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totò riina

Coincidenze

Totò Riina parla (troppo) in carcere nel carcere (troppo poco) duro di Opera riaccendendo (troppo) i riflettori sulla trattativa Stato – Mafia e mangia qualcosa di intossicante. Per fortuna non ha bevuto il caffè, perché quelli di Pisciotta e Sindona sono indigesti da decenni.

Lo schifo intorno alle chiacchierate di Riina

Prendetevi un minuto per leggere Roberto Galullo. Ne vale la pena:

Il ministro (ex) della Giustizia Anna Maria Cancellieri, il 30 gennaio viene audita in Commissione parlamentare antimafia.

In quella seduta si parla di tante cose. Tra le tante, anche degli ormai famosissimi colloqui registrati e videoregistrati nel carcere milanese di Opera (Milano) tra il capo di Cosa nostra (formalmente ancora lo è) Totò Riina e l’aspirante dama di compagnia e passeggio Alberto Lorusso.

La seduta si snoda in modo molto interessante fino a che…

Fino a che non si scivola sul ruolo del giornalismo e della libertà di stampa (e di cronaca).

Sapete quante volte ne ho scritto e quanto avverta sulla mia pelle, nella mia anima, intimamente, ogni vulnus, ogni ferita che viene inferta alla libertà di stampa. Quel che mi sconcerta, ogni volta e che ogni volta mi distrugge, è il tono con il quale i vertici dello Stato, in ogni sede, disquisiscono del giornalismo, quasi fosse ormai un residuato bellico e non un presidio di democrazia.

Ciò che mi ferisce profondamente è che ciascuno – dai più alti livelli fino a quelli più bassi – ritiene di voler e dover spiegare al mondo il giornalismo e la libertà di stampa: cosa può e cosa non può fare, cosa deve e non deve pubblicare, chi sentire e chi no, dove, come e quando, dove e come può spingersi alla ricerca di una notizia. La libertà di stampa e la stampa diventano bisogni personali e non diritti fondamentali e costituzionalmente garantiti per la vita stessa della collettività.

E’ mortale dover ascoltare stimatissimi Servitori dello Stato ai più alti livelli impartire lezioni su quali notizie debbano essere date, quando e perché senza invece pensare che nessun Giornalista degno di questo nome può e deve domandarsi quando, perché e soprattutto “se” dare una notizia.

La notizia si pubblica nel momento in cui un giornalista (sempre degno di questo nome) ne entra in possesso. Punto. Come facevano negli anni Settanta/Ottanta i cronisti di giudiziaria a Milano e Roma negli anni di piombo. Ogno notizia si pubblicava – pur quando le pressioni esterne a “selezionare” le notizie erano spesso forti – nel rispetto di un bene superiore: l’informazione al cittadino.

Quando una notizia è certa, verificata e degna di interesse generale qualunque Giornalista degno di questo nome deve (ripeto: deve) darla senza curarsi delle conseguenze della stessa. E’ come se un pm si dovesse interrogare sull’opportunità di emettere (o meno) un avviso di garanzia perché lo stesso potrebbe nuocere, più o meno gravemente, sulla salute dei parenti, dello stesso indagato o, salendo, alla tenuta politica di un Paese.

Vi ricorda nulla l’avviso di garanzia giunto all’allora premier Silvio Berlusconi nel 1994 durante il G8 e finito sulle prime pagine di tutto il mondo? Ebbene: se la magistratura ritenne che quello era il momento per farlo giungere e non altro, lo fece perché ne era convinta e (a meno che non si voglia credere a teorie politico/complottarde alle quali personalmente non credo e alle quali, viceversa, non dovrebbero credere le Istituzioni quando di mezzo ci sono i giornalisti) non si curò do-ve-ro-sa-men-te e le-git-ti-ma-men-te delle conseguenze internazionali che avrebbe avuto quel gesto.

Il tradimento più alto nei confronti di se stesso e nei confronti dei lettori che un Giornalista può commettere è non pubblicare una notizia vera, certa, verificata e di interesse generale.

