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La via Crucis dei migranti che strisciano nel sangue: folla di disperati a Tripoli

Immaginate ottocento metri di strada, una strada nel cuore di Tripoli dove c’è la sede Community day Centre dell’Unhcr. Ottocentro metri riempiti di persone che occupano i marciapiedi da entrambi i lati (una lingua più lunga di un chilometro e mezzo) una di fianco all’altra. C’è chi resta sdraiato per non sprecare le forze che avanzano dalla troppa fame, c’è chi si cura come può le ferite della fuga, c’è chi ossessivamente cerca qualche compagno di detenzione e c’è chi si augura semplicemente che tutto finisca. L’ufficio dell’Unchr è chiuso, la Libia esplode anche al proprio interno, sotto gli occhi della comunità internazionale.

Quegli ottocento metri sono una via crucis contemporanea. L’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) ci parla di «migranti feriti, stesi a terra in pozze di sangue». Giovedì scorso un migliaio di persone sono fuggite dal centro di detenzione di Al Mabani, i video riprendono un fiume di gente disperata che scappa senza nemmeno sapere dove andare. Al Mabani è un centro governativo aperto all’inizio di quest’anno, uno di quelli che ha l’odore dei soldi italiani europei: nel suo primo mese di attività contava 300 persone detenute, lo scorso venerdì secondo l’Oim contava «più di 3.400 migranti, tra cui 356 donne e 144 bambini, detenuti nel sovraffollato centro di Mabani. Molti erano stati arrestati durante i raid della scorsa settimana nel quartiere di Gergaresh e detenuti arbitrariamente». Durante la fuga disperata sei migranti sono stati uccisi e almeno 24 sono rimasti feriti dalle guardie armate che hanno cominciato a sparare. «L’uso eccessivo della forza e della violenza che spesso portano alla morte è un evento normale nei centri di detenzione libici», afferma il capo della missione dell’Oim Libia Federico Soda. «Alcuni del nostro personale che hanno assistito a questo incidente descrivono migranti feriti in una pozza di sangue che giace a terra. Siamo devastati da questa tragica perdita di vite umane».

Un medico e un’infermiera incaricati dall’Oim erano nel centro di detenzione per controlli medici regolari e assistenza quando è scoppiata la rivolta e diversi migranti hanno cercato di fuggire. Le squadre dell’OIM hanno portato quattro dei migranti feriti in una clinica privata e altri 11 nell’ospedale locale. Sono ancora a Mabani a fornire assistenza medica di emergenza. Più di 1.000 migranti in questo centro di detenzione avevano richiesto l’assistenza volontaria per il rimpatrio umanitario dell’Oim e aspettano da mesi a seguito di una decisione unilaterale e ingiustificata della Direzione per la lotta alla migrazione illegale (DCIM) di sospendere i voli umanitari dal paese. L’Oim chiede alle autorità libiche di cessare l’uso eccessivo della forza, porre fine alla detenzione arbitraria e riprendere immediatamente i voli per consentire ai migranti di partire. Anche Medici Senza Frontiere prova (abbastanza inutilmente) ad alzare la voce raccontando che quando ha portato assistenza medica, dopo i pesanti rastrellamenti della scorsa settimana, all’interno dei centri di detenzione governativi ha trovato celle talmente sovraffollate da impedire alle persone di sedersi o di sdraiarsi. Per terra c’erano feriti, persone che non mangiavano da giorni. Già Msf parlava di un tentativo di fuga fermato con una «violenza inaudita» e di «uomini picchiati in modo indiscriminato e poi stipati con forza in alcuni veicoli verso una destinazione sconosciuta».

