irriverente ironia che fanno ridere ma inchiodano lo spettatore a riflettere.

Tutto lo spettacolo gira attorno a una potente considerazione di Mark Twain, citata da Cavalli durante lo spettacolo: “Non bisogna avere paura di ciò che non si conosce ma bisogna temere ciò che crediamo vero e invece non lo è”. Figure/figuri, da Riina a Provenzano, ai loro epigoni e uomini della politica e della finanza contigui alla mafia, sono sbriciolati attraverso il suscitare risate. Anche una risata fa male ai potenti o ritenuti tali.

Lo spettacolo si conclude con un finto e sollecitato bis dedicato alla figura poco nota ai più, scrivente compreso, dimenticata, e ancora da chiarire, di Bruno Caccia, magistrato ucciso a Torino nel 1983 nell’attimo di libertà, allontanata la scorta, in cui passeggiava col cane. A ragione Cavalli propone questo ricordo staccato dal resto del corpo della giullarata proponendo un momento intenso, quasi lirico, di teatro tout court.

Affianca Giulio Cavalli il bravo fisarmonicista Guido Baldoni in realtà sottoutilizzato in uno spettacolo, che forse ha bisogno di qualche limatura, ma che è da non perdere.

Mafie, maschere e cornuti rimarrà in scena al Teatro della Cooperativa fino al 6 dicembre.

 

(Adelio Rigamonti)

Napoli, Bassano del Grappa e Marano Vicentino: dove sono questa settimana

Martedì sono alla libreria Io Ci Sto (che ha una storia meravigliosa, la trovate qui) per presentare il mio romanzo Santamamma. A proposito: mi arrivano delle mail meravigliose di lettori bellissimi, che siete voi. Ci vediamo alle 18.30, con me ci sarà il direttore di Fanpage Francesco Piccinini. La locandina è qui.

Venerdì 12 maggio ci si vede a Bassano del Grappa, Teatro Remondini, per l’anteprima del nuovo spettacolo Mafie maschere e cornuti e non sapete quanto sono felice. Sul palco, con me, Guido Baldoni alla fisarmonica. La locandina con tutte le informazioni è qui.

Il giorno successivo, sabato 13 maggio, sono a Marano Vicentino, sempre provincia di Vicenza, sempre con Mafie maschere e cornuti nell’ambito della stagione di teatro civile “Infrangere il vero”. Tutte le informazioni sulla locandina qui.

Il mio calendario lo potete consultare qui ed è sempre in aggiornamento.

Siamo in viaggio, insomma. Vi aspetto.

persinsala recensisce lo spettacolo ‘L’amico degli eroi’

(fonte)

(recensione di Fabio di Todaro)

Schermata 2016-06-02 alle 09.30.31Ne L’Amico degli eroi, andato in scena al Teatro della Cooperativa, Giulio Cavalli ripercorre l’ascesa sociale del politico siciliano, riconosciuto dalla giustizia come un trait d’union tra Cosa Nostra e l’alta finanza.

La storia dell’Italia dell’ultimo ventennio in un intreccio ferale tra mafia e politica, è così che Giulio Cavalli, accompagnato dalle musiche di Cisco Bellotti, ci ricorda cos’è avvenuto nel nostro paese tra la fine degli anni ’70 e l’inizio del nuovo millennio. Ne L’Amico degli eroi, al Teatro della Cooperativa di Milano, l’attore, da sempre impegnato in rappresentazioni di teatro civile, ripercorre la storia giudiziaria e le relazioni di Marcello Dell’Utri con Vittorio Mangano e Silvio Berlusconi. Passando da un monologo all’altro, Cavalli coinvolge il pubblico e lo guida per mano nella drammaticità vissuta (e soltanto di rado portata a galla) lungo la Penisola sul finire del ventesimo secolo.

Lo sfondo è, con la proiezione di documenti, interviste e video che suffragano quanto raccontato dal protagonista, un valido accompagnamento, Dell’Utri viene descritto come «un giovane siciliano arrampicatore sociale che decide di essere l’anello di congiunzione di due mondi totalmente differenti: l’imprenditoria milanese estrema e l’arrembante mafia siciliana». In mezzo ci finisce la politica, con la nascita di Forza Italia e l’ascesa di Berlusconi. Cavalli riporta i passaggi conclusivi della storia giudiziaria di Dell’Utri, «un’attività volontaria, consapevole e specifica che ha contribuito al mantenimento, consolidamento e rafforzamento di Cosa Nostra, alla quale è stata offerta l’opportunità di entrare in contatto con importanti ambienti dell’economia e della finanza», sempre con la mediazione di Dell’Utri.

Lo spettacolo è interessante e coinvolgente, Cavalli si conferma un’eccellente narratore delle vicende di mafia di questo Paese, come peraltro già dimostrato con Nomi, cognomi e infami. Al Cooperativa toccherà probabilmente inserire questo spettacolo nella prossima stagione, per evitare che risulti penalizzato dalla messa in scena in coda a quella appena conclusa.