Insomma cari lettori, mettetevi in testa che ogni svilimento (anche il più piccolo e anche non voluto) alla libertà di stampa è un atto di arretramento nella libertà di un popolo.

Queste riflessioni mi girano per la testa quando leggo quel che di seguito leggerete. Tutto legittimo per carità ma opinabile e criticabile. Le opinioni, così come le critiche, sono il sale della democrazia.

LE COLPE DEI GIORNALISTI

Riferendosi ai video trasmessi dalle tv che ritraggono il boss Riina e Lorusso, il commissario parlamentare antimafia Enrico Buemi (Psi) porge una domanda a mio avviso sconcertante fuori microfono: «Il video, signor ministro. Abbiamo giornalisti così bravi?».

Ora io sfido qualunque persona al mondo di buon senso a non ritenere degno di interesse collettivo e generale il fatto che un macellaio di Cosa nostra lanci messaggi criminali e di morte contro un magistrato come Nino Di Matteo e il pool che con lui lavora a partire da Vittorio Teresi (e poi vedrete che su quest’ ultimo tornerò in coda a questo articolo).

E’ o non è una notizia? Ovvio che lo è e sul come, quando e perché un Giornalista è entrato in possesso di quella notizia è dato e fatto che non solo non deve interessare a Buemi ma non deve interessare nessuno. La difesa di una fonte per un Giornalista è sacra. Chi ha pubblicato i video (Servizio pubblico della tv La7 e poi recentemente anche www.corrieredellacalabria.it con alcuni interessanti stralci sui dialoghi interenti la ‘ndrangheta) può averli ricevuti per grazia e virtù dello Spirito Santo, da Sua Santità, da Sua Eminenza, dai servizi segreti deviati, dalle famiglie di Corleone, dalle Carmelitane Scalze o da Topo Gigio ma le domande che si sarà posto chi li ha ricevuti sono: i video sono autentici? Sono intatti e non manipolati? Sono, fatte queste verifiche, di straordinario interesse per la collettività: Sì? E allora visto si stampi (in questo caso si mandi in onda).

La risposta di Cancellieri è netta: «Parliamo di video, possiamo parlare di tutto. È gravissimo». Non so se ci rendiamo conto: è gravissimo il fatto che la stampa abbia fatto il proprio mestiere!

Figuriamoci, Buemi va a nozze, sempre fuori microfono come testimonia la stessa fedele trascrizione della Commissione parlamentare antimafia: «C’è il problema delle trascrizioni… Signor ministro, queste problematiche hanno due risvolti. Uno è di carattere giornalistico, è evidente. Su questo non credo che ci debba essere un dubbio, ma bisogna sempre porsi il problema del perché e a chi interessa far uscire determinate informazioni e con quale modalità. Questo denota anche il fatto che noi abbiamo un sistema, quello del 41-bis, che continua a rimanere un colabrodo. Questo è il punto. Dopodiché, io introduco l’elemento dell’affidabilità delle trascrizioni degli interrogatori, che vedo collegato a questa problematica. Mi premurerò di presentare un’interrogazione specifica sull’argomento, perché è questione che deve essere affrontata a livello normativo, in modo tale da regolamentare meglio i fornitori del servizio. Non vado oltre».

Buemi non va oltre ma per lui c’è un risvolto giornalistico chiaro ed evidente. E la Fnsi e il sindacato dei giornalisti hanno nulla da dire a questo proposito?

Qualcosa da dire lo ha il presidente della Commissione Rosy Bindi: «Va bene. Sappiamo che dell’argomento si è interessato anche il Garante della privacy. È un argomento sul quale magari la Commissione avrà modo di ritornare».
Buemi, ancor più rafforzato nella propria convinzione: «Chiedo scusa, mi è sfuggito. Come ultima considerazione, io credo che sia un elemento da considerare sotto molteplici aspetti – ovviamente ci sono anche quelli relativi alla magistratura inquirente – ma le sembra logico che un filmato proveniente dal 41-bis possa finire sulle televisioni italiane?».

