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Vito Galatolo

“Il tritolo per Di Matteo cercatelo nei piani alti”

loraquotidiano.it_2014-12-16_07-22-43-454x500”L’esplosivo per Di Matteo dovete cercarlo nei piani alti”: così  ha detto ai finanzieri della Valutaria che lo stavano accompagnando in carcere  il boss Vincenzo Graziano, capomandamento di Resuttana, fermato con l’accusa di essere l’organizzatore del piano di morte per il pm Nino Di Matteo, e in particolare l’uomo che avrebbe nascosto i 200 chili di tritolo nascosti a Palermo e ancora non ritrovati, nonostante le numerose perlustrazioni ordinate dalla procura di Palermo. Cosa voleva dire il boss ai finanzieri con quella frase sibillina?  E’ quello che si domandano in questo giorni gli investigatori alle prese con la ricerca dell’esplosivo che secondo il pentito Vito Galatolo ”è ancora a Palermo, e rende sempre attuale il rischio di un attentato” al pm della trattativa Stato-mafia. Era una battuta quella di Graziano? Era un riferimento ai ”piani alti” della mafia o ai vertici delle istituzioni? I pm lo hanno chiesto direttamente al boss, tirato in ballo dalle dichiarazioni di Galatolo, nell’interrogatorio di garanzia effettuato davanti al gip Luigi Petrucci. Il costruttore ora smentisce di aver pronunciato quella frase. E le domande su quella frase enigmatica restano tutte aperte.

Galatolo racconta che nel dicembre  del 2012 il boss Graziano, insieme a Alessandro D’Ambrogio(capomafia di Porta Nuova) e Girolamo Biondino (fratello dell’autista di Totò Riina) fu protagonista di alcune riunioni nelle quali fu letta una lettera di Matteo Messina Denaro, con l’ordine di uccidere Di Matteo. Dal boss latitante di Castelvetrano infatti era arrivato l’input di organizzare l’attentato nei confronti del magistrato palermitano, che andava eliminato perché’ ”era andato troppo oltre”.

Galatolo ha poi riferito che i boss fecero una colletta per comprare il tritolo, raccogliendo circa 600 mila euro. E che proprio Graziano si sarebbe occupato di  procurare dalla Calabria il tritolo per poi conservarlo in previsione dell’attentato.

Già nelle scorse settimane, subito dopo l’inizio della collaborazione di Galatolo, le forze dell’ordine avevano fatto scattare numerose perquisizioni e scavi con i cani anti-bomba ed i metal detector nelle borgate palermitane e nelle campagne circostanti, a caccia dell’esplosivo: le ricerche  si erano concentrate, in particolare, nella zona di Monreale, dove ha una casa di campagna, con un terreno agricolo, proprio Graziano, arrestato il 23 giugno scorso, assieme a Galatolo, nel blitz Apocalisse, e tornato in libertà a luglio, dopo che il tribunale del riesame lo scarcerò per mancanza di gravi indizi di colpevolezza.
Al boss di Resuttana veniva contestato, sulla base delle dichiarazioni del collaboratore di giustiziaSergio Flamia, anche di avere affiliato altri uomini d’onore mentre si trovava  in carcere.

Galatolo, in realtà, non ha mai fornito certezze sull’ubicazione e sul nascondiglio del tritolo: la perquisizione nel terreno e nella villetta di Graziano era stata disposta dagli inquirenti in base al calibro mafioso del personaggio e al suo ruolo nei summit mafiosi del dicembre 2012 durante la preparazione della strage per Di Matteo.

Vincenzo Graziano, ritenuto specializzato nella gestione delle slot machines,  era già stato condannato per mafia, e aveva finito di scontare la pena nel 2012, poco prima di finire in manette nel blitz Apocalisse. Per gli inquirenti, il boss di Resuttana sarebbe stato regista del monopolio delle macchinette mangiasoldi e delle scommesse online, che avrebbe imposto nei bar di mezza città, proprio lavorando in società con Galatolo. Un business che è diventato negli ultimi anni una cospicua fonte di finanziamento per le famiglie mafiose.  Secondo gli inquirenti, Graziano avrebbe preso il posto di Galatolo nell’organigramma palermitano di Cosa nostra.