 

Si riesce a crescere digerendo l’invidia

1418078439-0-invidia-e-gelosia-conferenza-a-modicaC’è lo scrittore che siccome vende tantissimo abbiamo bisogno di convincerci (e convincere più persone possibili) che sia un incapace che ha avuto solo fortuna. C’è l’attore di teatro civile che “costa tantissimo” e “mio dio fa il comunista con i soldi degli altri”. Poi c’è il politico “che non capisce un cazzo” e l’assessore che è “un incapace”. il dirigente “figlio di papà” o “quella che l’ha data all’uomo giusto”. In auto, alla guida, c’è quello con il macchinone “e poi guida come un pensionato” oppure quello che “mi piacerebbe sapere con che soldi mantiene quella macchina”. Poi c’è quella “bella ma rifatta”, quella “chissà a chi l’ha data” o semplicemente quella “che l’ha data a tutti”. Gli uomini, invece, annoverano quello “che venderebbe sua madre” oppure il “chi si crede di essere” per finire con qualcuno con “più culo che anima”.

Viviamo nell’ossessione di essere in competizione con il resto del mondo senza sapere leggere quanto sarebbe più potabile il mondo se divenisse un posto migliore. Subiamo la concorrenza di gente che fa tutt’altro in tutt’altro modo semplicemente per trovare credibili giustificazioni. Scrittori che incrociano le dita per il fallimento degli altri prima ancora di un riconoscimento proprio oppure giornalisti che confidano nello scoop sbagliato del collega poco sopportato. Gente (dottori, professori, figli d’arte, ex protagonisti ormai in naftalina) che vive con le dita a forma di corna augurando malasorte. Miserabili che non sanno nemmeno immaginare che gusto abbia l’essere contenti semplicemente perché “accontentati”, sgombri da una concorrenza che è solo bile, sindrome di complotto oppure complesso d’inferiorità.

Che bella cosa l’ecologia intellettuale: il dare il giusto peso alle cose. A se stessi in primis.

Corriere.it: “Segnali positivi” alla libreria Iocisto con Giulio Cavalli e la giovane Orchestra dei Quartieri Spagnoli

Schermata 2015-10-22 alle 23.09.56Il 24 ottobre 2015 il Vomero fino a notte fonda si riempirà di luci, musica e libri. Ma sarà diverso dagli anni passati perchè quest’anno il tema è la legalità. Iocisto #lalibreriaditutti in Via Cimarosa 20 (piazza Fuga) partecipa alla manifestazione promossa dal Comune di Napoli e dalla V Municipalità nel quartiere Vomero Arenella sin dal mattino.

Aprendosi alle scuole, ai ragazzi, ai lettori ed uscendo in piazza con un programma ricco e diversificato. La mattina sarà dedicata a scuole e ragazzi e vedrà protagonisti i ragazzi dell’Orchestra dei Quartieri Spagnoli, un progetto artistico e culturale che nasce dal riferimento preciso del sistema pedagogico-musicale creato in Venezuela da José Antonio Abreu, musicista ed ex ministro della cultura. Seguiranno il RAP per la legalità che convolgerà famiglie e ragazzi grazie al giovane rapper Gian Paolo Nicolini in arte CIOMPI e con i fumetti per la legalità a cura della Scuola Italiana Comics.

Alle 12:00 direttamente dal teatro civile, reduce anche dallo spettacolo al Nuovo Teatro Sanità, al suo esordio nelle vesti di romanziere Giulio Cavalli presenterà il suo libro con un potente monologo. “Mio padre in una scatola di scarpe” edito da Rizzoli parte da una storia vera, quella di Michele Landa, ucciso senza ancora un perché a Mondragone. Giulio Cavalli racconta un’Italia dimenticata e indifesa, in cui non serve fare rumore per diventare eroi delle piccole cose.

Nel pomeriggio in libreria un altro racconto sui piccoli grandi eroi involontari grazie al romanzo di Paolo Miggiano che presenterà “ALI SPEZZATE – Annalisa Durante. Morire a Forcella a quattordici anni”. Interverranno Arnaldo Capezzuto, Gigi Fiore, Sandro Ruotolo e Franco Roberti. La serata si concluderà con il Jazz a cura di Music Instinct.

(fonte)

Dal teatro civile al romanzo civile: Marco Ostoni su ‘Mio padre in una scatola da scarpe’

(L’articolo originale è qui):