Il senatore Salvatore Tito Di Maggio (Sc) si accoda: «Svolgo una premessa, chiedendole se mi può rispondere prima che alle altre domande. Lo chiedo semplicemente perché io credevo di non doverle fare alcuna domanda, in quanto l’avevano già fatto i miei colleghi, ma non mi ha soddisfatto la risposta che lei ha fornito rispetto alle questioni del filmato che è apparso sulle televisioni e a Riina. Trattiamo di una questione estremamente delicata. Io credo che lei non ci possa dire soltanto che è gravissima, per una serie di motivi.
Innanzitutto, io credo che lei ci debba dire se ha attivato delle azioni ispettive, visto che è anche la titolare dell’azione disciplinare e che anche il Dap gerarchicamente dipende da lei.
Approfittando di questo e, quindi, trattando delle azioni disciplinari, io non sono a conoscenza – chiedo se ce ne vuole dare notizia – se lei abbia intrapreso un’azione disciplinare nei confronti del procuratore della Repubblica aggiunto di Palermo dottorTeresi, il quale non so che cos’altro debba fare dopo le dichiarazioni che ha rilasciato rispetto alla sentenza emessa nei confronti del procedimento Mori
».

Bingo! Non soltanto si chiede un’azione ispettiva e magari disciplinare contro chi ha fornito i filmati ai giornalisti (identificando il soggetto, con certezza, bontà di Buemi, nel Dap) ma già che ci siamo, per analogia, Di Maggio chiede se Vittorio Teresi(procuratore aggiunto di Palermo e pm del processo sulla trattativa Stato-mafia ndr) è sottoposto a procedimento disciplinare.

Cancellieri risponde così: «Per quanto riguarda azioni disciplinari verso il magistratoTeresi, non ne sono state disposte.
Per quanto riguarda gli accertamenti sulle foto, all’interno del dipartimento sono stati fatti tutti gli approfondimenti possibili. Non abbiamo elementi per poter procedere nei confronti di nessuno, perché naturalmente su queste questioni è ben difficile individuare l’autore
».

A quando il prossimo svilimento della libertà di stampa e, già che ci siamo, la richiesta di un’azione disciplinare, (l’ennesima) contro la magistratura?

Mancava la falange armata

Non so se sia credibile o se sia la boutade di chi vuole fare fumo su un processo delicato come quello della trattativa tra mafia e Stato, però la notizia è inquietante:

Per quattro anni ha rivendicato ogni singola operazione criminale andata in scena tra Milano e laSicilia. Telefonate di minaccia, ma anche comunicati di soddisfazione quando alcuni membri del governo vengono rimossi in piena Trattativa Stato – mafia. Adesso dopo vent’anni di silenzio laFalange Armata, oscura sigla legata alle stragi più oscure di questo Paese, è tornata. E con una breve lettera ha messo in allarme gli inquirenti. Perché il destinatario dell’ultima missiva della Falange è Totò Riina, che per otto mesi ha condiviso l’ora di socialità con Alberto Lorussolasciandosi sfuggire minacce e retroscena inediti sulle stragi mafiose, mentre le telecamere piazzate nel carcere di Opera dalla Dia di Palermo registravano tutto.

Solo che oltre agli inquirenti, una terza entità era al corrente delle lunghe chiacchierate tra il capo dei capi e il boss pugliese. “Chiudi quella maledetta bocca – è scritto nella lettera indirizzata a Riina e mai pervenuta al boss – ricorda che i tuoi familiari sono liberi. Per il resto ci pensiamo noi”. Firmato: Falange Armata. Una lettera inquietante, che nella sua forma estesa è scritta con un lessico militare, come pure militare è lo stile delle missive anonime arrivate negli scorsi mesi alla procura di Palermo, per segnalare la preparazione di attentati contro il pm Nino Di Matteo. La missiva arrivata a Riina però suscita almeno due interrogativi: chi c’è dietro quella sigla? E come faceva a sapere l’anonimo estensore delle esternazioni di Riina, detenuto in regime di 41 bis? Se lo chiedono Nino Di Matteo, Roberto Tartaglia, Francesco Del Bene e Vittorio Teresi, i pm della procura di Palermo che indagando sulla Trattativa si sono già imbattuti nella Falange. “Non è verificata” dice il procuratore della Dna, Franco Roberti, la fondatezza delle minacce a Riina.

