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timidi

Evviva evviva! Non interessa la trattativa!

C’è in giro questa biliosa soddisfazione per il deludente risultato di spettatori del film di Sabina Guzzanti “La trattativa”. Ne scrivono i giornalai di destra ma anche di sinistra tutti tronfi tra le comode scrivanie da saccenti minimizzatori della tranquillizzazione come linea editoriale. Verrebbe da dire che Sabina non si sia impegnata in tutti questi anni per essere simpatica a tutti, sempre infilata tre gli orrori più colpevoli e turpi della nostra classe dirigente che sbava pur di ottenere piuttosto una complice distrazione dalle proprie malefatte ma l’aspetto più preoccupante di questa generalizzata esultanza per il flop è la ripetizione dei soliti meccanismi che mirano (riuscendoci) a confinare i contatti tra Stato e mafia dagli anni ’90 ad oggi tra le visioni apocalittiche di pochi esagitati. Creare o coltivare il disinteresse verso i rapporti non convenzionali tra pezzi di Stato e la criminalità organizzata significa normalizzare la mafia così come progettato da Bernardo Provenzano qualche decennio fa oltre che calpestare la vivacità civile che è la garanzia migliore per la democrazia del nostro Stato. Non so perché anche molti intellettuali e notabili antimafiosi siano ultimamente molto tiepidi sui fatti (perché ci sono già i fatti, eh) che sono agli atti di un processo che al di là della verità giudiziaria possiede già tutti gli elementi per formulare una sentenza etica sulla storia degli ultimi vent’anni di questo Paese e non so davvero se a qualcuno sia bastato l’arresto di Dell’Utri come ceralacca per chiudere definitivamente quell’epoca.

Oggi il Governo sta preparando la riforma della giustizia con alcuni degli interpreti di quegli anni bui, ad esempio, e nonostante i propositi di “rottamazione” molti torbidi personaggi sono ancora saldi al loro posto. Continuando a ripeterlo e continuando a chiedere verità e giustizia qualcuno vorrebbe farci credere che siamo solo coristi di un trita litania ma poi verrà un giorno che gli immobili di oggi si fregeranno del titolo di salvatori della patria. E noi saremo qui a ricordarli tutti, i pavidamente timidi sulle trattativa. Ce li ricorderemo tutti.

Sì, lo voglio

Lui avrà avuto forse trent’anni, quasi quaranta, sicuramente non più di quarantacinque. Portati male, comunque. Di troppo o troppo poco.

Stavano a Roma in un ristorante troppo imbucato per non essere scientificamente un ristorante costruito apposta con quella forma lì per inghiottirsi tutti i viaggiatori con una predisposizione all’imbuco. Tavolini fuori, sì, ma con siepi altissime, come un cubo di edera. Camerieri riservati da sembrare timidi da almeno un paio di secoli. Nessun orario di apertura o chiusura: se apri un ristorante così introvabile soffri l’orario dei mondi paralleli, degli alieni per salvarsi, dei non-luoghi senza bisogno di aerei o centri commerciali. Insomma un ristorante che esiste solo se si incrociano perfettamente gli appuntamenti: luogo, ora, imprevisti e tutto quel cumulo delle probabilità.

Lei deve essere stata accondiscendente tutto il pranzo. Lo scalino più irto era stata la scelta del vino. Cosa da poco. Hanno finto di metterci la testa per quell’abitudine alle complicazioni come una malattia.

Poi lei deve avere fatto una di quelle domande definitive. Perché lui si è guardato in giro. Per sbaglio ha incrociato anche uno dei riservatissimi camerieri dalla riservatissima postura. Che per poco non ha rischiato il lavoro per quell’errore di mira di sguardi.

Poi si è bloccato. Ha pagato il conto come se dovesse morire ogni secondo e lasciare le cose a posto. Lei ha sorriso prima. Poi si è indispettita. E alla fine si è alzata mentre il rumore di elettrocardiogramma sputava lo scontrino. Dietro l’angolo della strada si sono incrociati di nuovo. Ciechi a tutti. Un sciogliersi di ombre a forma di macchia sul marciapiede per quel sole così matematicamente verticale.

Sono giovani, mi ha detto un carabiniere. Non hanno ancora imparato a non pensare al domani. Un ‘sì, lo voglio’ come il rosario prima di andare a dormire.