Schermata 2015-10-13 alle 18.27.26Leggi e ti sembra di vederlo, anzi di ascoltarlo. Lì, sul palco impegnato in uno dei suoi affabulanti e avvolgenti monologhi in cui il ritmo è dettato dal sapiente alternarsi di pause e recitativi, con la voce un po’ impastata e lo sguardo pensoso, con le iridi verdemare che illuminano un gesticolare lento e compassato. Quei tratti, insomma, che lo hanno fatto conoscere e apprezzare al pubblico lodigiano le cui ribalte ha calcato per anni da protagonista. C’è tutto Giulio Cavalli in questo Mio padre in una scatola da scarpe, romanzo d’esordio dell’attore, regista, autore e saggista di Lodi (con una breve pausa anche in veste di consigliere regionale), da pochi anni trapiantato a Roma, ma là come qua costretto a vivere sotto scorta per le ripetute minacce ricevute dalle cosche in risposta ai molti strali da lui lanciati al loro indirizzo. Cosche che indubbiamente non molleranno la presa dopo aver letto questo libro, un j’accuse ancora più forte dei precedenti (anche del volume-denuncia, nonché pièce teatrale, Nomi, cognomi e infami) perché forgiato di quel metallo prezioso che si chiama letteratura, con la capacità unica che ha la letteratura di scuotere, emozionandoli, i lettori e di smuoverne così, dal profondo, le coscienze.
E ci si emoziona non poco leggendo le quasi 300 pagine del romanzo che racconta la storia (vera) di Michele Landa, uomo per bene di Mondragone, nel Casertano, vissuto con la schiena dritta in una terra dove i più la piegano – la schiena – per paura, per quieto vivere o per convenienza, ma alla fine spezzato da quella Camorra di cui non ha mai accettato i codici di comportamento.
Ci si arrabbia, ci si indigna e si piange accompagnando Michele dagli anni dell’adolescenza – dopo un’infanzia segnata dalla morte precoce della madre e da quella del padre, alcolista e violento – all’età adulta. Un lungo tragitto cadenzato dall’amicizia inossidabile con Massimiliano, lo “scemo del paese” in realtà più acuto e saggio di molti presunti “sani”; dal fidanzamento e quindi dal matrimonio con Rosalba “la silenziosa”; dalle gioie (e dalle fatiche) della paternità, fino ad arrivare al drammatico e straziante epilogo. Cavalli, se pure qua e là carica di qualche eccesso verboso il linguaggio, pagando dazio all’inesperienza da una parte e all’oralità del cantastorie dall’altra, riesce a ricreare con buona mimesi il clima di omertà e paura insieme che impasta la vita dei Mondragone, i cui abitanti sono soggiogati dalla prepotenza dei Torre, che rende tutti (o quasi) muti, ciechi, sordi ma soprattutto servi. Mentre lui, Michele, si rifiuta – ignorando i consigli del nonno – di vivere «in punta di piedi», di abitare la sua terra in silenzio, diventando invisibile per difendere se stesso e la famiglia.
«Voglio abitare in un luogo – dirà a Rosalba il giorno in cui la chiederà in sposa – dove Massimiliano può essere felice e mio nonno invecchiare sereno. E voglio figli che sanno scegliere il bene e il male».
Proprio come ha saputo fare lui, pagando quella scelta di coraggio con la morte.
(Cavalli presenterà il suo libro ai lodigiani mercoledì 14 ottobre, alle 21, al Caffè Letterario)

Giulio Cavalli, Mio padre in una scatola da scarpe
Rizzoli Editore, Milano 2015, pp. 276, 19 euro

Un’intervista. Fuori dal teatro.

Schermata del 2015-09-22 09:04:05(di Daniele Ceccherini, fonte)
Genova 

In occasione della rassegna “Bellezza dell’arte al cinema” durante la quale c’è stata l’intitolazione dell’Arena nei giardini E.Guerra a Peppino Impastato, abbiamo intervistato Giulio Cavalli che allAlbatros di via Rogerrone (Genova, Rivarolo).’ è andato in scena con il suo spettacolo teatrale “Nomi, Cognomi e Infami“.

Giulio Cavalli scrittore e autore teatrale è noto per il suo impegno con spettacoli e monologhi teatrali di denuncia alla criminalità organizzata. Collabora con varie testate giornalistiche e ha pubblicato diversi libri d’inchiesta tra cui recentemente Mio padre in una scatola di scarpe.

Nomi, Cognomi e Infami è il mio spettacolo più longevo, è del 2006, è il tentativo di raccontare che la risata contro la mafia funziona… Mi dispiace che in questo paese l’antimafia culturale sia demandata tutta ad una sorta di volontariato e non ci sia un progetto istituzionale, io credo che il teatro sia il metodo migliore perché non ci sono mediazioni… Nel giornalismo ho usato l’inchiesta per cercare di capire cosa mi stava accadendo e per dare delle spiegazioni, perché per non essere delegittimato bisogna avere dei dati dietro, il teatro è l’occasione di poter parlare di alcuni angoli nascosti mettendoci la faccia. Il teatro civile in Italia è sempre molto strano, perché il teatro civile nasce come movimento culturale per poter riaprire processi che si sono archiviati, in Italia invece è quasi sempre un funerale laico molto tranquillo… L’ultimo libro Mio padre in una scatola di scarpe, è una storia vera di una famiglia di Mondragone convinta che basti non avere a che fare con la mafia per non avere problemi e invece proprio in quella famiglia c’è una vittima che è il padre. In questo paese secondo me ci siamo affezionati tantissimo ai paladini dell’antimafia, all’eroe senza macchia e ci siamo dimenticati di sapere che abbiamo il dovere di affezionarsi anche al diritto ad avere paura… Mi fanno più paura alcuni pezzi delle istituzioni che i mafiosi. I mafiosi che sono riusciti a ripulirsi e diventare istituzioni più che paura sono una preoccupazione più che per me per il bene di questo paese.”