No: la figlia di Riina è la figlia di uno stronzo

riina-lucia-2Noi siamo un Paese ben strano: ci arrovelliamo sui segnali più o meno criptici (con interpretazioni molto fantasiose) dei mafiosi per lasciare impunita la fiabizzazione delle famiglia di mafia. Su Panorama è uscita un’intervista alla “dolce” figlia di Totò Riina, Lucia, presunta artista di presunte arti visive. Premetto subito qualche punto importante: non penso che i figli di mafiosi non abbiano il diritto di parlare e scrivere, figurarsi, ma credo abbiano l’obbligo di farci sapere cosa ne pensano dei delitti del padre, almeno questo. Preferisco disistimare la madre di un latitante che gli chiede di non costituirsi piuttosto che leggere un articolo in cui la figlia di Totò Riina non si trova mai di fronte alla parola mafia. Ma Panorama riesca addirittura a fare di peggio: disegnare la famiglia Riina come un covo di amore e dolcezza dimenticandosi vent’anni di storia d’Italia. Come scrive bene Adriana Stazio:

Lucia Riina non è responsabile delle scelte di suo padre, che rimane suo padre, però è una persona adulta che ha deciso sì di vivere la sua vita senza entrare in associazioni mafiose ma ha scelto di fare una propaganda di questo tipo. Una propaganda alla mafia. Oggi su Panorama come mesi fa alla televisione svizzera o attraverso il suo stesso sito di arte. Un’operazione di marketing di cui lei è la testimonial per presentare un volto attraente, familiare e spendibile mediaticamente della sua famiglia. Nelle regole di Cosa Nostra non è una rottura non entrare nell’organizzazione, cosa ben consentita ai figli, la rottura è mettersi contro Cosa Nostra e le sue regole.
Chi di noi può rimanere neutrale nei confronti della mafia? Nessuno. Ecco perché a maggior ragione non può farlo la figlia di un mafioso di quel calibro specie se vuole rilasciare interviste non solo su di sé ma anche sulla sua famiglia piena di stragisti efferati che hanno insanguinato l’Italia

Qui da noi gli stronzi vivi poi da morti non si riesce a raccontarli come stronzi morti e ai figli dei mafiosi gli si permette di essere indifferenti alla mafia. Mi spiace, cara Lucia Riina, ma il tuo silenzio non ti lava nemmeno un centimetro dall’unto di tuo padre. E la tua famiglia è una rovina per questo Paese.

Mutolo e l’importanza di tenere alta l’attenzione

In un’intervista il pentito Gaspare Mutolo rispondendo a Silvia Truzzi de Il Fatto Quotidiano ancora una volta ci ricorda quanto “tenere alta l’attenzione” sia un fastidioso problema per le mafie. La risposta non è scontata non solo per il giudizio sull’azione politica (c’erano dubbi?) ma soprattutto perché investe i famigliari di vittime di mafia (e quelli che amplificano la loro voce) di una responsabilità pubblica oltre il dolore privato che per fortuna ha funzionato meglio della politica e continua a funzionare.

