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Giugno 2012

Il centrosinistra a forma di cicuta

Nichi Vendola in un’intervista di oggi (almeno per chiarire le idee su quello che si diceva poco fa, eh):

Per cambiare il Paese, deve aspirare a guidarlo, Presidente. Il centrosinistra sta scaldando i motori per scegliere il candidato alla premiership: Lei che fa?
A me pare che ci sia qualcuno che sta scaldando i motori, ma non so se sia il centrosinistra a scaldare i motori, perchè il punto è che io non so se esiste il centrosinistra. Questo è il tema per me fondamentale. Vedo Bersani che sta scaldando i motori soprattutto con l’apparato del suo partito, Renzi sta facendo lo stesso in particolare con un pezzo di istituzioni e con un un pezzo di borghesia capitalista. Ma non vedo il centrosinistra in campo.

E quando lo vedremo il centrosinistra in campo?
Quando verrà definito quale è il suo minimo comune denominatore. Perchè noi possiamo avere differenze importanti su tante questioni e nelle primarie ci si gioca su questo una partita. Però un conto è se uno dice unioni civili e l’altro matrimoni gay, ma diventa difficile pensare di competere con chi propone i cimiteri per i feti. Ci sono delle questioni preliminari che vanno affrontare e sta al Pd, che è il partito più grande, dare qualche risposta. E fino ad ora le risposte, che consentono di capire quale è il percorso e quali sono gli alleati, sono sfuggenti e contraddittorie.

Non è che Lei sta prefigurando una situazione in cui il minimo comune denominatore non si troverà e quindi, Sel, pezzi di Fiom e movimentismo faranno una autonoma corsa alla sinistra del Pd?
Guardi, io voglio dire che nulla è scontato. Le cose bisogna costruirle e quando parliamo di centrosinistra evochiamo soggetti che oggi non esistono. Il centrosinistra è quell’alleanza politico elettorale che si è presentata alle ultime elezioni amministrative? O ha una diversa configurazione? Di che coalizione stiamo parlando? Parliamo di una coalizione che ha il segno culturale del governo Monti? O parliamo di una coalizione che ha il segno culturale di un’alternativa radicale al liberismo?

Vista come è andata in passato, credo che da una discussione di questo tenore non ne uscirete vivi
Però, vede, si tratta di domande importanti. Io sono ammirato da alcune elaborazioni che leggo su L’Unità e che provengono dal Pd, dove ci sono menti autorevoli e raffinatissime, che indicano la plutocrazia come il soggetto promotore di crisi; il problema è che le conseguenze politiche che si traggono in Parlamento vanno veramente da un’altra parte. Insomma, io non vorrei sottoscrivere un programma in cui c’è una parte filosofica tutta da condividere ed una parte politica che è cicuta da bere.

Libero libro

Lo dice il Guardian: Piccola ma significativa rivoluzione in alcune carceri di massima sicurezza brasiliane: quattro prigioni sono state selezionate come test di un nuovo programma del governo di Dilma Rousseff che permette ai detenuti di godere di quattro giorni di libertà per ogni libro letto (letteratura, filosofia e scienza sono gli argomenti al centro della proposta). Il recluso dovrà poi scrivere un saggio breve a partire dal testo e, previa valutazione di un comitato, otterrà il permesso di novantasei ore.

C’è un limite però: quarantotto giorni ogni anno, ovvero dodici libri. E il libro non va “consumato” in più di quattro settimane. Il programma si chiama “Expiação via leitura”, e l’obiettivo è quello di abbassare sensibilmente il numero di detenuti del più grande stato del Sud America, che raggiunge oggi circa 513 mila persone, il 70% delle quali, si calcola, non possiede nemmeno una licenza media.

Le primarie “fantasma” in Lombardia

Lo dico sotto voce perché ci torneremo sicuramente. Ma oggi leggendo i quotidiani la situazione lombarda è questa: Civati non esclude di candidarsi alle primarie di centrosinistra per la Regione, Tabacci su Affari Italiani non conferma, e si parla in giro di primarie “aperte”.

Ora: nessuno sa bene di che primarie si stia parlando, se qualcuno ne sta parlando e chi ne sta parlando. Ma questo ci sta, per carità. E’ che intanto Bersani abbraccia sorridente Casini a Roma e anche qui in Lombardia parecchi democratici esultano pii. E a Roma dicono che IDV non va bene, e su SEL è tutto da vedere, forse sì o forse no.

E allora mi piacerebbe sapere se i mezzi candidati in corsa hanno qualche idea in merito, se stiamo parlando del centrosinistra, del centrocentrocentrosinistra oppure sotto le mentite spoglie del “patto civico” c’è l’accordo catto-tecnico-e magari un pezzetto ciellino.

Così per sapere. Perché si legge di chi si sta parlando e non di cosa stiamo parlando.

E intanto da fuori a dettare i tempi sembra che sia proprio la Lega. Che è il favore più grande che possiamo concederle.

Formigoni go home! Il sito e l’appello.