Ecco l’intervista video integrale a Giulio Cavalli:

Intervista a Giulio Cavalli: “Con L’amico degli eroi racconto un’umanità di cui Dell’Utri è paradigma”

(L’intervista è uscita qui per Lostivalepensante.it)

20150507_Amico_Degli_EroiSi prepara a tornare in scena Giulio Cavalli, dopo una pausa artistica dovuta anche alla parentesi politica in Regione Lombardia. Lo fa con uno spettacolo liberamente ispirato alla vita di Marcello Dell’Utri, accompagnato dalle musiche di Cisco Bellotti, eseguite dal vivo. Lo spettacolo, insieme ad un romanzo, è una produzione sociale attivata su produzionidalbasso.com e conclusasi con successo. Il ritorno “molto teatrale” dell’attore, drammaturgo e scrittore di Lodi, partirà presto dal Nuovo Teatro Sanità di Napoli.

Marcello è un giovane e intraprendente siciliano, nato da una famiglia borghese, ma decadente, del centro di Palermo. Marcello e il fratello Alberto vivono in simbiosi una giovinezza di lusso apparente, mentre subiscono le difficoltà economiche di un padre che si ritrova fuori gioco negli ambienti che contano, per l’arresto di alcuni elementi a cui faceva riferimento. Per questo Marcello cresce con un insito odio nei confronti della magistratura, vista come la causa della decadenza famigliare. Silvio è uno studente prepotente, egocentrico e scaltro che è stato educato dal padre ad una continua ossessiva ricerca delle scorciatoie ad ogni costo. Vive in un paese della provincia milanese, ma lo stesso giorno che ha l’occasione di accompagnare il padre nella banca in cui lavora, nel cuore della Milano bene, si innamora di questa città di eleganza, soldi e affari e decide di diventare, da adulto, un uomo a cui tutti sognano di stringere la mano. Vittorio è mafioso, figlio di mafiosi. Senza giri di parole e senza nascondenti anzi: con una venerazione assoluta per i codici medievali che gestiscono i meccanismi sociali e imprenditoriali di Cosa Nostra in Sicilia. E’ conosciuto tra gli amici per la sua abilità nell’esercizio della prepotenza che sia vocale, manesca o armata. Si diletta in missioni di prepotenza che lo rendono temuto e affascinante per molti e sviluppa un astio per la borghesia siciliana a cui aspira. Come la volpe con l’uva. Tutti e tre amano il calcio.

Perché hai scelto di attivare una produzione sociale per “L’amico degli eroi”?

Guarda, perché la produzione di uno spettacolo in un paese così complesso per le produzioni teatrali come l’Italia, complesso nel senso peggiore del termine, cioè ricco di condizionamenti politici, non è una cosa facile. Questi ultimi, bene o male, poi ne dettano la linea. “L’innocenza di Giulio”, spettacolo a cui io sono molto legato, ci ha raccontato perfettamente come essere ospiti di un teatro “stabile” nel circuito teatrale convenzionale, risultasse molto difficile per questioni politiche, che poi fondamentalmente sono delle beghe tra assessori, il “mestruo” di un dirigente dell’ufficio cultura, non c’è un isolamento concordato e organico. Allora, a questo punto, poiché il mio circuito è sempre di più fortemente politico, non partitico, e molte delle mie date non sono organizzate da un teatro, ma il teatro è solo il luogo che viene affittato da comitati cittadini o associazioni, ci siamo chiesti: perché non stringiamo un patto fin dall’inizio direttamente con loro? Inoltre, credo che andare in giro, come è capitato a me con il logo di Regione Lombardia su una produzione, sia anche abbastanza ipocrita. Purtroppo vieni macchiato come colui che ha intrattenuto rapporti con la pubblica amministrazione e che, avendo beneficiato di contributi, spesso a pioggia e non elargiti da una precisa scelta artistica, va in scena grazie a loro.

E tra l’altro se metti in scena uno spettacolo che racconta di “Stato e politica” potrebbe esserci anche un lieve conflitto d’interessi nel ricevere fondi pubblici…

Si, perché poi o tu mi produci “Andreotti” (L’Innocenza di Giulio, ndr) perché concordi sull’idea civile dello spettacolo o altrimenti non funziona. Il teatro civile solo in Italia è l’ammorbidente dell’indignazione generale. Nasce in realtà per “essere contro” qualcuno, ognuno con le proprie modalità. Il 99 per cento delle volte la postura di chi ti ospita, parlo di una pubblica amministrazione, è solo un attestato di fiducia per il teatro civile come se fosse avulso poi il tema che vai a trattare. Quando ho messo in scena “Linate” (monologo sul “disastro aereo” dove persero la vita 118 persone, ndr), spettacolo prodotto da tanti piccoli comuni, quelle amministrazioni concordavano con noi sul fatto che fosse stata una strage e non un incidente. Andreotti, invece, non concorda nessuno di quelli che lo hanno prodotto o che sono stati costretti a comprarlo, sul fatto che sia stato un criminale etico di questo Paese. Ti dicono che è giusto dare voce anche a Cavalli che lo considera un criminale.

photo by www.giuliocavalli.net

Quindi avevi bisogno del crowdfundig per poter raccontare di Marcello Dell’Utri?