Mutolo, che cosa pensa delle intercettazioni di Riina?
Le aspettative di Riina, ma non solo le sue, sono state tradite: si capisce da come parla con Lorusso, quel compagno di sventura suo. Dopo tanti anni di collusione tra mafia, politica e affari, tutti questi grossi personaggi come Riina sono finiti in galera. Secondo la loro mentalità storta è perché sono stati traditi. La realtà è che i politici sono stati incalzati, in questi anni, dalle associazioni, dai familiari delle vittime della mafia. Penso a Maria Falcone, a Salvatore Borsellino, ai figli di Dalla Chiesa, alla moglie di Rocco Chinnici: persone che hanno continuato a mantenere alta l’attenzione sulle cose della mafia. Sono loro gli unici che lottano alla mafia, la volontà politica non c’è. Non vedo nessuna volontà di tagliare questi cordoni ombelicali tra le istituzioni e Cosa Nostra.

Il pentito rivela: “i servizi mi chiesero di fermare Falcone”

Parole di Franco Di Carlo, uno dei pochi collaboratori di giustizia dell’esercito corleonese, per Riina è stato l’ambasciatore nel mondo delle professioni e della politica, è stato corteggiato da servizi e apparati, ha mediato, portando in dote al gruppo egemone di Cosa nostra il capitale umano delle relazioni a tutti i livelli.

Lei ha avuto parte in questi disegni?
“Non ho preso parte alle stragi e non le avrei condivise, ma ero in carcere e ho ricevuto visite da esponenti di servizi che mi hanno proposto un accordo per fermare Falcone”.

Quando?

“Accadde prima dell’attentato all’Addaura dell’89, venne a trovarmi un emissario di un ufficiale dei servizi che era stato il mio tramite con il generale Santovito per tanti anni. Con lui c’era il capo della Mobile Arnaldo La Barbera, quest’ultimo non si presentò, ma assistette. Non lo conoscevo, lo riconobbi in fotografia in seguito. Vennero a chiedermi di trovare un modo per costringere Falcone ad andar via da Palermo, a cambiare mestiere. Mi spiego così l’attentato dell’Addaura”…

Gli facciamo rabbia

toto_riina1‘Mi viene una rabbia, ma perché questa popolazione non vuole ammazzare a nessun magistrato? A tutti … ammazzarli, proprio andarci armati e vedere … Si ingalluzziscono, proprio si ingalluzziscono… perché c’è la popolazione che li difende, che li aiuta. Quelli però che devono andare a fare la propaganda là, sono quelli che devono andare a fare la propaganda. Hanno lo scopo in testa per uno ‘strumentio’ (strumentalizzazione ndr) completamente e le persone sono con loro…’.
(Salvatore Riina intercettato il 16 novembre 2013 in un dialogo con il boss della Sacra Corona Unita Alberto Lorusso durante l’ora della cosiddetta “socialità” nel carcere milanese di Opera)

I Riina e la Puglia

Giusto oggi riflettevo sullo strano legame con la Puglia della famiglia Riina: partendo da Totò che nel carcere di Opera si lascia andare allegramente alle considerazioni con il boss della Sacra Corona Unita Lorusso fino ai viaggi “pugliesi” della sua famiglia. L’idea che Cosa Nostra sia un’entità separata da camorra, ‘ndrangheta e tutte le altre organizzazioni criminali orami è superata dagli studi, dai riscontri e anche nei fatti. Ne ha scritto un articolo come sempre intelligente e interessante Lirio Abbate per L’Espresso:

170908228-b858e71d-d78e-4881-b375-73cbf6cafb86La signora Ninetta Bagarella, sposa di Totò Riina, nei mesi scorsi ha fatto un giro nel Brindisino. Dopo aver abbracciato la figlia e i nipoti che si sono trasferiti in Puglia, è andata a salutare la moglie del capomafia Giuseppe Rogoli, uno dei fondatori della Sacra corona unita, in carcere per scontare tre ergastoli. Le due donne, secondo quello che risulta a “l’Espresso”, si incontrano a Mesagne, come se fosse una visita di cortesia, e conversano da vecchie amiche, accomunate dalla stessa passione: quella per i boss. La coincidenza vuole che sia pugliese pure la “dama di compagnia”, così viene chiamato nel gergo carcerario il detenuto che trascorre ogni giorno l’ora di socializzazione con i mafiosi al 41 bis. La “dama” di Riina è Angelo Lorusso, con un passato criminale insignificante, ma ben preparato sulla storia di Cosa nostra. Della mafia siciliana il pugliese conosce tutto. Lorusso stuzzica Riina durante le passeggiate nel cortile del carcere di Opera e lo aizza sui magistrati di Palermo, in particolare su quelli che sostengono l’accusa nel processo sulla trattativa fra mafia e Stato. Lo fa parlare delle stragi, a cominciare dalla morte del giudice Chinnici fino agli attentati contro Falcone e Borsellino, criticando anche il comportamento del latitante Matteo Messina Denaro che «pensa solo a se stesso» fino alla mancanza di coraggio dei mafiosi di oggi che non vogliono delitti eccellenti. Ma contro il pm Nino Di Matteo le affermazioni del boss sono pesantissime. Riina lo vorrebbe morto «come un tonno». Ma in libertà non ci sarebbe nessuno disposto a riprendere la stagione stragista dei corleonesi. Sarà così? Lorusso incalza molto Riina, facendogli fare affermazioni e rivelazioni su stragi e omicidi che per tre mesi sono state registrate da telecamere e microspie della Dia fatte piazzare dai pm. Si vedono i due parlare a lungo, appartati in un angolo in cui Riina e Lorusso credono di essere al riparo e quindi possono discorrere liberamente. Ma chi ha voluto che Lorusso diventasse la “dama” di Riina? La coppia sembra essere stata formata dal Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria) dopo aver ricevuto l’indicazione del nome dalla Procura nazionale antimafia. Una prassi che si ripete per tutti i capimafia detenuti. Sarà forse una coincidenza, ma anche la “dama” precedente a Lorusso assegnata a Riina era un pugliese. L’unico detenuto al 41 bis che da quasi trent’anni si rifiuta di avere una compagnia è don Raffaele Cutolo, perché non gradisce i reclusi che gli vengono assegnati per la socializzazione. E da sempre trascorre la sua detenzione in completa solitudine. La procura di Caltanissetta sta indagando su queste minacce, contenute nelle conversazioni intercettate da settembre a novembre scorso. E il Dap nei giorni scorsi ha completato il parere per sottoporre Riina a un ulteriore restringimento del carcere duro previsto dal 41 bis, che lo porterà a un ulteriore isolamento: niente più “dama di compagnia” e niente più passeggiate per sei mesi. In passato allo stesso provvedimento sono stati sottoposti Bagarella e Provenzano. Il comportamento di Riina, con l’eco mediatica provocata dalle intercettazioni, ha creato negli ultimi mesi un clima tesissimo dentro il carcere di Opera. Lì il “capo dei capi” sembrava primeggiare su tutti e rispolverare un atteggiamento spavaldo da padrino, al punto da fargli rispuntare in viso il suo ghigno da “belva”: quello che illuminava il suo volto prima di lanciarsi sulla vittima designata, descritto da tanti collaboratori di giustizia. Un’eccezione anomala. A Opera sono rinchiusi i più pericolosi criminali, ma a nessuno è permesso avere lo stesso comportamento assunto da Riina.

RadioMafiopoli 17a Puntata: “La mafia è una merda e uccide i bambini. E’ ora di gridarlo forte”

Schermata-2013-06-01-alle-06.39.58La nuova puntata di RadioMafiopoli. Questa settimana abbiamo deciso di provare a mettere in fila le tante cose che sono successe e passata abbastanza sottovoce: dalle minacce di Riina a Nino Di Matteo fino alle rivelazioni durante il processo sulla trattativa Stato-Mafia e la mattanza dei bambini. Per motivi di spazio abbiamo deciso di riprendere la rubrica “Affari di famiglia” dalla prossima settimana. Chiunque voglia discutere, criticare o collaborare noi siamo qui.