A Tripoli, su quel marciapiedi, ci sono quelli che sono scappati dall’inferno di Al Mabani ma ci sono anche qualche centinaio di persone che a Tripoli ci sono arrivati dopo una lunga camminata, attraversando le montagne, fuggiti da altri centri di detenzioni. Alcuni testimoni parlano di una fuga di almeno 2.000 persone avvenuta la scorsa settimana da Garian: alcuni sono stati catturati, alcuni sarebbero morti nei boschi sotto gli spari della polizia libica, alcuni sono riusciti ad arrivare. In quegli ottocento metri di strada qualcuno dice che ci sarebbero quasi 4.000 persone, qualcuno parla di centinaia, qui dove l’orrore ormai dorme a cielo aperto anche avere notizie certe diventa difficile. Di sicuro le immagini ci dicono che per terra sono appoggiati anche bambini molto piccoli, dormono sull’asfalto aspettando che qualcuno li assiste. Quelli che hanno le forze per farlo manifestano di fronte alla sede dell’UNCHR: “Per la nostra sicurezza, chiediamo di essere evacuati”, è scritto su uno striscione. “La Libia non è un Paese sicuro per i rifugiati“, si legge in un altro. «Siamo al capolinea» dice una donna fuggita da uno dei tanti centri di detenzione teatri di violenze e maltrattamenti. «Ci hanno attaccato, umiliato, molti di noi sono rimasti feriti», racconta. «Siamo tutti estremamente stanchi. Ma non abbiamo un posto dove andare, veniamo addirittura cacciati dai marciapiedi».

Di numeri ufficiali parla l’Oim: «ci sono quasi 10.000 uomini, donne e bambini intrappolati in condizioni tetre nelle strutture di detenzione ufficiali che hanno un accesso limitato e spesso limitato per gli operatori umanitari», scrive in un comunicato. Persone bloccate nei centri di detenzione libici, senza diritti né garanzie del resto l’agenzia internazionale, Human Right Watch continua a ripetere che «la detenzione dei migranti in Libia è arbitraria in base al diritto internazionale in quanto prolungata, indefinita e non soggetta a controllo giurisdizionale». Nel centro di Tripoli c’è un presepe di disperati che sono scappati dai lager pagati con i nostri soldi e strisciano sull’asfalto. Ogni tanto qualche libico di buon cuore passa per portare qualcosa da mangiare. L’agenzia dell’ONU è chiusa.

L’inferno ormai dura da parecchi giorni ma nella politica italiana non si muove nulla. Non c’è una voce, nemmeno un filo di indignazione. I ministri Guerini e Di Maio forse sono convinti che la questione sia chiusa staccando l’assegno. Forse staranno pensando che finché non arrivano sulle nostre coste stiamo a posto così. Poi, ovviamente, tutti stupiti che questi scelgano il mare pur di non morire di fame o di botte sul marciapiede.

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Morti, feriti e famiglie divise: continua il pogrom di Tripoli

In Libia ieri è stato un altro giorno di disperazione e intanto dall’Italia e dall’Europa non si leva nemmeno un sussulto di indignazione. Del resto prendersela con il sicario che sta facendo il gioco sporco (un pogrom ben accetto dalla comunità internazionale contro i richiedenti asilo) sarebbe fastidioso e inopportuno. Mentre il ministero libico continua la sua ingente opera di rastrellamento nel Paese in nome di una non meglio precisata “operazione contro i criminali e i trafficanti di droga” (senza nemmeno preoccuparsi di sventolare un narcotrafficante che sia uno) molte persone si sono accampate all’esterno della sede dell’Unhcr di Tripoli (l’agenzia delle Nazioni Unite specializzata nella gestione dei rifugiati che fornisce loro protezione internazionale ed assistenza materiale) in cerca di aiuto.

Testimonianze sul posto parlano di circa 800 persone accampate all’esterno dell’ingresso dell’agenzia da giorni, spogliate di qualsiasi cosa e affamate. Sono le stesse persone che nei giorni scorsi sono state cacciate dalle proprie abitazioni dai padroni di casa che si sono appropriati dei loro mobili e dei loro averi lasciati durante la fuga per sfuggire ai controlli di polizia. «Ho addosso i vestiti che indossavo giovedì scorso. – racconta uno dei ragazzi in attesa sul marciapiede a Francesca Napoli, avvocata esperta in diritto dell’immigrazione – Ho lasciato tutti i miei vestiti nella mia stanza. Molte auto dei rifugiati sono state saccheggiate dalla polizia insieme ai soldi e ai telefoni». L’unica speranza per loro è essere registrati quanto prima dall’Unhcr per poter risultare come richiedenti asilo e ottenere protezione.