Credo proprio di sì. Dopo aver fatto politica l’isolamento a livello artistico, intorno a me, si è acuito. Quello che mi ero costruito, e parlo anche delle relazioni economiche poi, è andato via via sparendo. Ma non per la posizione politica. Gli isolatori in Italia sono tutti coloro che hanno paura di dover prendere una posizione, non che non condividono la tua, e quelli che condividono il tuo punto di vista hanno paura di sclerotizzarsi su quest’ultimo. E’ banale tutto questo. Inoltre, la mia attività quotidiana di giornalismo o blogging, prende molto spesso posizioni nette. Ogni scritto, magari aumenta la fiducia e la vicinanza dei lettori ma fa crescere anche il sospetto da parte delle istituzioni. Quindi, anche se sarebbe molto più eroico dire di no, dal punto di vista economico, senza il crowdfunding, avrei fatto più fatica. Sarei dovuto scendere a un compromesso, anche taciuto o sottointeso. E poi, mi fa piacere sapere che c’è stata della gente, non necessariamente miei elettori, che la mia pausa artistica dovuta anche alla politica, l’ha vissuta con tranquillità e che si è resa disponibile nel partecipare con me alla produzione de “L’amico degli eroi”.

Credo ci sia un po’ di confusione su quello che artisticamente sei, forse proprio perché hai fatto politica, o perché fai un tipo di teatro particolare in Italia…

Perché qui abbiamo bisogno di categorizzazioni semplici e facilmente leggibili. I teatranti non mi amano, al di là delle mie posizioni politiche, dicono che Cavalli è un giornalista. Se fai l’attore devi fare solo l’attore e così via. Se decidi di esprimerti su diversi fronti, quasi nessuno ha le chiavi di lettura per osservare se c’è una coerenza di base, un filo rosso.

La produzione, comunque, comprende oltre allo spettacolo anche un libro…

Si, sembra che in questo Paese ci sia una guerra tra editoria tradizionale ed “editoria a km 0”. Perché devo essere costretto a scegliere? C’è il Cavalli scrittore, quindi romanziere, e allora il mio libro uscirà con “Rizzoli”, ad esempio, e quella è una strada che mi interessa percorrere. Poi c’è il libro che invece nasce da un mio spettacolo e che inevitabilmente non sarà mai un romanzo, perché nascono insieme. E quando le persone mi chiedono se lo spettacolo è tratto dal libro, io rispondo che non lo so. Questa è una semplificazione che abbiamo noi operatori culturali e penso il pubblico non abbia. Il mio poi è un teatro che va molto letto, è poco recitato, vado in giro a fare lo spettacolo per promuovere la parola. Sono fratelli spettacolo e libro, secondo me.

photo by www.giuliocavalli.net

Ma quando andrà in scena “L’amico degli eroi”?

Entro la fine del mese dovremmo essere pronti. Saremo a Napoli e sarà una sorta di “numero zero” al Nuovo Teatro Sanità, poi cominceremo a girare l’Italia.

Perché hai scelto di fare teatro civile?

Dario Fo mi dice sempre che noi teatranti facciamo sul palco quello che avremmo dovuto fare nella vita. Probabilmente io nella vita avrei dovuto fare il giornalista d’inchiesta e quindi uso il palco per questo. Ho sempre sofferto la mancata contemporaneità del teatro italiano. Mi annoia tutto ciò che è elegiaco, quindi ho sempre pensato che il teatro, con lo spettacolo e i suoi spettatori riuniti, dovesse avere la valenza di un’agorà e dovesse essere “sul pezzo”. Ad esempio, mi capitava spesso di discutere dell’andreottismo e mi chiedevo perché queste discussioni molto spesso ricche e stimolanti, non dovessero andare in scena… Poi, purtroppo, la mia vicenda privata mi ha spinto ad una certa specificità anche nei temi, che però sono quelli che amo…

Quindi l’aver ricevuto minacce mafiose e l’essere diventato tuo malgrado testimonianza hanno solo accentuato la voglia di approfondire certe tematiche?

Bè, sì, ma penso che avrei fatto gli stessi spettacoli, forse sarebbero stati più puliti dal punto di vista scenico perché avrei avuto meno ansia di difesa sul palco. I temi però sostanziali anche oggi sono questi: corruzione, criminalità, uno Stato che non è credibile e soprattutto un Paese a cui sono stati sottratti i termini per riuscire a capire e raccontarsi ciò che sta accadendo. “L’ amico degli eroi” è un mio ritorno molto teatrale, dentro non c’è ansia di raccontare la mia storia declinandola su questa storia, capisci? Quindi è meno documentale di quello che si aspettano, non ci interessa raccontare gli episodi che indicano come colpevole Dell’Utri, c’interessa raccontare un’umanità di cui Dell’Utri è paradigma e che su ampia scala e con diverse potenze si esprime nella quotidianità.