(fonte)

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Il pentito che doveva essere “esca” per Nino Di Matteo

Per uccidere il pm Nino Di Matteo Cosa nostra aveva elaborato un piano alternativo all’auto imbottita di tritolo da far esplodere a Palermo. Come negli anni novanta era avvenuto per Giovanni Falcone, i boss stavano valutando l’opportunità di colpire il magistrato titolare dell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia a Roma. C’era anche “l’esca perfetta” rappresentata dal collaboratore di giustizia Salvatore Cucuzza, ex capomandamento di Porta nuova, arrestato nel 1996. Il particolare emerge dalle dichiarazioni del neo pentito Vito Galatolo che da qualche mese ormai sta riempiendo i verbali delle Procure di Palermo e Caltanissetta. Ai pm l’ex boss dell’Acquasanta ha parlato di contatti fra uomini della famiglia Graziano con lo storico collaboratore di giustizia, avvenuti nel 2012. Nei giorni scorsi la Guardia di finanza ha tratto in arresto Vincenzo Graziano, ritenuto dagli investigatori il “reggente” del mandamento palermitano di Resuttana. Questi viene indicato da Galatolo come il custode del tritolo che Cosa nostra si era procurato per compiere l’attentato contro il sostituto procuratore palermitano. Ed è nel provvedimento di fermo che salta fuori il nome di Cucuzza. Galatolo racconta ai pm di aver appreso da un certo “omissis” “che era in contatto con Salvatore Cucuzza, il cui nome di copertura, secondo quanto riferitomi da Camillo Graziano, era Giorgio Altavilla e che questi poteva attingere notizie sulle località ove erano allocati i collaboratori di giustizia”.

Fuga di notizie?
Il procuratore facente funzioni Leonardo Agueci e l’aggiunto Vittorio Teresi, in conferenza stampa, rispondendo ad una domanda sull’eventuale attendibilità del neo pentito, avevano espressamente parlato di “formidabili riscontri”. Il riferimento era ad alcune indagini ancora in corso, condotte dalla Dda di Palermo, che fornirebbero degli elementi che mai erano emersi prima. Che questi elementi riguardino proprio i rapporti tra Cucuzza ed i Graziano? Secondo quanto riportato da alcune indiscrezioni giornalistiche sarebbero questi i “formidabili riscontri”. Ma gli elementi su Cucuzza non terminerebbero qui. Vito Galatolo ha raccontato che l’ex boss di Porta nuova avrebbe avuto anche un ruolo nel progetto di attentato nella Capitale. Avrebbe dovuto attirare Di Matteo in una trappola, chiedendo di essere sentito dal pm palermitano riguardo ad alcune rivelazioni sulla trattativa Stato-mafia. E a Roma il magistrato sarebbe stato ucciso a colpi di kalashnikov o con un bazooka. E’ proprio questa eventuale partecipazione del pentito all’attentato che viene ritenuto particolarmente inquietante dagli investigatori, anche se il progetto su Roma sarebbe stata successivamente scartato.

Condanna permanente
Quel che è certo è che l’allerta in Procura resta massima e le indagini sui duecento chili di tritolo giunti in città per fermare il magistrato che “si è spinto troppo oltre” vanno avanti. Oltre alle parole dell’ex boss dell’Acquasanta vengono esaminate nei particolari le parole di anonimi e confidenti. Nell’anonimo del marzo 2013, quello scritto da un presunto membro della famiglia di Alcamo, si parlava di “Amici romani di Matteo (Messina Denaro, ndr) hanno deciso di eliminare il pm Nino Di Matteo in questo momento di confusione istituzionale, per fermare questa deriva di ingovernabilità. Cosa Nostra ha dato il suo assenso, ma io non sono d’accordo”. All’interno della stessa missiva venivano fornite una serie di notizie riservate e dettagliate sugli spostamenti quotidiani (e sui punti deboli della protezione) di Di Matteo. Dichiarazioni che si incrociano con quelle riportate i primi di luglio dello stesso anno dal quotidiano La Repubblica. In quell’occasione si parlava di un confidente della squadra mobile (che non sarebbe mafioso ma che nel passato ha fornito sempre notizie attendibili sul traffico di armi e di droga) il quale confermava l’intenzione di Cosa nostra di preparando un attentato nei confronti del pm. Ed anche in quel caso il confidente parlava di una riunione fra capimafia di città e alcuni “paesani”, in cui qualcuno avrebbe addirittura sollecitato l’esecuzione dell’attentato. Un incontro dove si parlava anche dell’esplosivo giunto già allora a Palermo. Esplosivo che resta nascosto nelle mani di chi, ancora oggi, può dare esecuzione a quell’ordine di morte trasmesso da Messina Denaro, certificato da Riina e voluto da quei “mandanti esterni dell’omicidio Borsellino”.

(fonte)