Nella giornata di ieri si sono sollevate alcune tensioni tra le persone in attesa. In diversi presenti sul posto raccontano di non avere ricevuto cibo per giorni (solo lunedì l’Unhcr aveva distribuito delle merendine ai più fragili e alle famiglie) e in molti hanno protestato. Nel pomeriggio di ieri alcuni funzionari dell’Onu hanno distribuito tonno, fagioli e biscotti per fare fronte all’emergenza. Le immagini mostrano una fiumana di persone per strada che dipendono da un pezzo di carta. Ma qui nell’inferno libico anche i documenti sembrano contare poco: sembra che nel centro di detenzione di Al-Mabani ci siano 66 persone richiedenti asilo che non sono state registrate dall’Unhcr e che quindi rischiano di essere rimpatriati senza poter fare valere i proprio diritti. Dal canto suo intanto il governo libico sta costruendo un database dei migranti: «sulla base delle direttive del Capo dell’Autorità Anti-Immigrazione Illegale, il Dipartimento Informazione e Documentazione dell’Agenzia procede all’inventario e alla registrazione degli immigrati irregolari, per creare una banca dati degli immigrati clandestini che include tutti i loro record in preparazione all’avvio delle procedure di espulsione», recita una nota del ministero dell’Interno.

Sempre ieri diversi migranti (qualcuno dice addirittura 2.000) sarebbero scappati dal centro di Garian per raggiungere Tripoli e la polizia ha aperto il fuoco. In 4 (2 sudanesi, un somalo e un nigeriano) sarebbero rimasti uccisi. Medici Senza Frontiere (che fornisce cure mediche in tre centri della capitale libica) denuncia che il numero di migranti e rifugiati trattenuti nei centri di detenzione a Tripoli è drammaticamente più che triplicato negli ultimi cinque giorni. «Stiamo vedendo le forze di sicurezza adottare misure estreme per detenere arbitrariamente più persone vulnerabili all’interno di strutture gravemente sovraffollate e dalle condizioni disumane» afferma Ellen van der Velden, responsabile delle operazioni di MSF in Libia. «Intere famiglie che vivono a Tripoli sono state fermate, ammanettate e trasportate in diversi centri di detenzione. C’è chi è stato ferito e chi persino ha perso la vita, mentre diverse famiglie sono state divise e le loro case ridotte in cumuli di macerie».

L’insicurezza causata dai raid non ha permesso a MSF di operare con le cliniche mobili che settimanalmente offrono cure mediche ai migranti e rifugiati vulnerabili in città. I raid hanno anche avuto un impatto sulla capacità delle persone di muoversi liberamente e cercare assistenza medica, anche perché chi è sfuggito all’arresto ha paura di uscire di casa. Negli ultimi due giorni, le équipe di MSF sono riuscite a visitare due centri di detenzione dove sono trattenute le persone arrestate nei recenti raid: Shara Zawiya e Al-Mabani (Ghout Sha’al). Nel centro di detenzione di Shara Zawiya, che normalmente trattiene 200-250 persone, i team di MSF ne hanno viste più di 550, tra cui donne in gravidanza e bambini appena nati rinchiusi nelle celle. Circa 120 persone erano costrette a dividersi lo stesso bagno, fuori dalle loro celle c’erano secchi pieni di urina. Al momento della distribuzione dei pasti, è scoppiata una grande agitazione, le donne hanno protestato contro le condizioni in cui sono trattenute all’interno del centro. Nel centro di detenzione di Al-Mabani, i team di MSF hanno visto le celle così sovraffollate che le persone all’interno erano costrette a stare in piedi. Centinaia di donne e bambini sono trattenuti all’aperto, senza zone d’ombra o ripari.

Un membro del team di MSF ha raccolto la testimonianza di alcuni uomini che hanno detto di non mangiare da tre giorni, mentre diverse donne hanno raccontato di ricevere al giorno un unico pasto composto da un pezzo di pane e formaggio. Molti uomini erano in stato di incoscienza e in necessità di ricevere cure mediche urgenti. «Ora più che mai, migranti e rifugiati vivono in una situazione di pericolo e sono intrappolati in Libia senza alternative per fuggire, dato che per la seconda volta quest’anno i voli umanitari sono stati sospesi senza motivo», afferma Van der Velden di MSF.