All’inizio della tua carriera, ti saresti aspettato di andare incontro ad una vicenda così complessa personalmente e professionalmente, scegliendo questo tipo di teatro?

Sai, il teatro civile è complessità. E’ raccontare un qualcosa sotto una visuale talmente inaspettata da poter riuscire a scoprire lembi di quella storia che ci sono sempre sfuggiti. E’ quindi inevitabile che i protagonisti di quei lembi, all’interno di questa complessità, non siano felici. Però non vedo differenza tra il proiettile spedito o la querela promessa, cioè non mi ha colpito di più la minaccia mafiosa rispetto ai detrattori organici con cui mi trovo ad avere a che fare. E me lo aspettavo, si. Del resto, quando ho scritto “Linate”, in parte abbiamo scontentato anche i familiari delle vittime, a cui era stato dato in pasto come unico colpevole un controllore di volo, invece abbiamo scoperto l’esistenza di colpe istituzionali, questo è servito ad un confronto civile tra le parti. Per cui poi abbiamo ricevuto pressioni dai controllori, dall’aeroporto di Linate, dall’ENAC, una cozzaglia di scarti politici parafascisti, ricevuto minacce dall’ENAV, che non ha adempito ai suoi doveri come ente preposto a controllare la sicurezza… Poi c’è il parente del familiare che affronta l’argomento a cuore aperto e si confronta con te, l’ENAV ti fa scrivere dall’avvocato; il mafioso invece ha metodi più brutali nella forma ma non nella sostanza. Io ho ricevuto atteggiamenti mafiosi anche da illustri componenti di associazioni antimafia e li trovo più pavidi di quelli che almeno avuto il coraggio di mandarmi la lettera minatoria. Tutti questi tasselli creano la complessità e non sono altro che gli spigoli di un dibattito. Gli spettacoli li scrivo per aprire un dibattito, altrimenti scrivo un romanzo. Se uno spettacolo mette tutti d’accordo penso di aver fallito il mio obiettivo.

Non è difficile però gestire il tuo lavoro e le complessità a cui vai incontro? Quanto incide sulla tua vita privata?

photo by www.inviaggioconlamehari.it

Indipendentemente dalle minacce, la storia ci racconta che giornalisti, attori, drammaturghi, politici, che hanno deciso di seguire un professionismo nel proprio lavoro, sono sempre ben consapevoli che la propria vita privata sia intrecciata anche con esso. Mi spiego, i nostri intellettuali sono stati testimonianza (quelli credibili) di ciò che hanno scritto o prodotto. Solo in Italia esiste la figura dell’intellettuale ad interim nei dieci minuti di parentesi del programma in prima serata. Nel bene o nel male, per esempio, una figura controversa ma che non posso non amare, è stata Oriana Fallaci. Lo stesso Dario Fo è Dario Fo. Non è tutti i suoi spettacoli ma è lui. Nella sua storia, la vita privata, e quindi nel suo caso Franca Rame, è una componente essenziale come il più bel quadro che ha dipinto o il più bel testo che abbia scritto.

In una conferenza con Nino Di Matteo, nelle scorse settimane, al Teatro Apollonio di Varese, hai deviato il discorso legato alla scorta. Perché?

Perché non mi interessa parlare di scorta. Ne sono stato travolto dalla cronaca e poi quest’ultima si è fossilizzata in una simbologia per me senza senso. Inoltre continuo ad essere vittima del fatto di essere sotto protezione, dal punto di vista del giudizio pubblico. Ma questo è solo un tassello, un elemento della complessità e affezionarsi solo a questo è pericoloso, per me e per il mio lavoro ma anche per l’opinione pubblica. La stampa dimentica che tutti i prefetti sono sotto scorta e dovrebbe parlare di questo. La normalizzazione avviene non solo perché si parla di una situazione come la mia, ma perché non si parla delle altre. In Italia ci sono 800 persone sotto scorta e testimoni di giustizia rischiano la vita perché non riescono ad avere una tutela. Tu diventi l’attore con la scorta, il fenomeno da baraccone. Io sono sempre stato aspramente critico con il “savianismo” che si è voluto creare intorno alla figura di Roberto Saviano. Ma attenzione, non ce l’ho con Saviano, credo solo che il fenomeno, per molti versi indipendente da lui, gli sia sfuggito di mano. Per esempio che si parli di Giovanni Tizian, come giornalista scortato, ma si dimentichi che il padre di Giovanni è stato ucciso dalla ‘ndrangheta, significa adagiarsi su una spettacolarizzazione che oltre a rendere il banale importante, non ti fa vedere tutto il resto. Se apriamo una discussione sul fatto che in Italia la potenza del teatro è quella di disturbare ferocemente i potenti, allora è un confronto che mi interessa.

Sei stufo di essere legato a questo tipo di discorso, vero?

Si, sono diventato completamente intollerante e nel momento in cui mi accorgo che la scorta diventa motivo di stima, quasi sempre questa cosa getta una luce inquietante sulla persona che ho di fronte, che sia il Presidente del Senato o che sia il direttore del più importante teatro italiano. E adesso siccome fa parte della mia natura e del mio percorso artistico comincio a dirlo.

photo by www.giuliocavalli.net

E invece la scelta di occuparti di politica direttamente, dopo l’esperienza in Regione Lombardia, la rifaresti?

Si, l’ho fatta da uomo libero. Ho vissuto le appartenenze solo come un dovere di carta bollata per posizionarsi su una seggiola all’interno del Consiglio Regionale e perché penso che nella mia azione politica ci sia molto della produzione artistica e viceversa. Inoltre non credo che la stima in un campo debba essere collegata direttamente all’altra e quindi ho sempre apprezzato coloro che invece hanno giudicato buono un mio spettacolo e non buono un mio gesto politico. Però la rifarei. Io penso che questo sia un Paese che ha bisogno come il pane di visioni e di visionari nella politica. Non credo nell’antipolitica ma credo nell’ultrapolitica. Poi certo ho partecipato ad una legislatura deprimente e ho pagato lo scotto intellettuale, ma anche morale ed economico, quindi se tu mi dicessi lo faresti oggi, credo di no, però se la domanda è ti ricandideresti nel 2010 in quella situazione sì, lo rifarei.

Ho letto che hai condiviso e apprezzato il discorso del senatore dimissionario Walter Tocci, in disaccordo con il governo sul Jobs Act…

L’intervento di Tocci per me è cultura. La politica ogni tanto raggiunge i livelli della cultura. E io vengo stimolato nello scrivere con più impegno sapendo che esistono persone come Tocci. Quelli che ci stanno rovinando, in Italia, sono gli obbedienti.

Il problema poi nasce quando i disobbedienti non riescono a disobbedire fino in fondo, concretamente…

Il problema è che i disobbedienti acquistano valore nel momento in cui vengono seguiti. Io, per esempio, di mafia, posso cercare di parlarne nel modo più intellettualmente onesto possibile e preciso dal punto di vista documentale, ma poi la mia voce diventa importante e potente nel momento in cui fa rete. L’intervento di Tocci si fatica a leggere oggi in questo Paese. Inoltre, sulla contestazione del fatto che abbia votato comunque a favore e poi si sia dimesso, io dico che ho una grandissima idea di partito, vedo il partito con lo spirito e gli stessi valori di una comune artistica parigina. Il fatto di votare a favore e dimettersi, lo trovo coerente. Molto spesso i disobbedienti hanno il cattivo vizio, e capita anche a me, di non avere rispetto delle idee degli altri, di pensare cioè che la democrazia sia gestita da un peso numerico e qualitativo ed è la cosa che li rende in generale una minoranza cronica di questo Paese. E aver rispetto dell’idea che ritieni pericolosa e sbagliata degli altri perché espressa secondo dinamiche democratiche io lo trovo un gesto rivoluzionario. 

photo by www.giuliocavalli.net

Si potrebbe parlare di Pippo Civati allora in questo discorso…

Pippo è diverso. Lui ha avuto tra le mani e ha tra le mani, anzi forse aveva, strumenti molto più “ficcanti” di quelli di Walter Tocci. Il voto contrario di Tocci avrebbe cambiato questo Paese? No. Se Tocci avesse votato contro e fosse rimasto senatore avrebbe sicuramente toccato di più la pancia degli elettori del Paese e la sua sarebbe stata vissuta come scelta più radicale, io invece rivendico la radicalità del suo gesto, che rinuncia alla propria posizione, senza cadere, cioè rispettando il “luogo” che non condivide ma in cui è stato. Comunque questo è un Paese che non si salva con Tocci o con Civati, Vendola e Landini. Si salva se riesce a creare un blocco sociale. Non esiste un blocco sociale. Ancora una volta è tutto molto a cascata, è il leader che crea la base e non il contrario. In questo la forma partitica utilizzata con intelligenza e con etica rimane comunque la forma migliore.

Trovo, però, sia diventato piuttosto difficile poter poi sperare in un vero cambiamento politico e culturale in questo Paese…

In un Paese normale l’uscita di Tocci avrebbe dovuto far cadere in termini percentuali il PD. E’ vero che oggi in un’epoca di minus habens essere normale ti rende un intellettuale, però ha caratura politica il suo gesto, in un’Italia completamente “analfabeta”, che ha bisogno ancora di sentirsi dire che Dell’Utri è un mafioso. Non capisco come si possa pensare, infatti, che il processo sulla trattativa arrivi a qualche condanna, quando chiunque abbia un’infarinatura giuridica, ma anche semplicemente democratica, sa che difficilmente ci si arriverà e che il compito di Di Matteo e la valutazione su Nino di Matteo non è il riuscire a farli condannare ma l’essere riuscito a mettere per iscritto ciò che ha messo per iscritto. Quelli che celebrano Di Matteo non hanno nemmeno letto ciò che ha scritto. Lo celebrano perché la persona a rischio è quella con cui solidarizziamo molto più facilmente, ma non sono all’altezza dei contenuti che sta proponendo.