Intanto la delegazione della Mezzaluna Rossa libica dà notizie di 17 corpi di migranti che cercavano di raggiungere l’Europa sono stati rinvenuti sulle coste della Libia occidentale. Per un altro giorno l’inferno ha svolto la sua missione: governare l’orrore. La fabbrica della tortura libica è in piena produzione. I ministri italiani non hanno il tempo di spendere nemmeno una parola, loro così sempre prodighi di tweet. L’Europa promette che fisserà un incontro per decidere di occuparsene.

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Decreti Sicurezza, Gatti (Open Arms) a TPI: “Un passo avanti, ma le Ong vengono ancora criminalizzate”

Riccardo Gatti, capitano e direttore di Open Arms, commenta le modifiche ai decreti sicurezza decise dal governo Conte e approvate ieri dal Consiglio dei ministri. A TPI, Gatti spiega quale impatto potrebbero avere queste modifiche ai “decreti Salvini” sulle Ong e sulle operazioni di soccorso in mare.

Gatti, come valuta le modifiche dei decreti sicurezza, lei che si occupa di salvataggio in mare?
Partiamo da questo presupposto: sono modifiche di provvedimenti che andavano cancellato dal primo momento, e noi lo abbiamo sempre detto. I decreti sicurezza erano vergognosi. Detto questo, qualsiasi miglioramento è da valutare positivamente. Dobbiamo però ravvisare che si continuano a criminalizzare le Ong. Le multe sono passate dall’ambito amministrativo a quello penale in due fondamentali casistiche: quando non vengono avvisate tempestivamente le autorità competenti delle proprie zone Sars e quando viene forzata l’entrata in porto. Si sta dando ancora l’idea che le Ong mettano in atto comportamenti fuori dalle normative, che invece hanno sempre dimostrato di rispettare.

Si può dire lo stesso dei governi?
Chi non ha rispettato la legalità sono stati proprio i governi. Ancora una volta per puro interesse politico si colpevolizzano le Ong. Continuare a parlare delle multe è scorretto e tendenzioso. Il soccorso in mare è normato dalle convenzioni internazionali. Da quando abbiamo cominciato a soccorrere in mare, nel 2015, c’è stata una totale distruzione di un sistema coordinato, diretto dalla Guardia Costiera italiana. Le autorità competenti sono via via scomparse. La collaborazione è scomparsa. Malta ha un comportamento totalmente ostile nei confronti delle Ong, non mette in atto nemmeno le evacuazioni mediche quando le richiediamo. In Italia lo sbarco dei migranti, che dovrebbe essere tempestivo, avviene sempre dopo che sono stati trovati gli accordi di ricollocamento, che non hanno niente a che vedere col soccorso delle persone in mare.

E poi c’è la Libia…
È stato ampiamente documentato quale sia il loro comportamento: non rispondono, e se lo fanno chiedono di riportare le persone a Tripoli, dove tutti sanno cosa accade ai migranti, violando la convenzione di Ginevra e i diritti umani. Negli anni il sistema di soccorso in mare coordinato è venuto meno, l’atteggiamento è diventato più ostile ed è aumentata la criminalizzazione, anche mediatica, delle Ong, mentre si è continuato a insistere con la politica dei respingimenti per procura, con l’unico obiettivo di intercettare le persone e riportarle in Libia. Quindi, ora ben venga qualsiasi miglioramento rispetto ai decreti Salvini, ma il problema di fondo resta sempre lo stesso.

Il governo però sostiene che passare dal reato amministrativo a quello penale sia un modo per tutelare le Ong: ci si affida infatti a un giudice esterno e terzo per valutare eventuali irregolarità. Che ne pensa?
Il discorso che fa il governo va bene, ma ci dimentichiamo che stiamo parlando delle stesse organizzazioni che hanno dimostrato per anni (anche nei tribunali) che di irregolarità non ne commettono. Siamo ancora sotto osservazione? Siamo sempre quelli che venivano coordinati dalla Guardia Costiera e dalla Marina Militare italiana. La verità è che andrebbe ripristinato il soccorso in mare, questo sì che migliorerebbe la situazione.

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