La tendenza all’omologazione politico – culturale è preoccupante e oggi sembra non esserci una credibile alternativa…

Infatti era l’idea di fondo di Licio Gelli, l’ha detto anche Di Matteo, ma è stato colto molto poco nel suo intervento a Varese. L’omologazione del Paese ne facilita il controllo. Ma ne facilita il controllo da un’oligarchia. Dal punto di vista culturale l’omologazione berlusconiana e quella renziana hanno gli stessi meccanismi. L’alternativa potrebbe essere un movimento politico che abbia una solida base culturale. Il problema è che non ci sono basi e visioni culturali dietro ai partiti.

Dietro a L’Altra Europa, però, le visioni culturali ci sono, o forse c’erano eppure in parte è stata un’esperienza deludente…

Certo perché poi anche quando c’è qualcuno che è portatore di valori culturali diventa spesso un cerimoniere di stesso. Abbiamo però comitati di cittadini che grazie allo studio, alla conoscenza e a visioni rivoluzionarie sono riusciti a bloccare progetti immensi, quindi l’attività politica ai livelli più bassi è ricca ancora di contenuti. Costa moltissime energie in tutti i sensi concretizzare un vero progetto politico.

Intervieni spesso sul tuo sito a proposito di Expo 2015. Cosa ne pensi? Perché non sei favorevole?

Bè, Expo per me è innanzi tutto una follia dal punto di vista economico ed imprenditoriale, perché in un paese in crisi, spendere così tante risorse (e non mi si venga a dire che sono risorse che vengono dal fuori perché significa comunque avere sprecato energie per raccogliere questi fondi), è irrispettoso. Expo oggi è una mancanza di rispetto per la situazione dello stato sociale italiano. Una scelta politica che ancora una volta è riuscita a far coagulare centro destra e centro sinistra, dimostrando che gli inetti sono sempre concordi. Dal punto di vista criminale, invece, è stata una grande festa per i presunti antimafiosi, che ancora una volta invece ci hanno dimostrato di non aver il coraggio legislativo (perché la criminalità organizzata nei lavori pubblici si sblocca con una legislazione che sia più severa) e hanno dimostrato anche di non riuscire ad amministrare. E’ un fallimento ambientale, un fallimento della classe dirigente, Pisapia incluso, e ancora una volta è una scatola preziosissima in cui al momento si cercherà di metterci dentro qualcosa di commestibile.

photo by inviaggioconlamehari.it

C’è una forte incoerenza tra i temi proposti e le politiche adottate per l’organizzazione dell’evento. Se ne parla poco di questo, non trovi?

Sì, e quelli di Expo non si possono incazzare con noi che abbiamo un ruolo pubblico o con gli italiani perché sono troppo poco interessati ai temi. Io ho avuto un confronto anche pubblico con il capo ufficio stampa di Expo che mi accusava di non affezionarmi ai contenuti. Però se il modus operandi e la scatola sono così putridi, la gente ha tutto il diritto di fermarsi sulla soglia e inorridire lì, senza volere entrare. Capisci?

Mi dicevi che Expo è stata per te anche una festa per presunti antimafiosi. Non hai molta stima dell’antimafia in generale, vero?

No, per niente. Dei movimenti antimafia in Italia per niente. Del resto sai, Lea Garofalo è stata lasciata sola dalla più grande associazione antimafia italiana, Libera. Ci sono però molte personalità antimafiose anche più “semplici” come la casalinga di Castel Volturno o la pensionata coscientissima milanese. Abbiamo una ricchezza enorme. Soltanto non credo molto nell’immagine di rete che ci viene proposta e che in realtà rete non è. E’ solo una suddivisione di potere e di interessi.

Bè, la scelta di Rosanna Scopelliti, presidente della “Fondazione Scopelliti” e personalità di spicco dell’associazione antimafia “Ammazzateci Tutti “, di intraprendere l’attività politica è stata molto discussa…

Non me la sento di dire che Ammazzateci Tutti è stata un’impresa fallimentare perché lei si è candidata. Ho conosciuto ragazzi che da giovanissimi hanno intrapreso l’”hobby dell’antimafia” grazie ad Ammazzateci Tutti, però sai, siamo un Paese che ha una classe dirigente pessima in tutti i settori, quindi non vedo perché non si possa dire che anche nell’antimafia abbiamo espresso una classe dirigente non altezza degli impegni che ha avuto. Anche perché attenzione, si sceglie di essere classe dirigente, io decido di essere drammaturgo, scrittore e attore, e mi occupo di quello, ma qualcuno che invece decide di essere classe dirigente se ne deve assumere le responsabilità. Io in questo momento non mi assumerei mai l’onere di essere classe dirigente di nessuno, al massimo un buon produttore di contenuti per chi mi legge e per chi mi viene a vedere a teatro.