Il tanto decantato modello lombardo, tuttaltro che un buon governo, ha favorito lo svilupparsi di un sistema clientelare e non ha risposto ai problemi dei cittadini: partendo dal lavoro per arrivare alla tutela dell’ambiente. 17 scandali in 17 anni, il Presidente di Regione indagato per corruzione, 1/5 del Consiglio Regionale indagato o condannato oggi ne sono la prova provata e sono tutte ottime ragioni per chiedere di tornare al voto.

E allora noi glielo ricordiamo. Con una mail alla sua segreteria.

Formigoni go home, il sito e l’appello da sottoscrivere lo trovate qui.

Formigoni secondo Fo

L’intervista di Oriana Liso oggi su Repubblica:

Dario Fo: mi ricorda sant’Ambrogio che diceva basta a chi si definisce da solo un santo

“Sta venendo fuori il marcio il governatore ammetta e lasci”

MI­LA­NO — Pre­mio No­bel, uo­mo di tea­tro e lom­bar­do doc. Da­rio Fo, co­sa pen­sa del­le vi­cen­de giu­di­zia­rie che coin­vol­go­no il go­ver­na­to­re For­mi­go­ni?

«Pri­ma di tut­to mi di­ca: con­ti­nua ad as­si­cu­ra­re di non es­se­re in­da­ga­to? Con­ti­nua a di­re che lui non ha fat­to pro­prio nien­te?».

Già.

«Nel quar­to se­co­lo avan­ti Cri­sto il gran­de scul­to­re Fi­dia fu in­ca­ri­ca­to di rea­liz­za­re una sta­tua di Ate­na ma par­te del­l’o­ro che ser­vi­va per la do­ra­tu­ra del­la sta­tua — rac­col­to con il con­tri­bu­to di tut­ti gli ate­nie­si, an­che dei più po­ve­ri — fu ru­ba­to. So­spet­ta­to, pro­prio Fi­dia. Che al le­gi­sla­to­re So­lo­ne ri­bat­te: “Quan­do avre­te le pro­ve cer­te che ho ru­ba­to quel­l’o­ro,al­lo­ra po­tre­te ve­ni­re a di­stur­bar­mi. Nes­su­no dei vo­stri giu­di­ci può in­di­car­mi co­me col­pe­vo­le, quin­di la­scia­te­mi tran­quil­lo”».

Il ri­fe­ri­men­to sem­bra chia­ro.

«Ri­spon­de So­lo­ne a Fi­dia: “la gen­te ha in­tui­to che tu sei col­pe­vo­le di fur­to ai dan­ni del­la po­po­la­zio­ne in­te­ra. Tu hai la pos­si­bi­li­tà e l’a­bi­li­tà per men­ti­re, ma sai co­sa ac­ca­drà? Tut­ti ti co­no­sco­no co­me un gran­dis­si­mo ar­ti­sta, ma se ti com­por­ti co­me un fur­bo qual­sia­si, nien­te po­trà sal­var­ti dal per­de­re la tua glo­ria. Sce­gli tu, a me fai tan­ta pe­na”. A que­sto pun­to Fi­dia scop­pia a pian­ge­re e di­ce: so­no col­pe­vo­le».

Si aspet­ta che il pre­si­den­te For­mi­go­ni fac­cia lo stes­so?

«Mi pia­ce­reb­be ve­de­re For-mi­go­ni am­met­te­re sem­pli­ce­men­te: “sì, so­no col­pe­vo­le”. Sen­za ar­ro­gan­za, sen­za que­ste iro­nie con­ti­nue, que­sto mo­do sprez­zan­te di ri­ven­di­ca­re fe­ste, pran­zi, ba­gni. Di­ce: “so­no pu­ro co­me l’ac­qua di fon­te”. Ma nean­che Ge­sù ha mai det­to una co­sa co­sì pre­sun­tuo­sa. Quel­lo su Fi­dia è un rac­con­to di­men­ti­ca­to dal­la sto­ria: em­ble­ma­ti­co an­che que­sto di co­me la no­stra cul­tu­ra ab­bia per­so per stra­da va­lo­ri co­me l’o­ne­stà, la tra­spa­ren­za, la cul­tu­ra stes­sa».

Cre­de che le ec­cel­len­ze lom­bar­de — co­me la cul­tu­ra, ap­pun­to, non so­lo la sa­ni­tà — ri­schi­no il de­cli­no?

«Ma lo so­no già, in de­cli­no. Per an­ni ci si è van­ta­ti di una re­gio­ne ai pri­mi po­sti nel pro­dur­re cul­tu­ra, la­vo­ro, ope­re pub­bli­che e tan­to al­tro. Ma è co­me se per an­ni si­fos­se ster­ra­ta so­lo la su­per­fi­cie del ter­re­no, la­scian­do che sot­to pro­li­fe­ras­se il mar­cio. E il mar­cio ora sta ve­nen­do fuo­ri: quan­to so­no gli in­da­ga­ti, in Re­gio­ne? Sia­mo go­ver­na­ti da una strut­tu­ra di cor­rot­ti che re­sta­no at­tac­ca­ti di­spe­ra­ta­men­te al­le lo­ro pol­tro­ne men­tre sta an­dan­do tut­to in ro­vi­na. An­zi, pro­prio chi ci go­ver­na sta man­dan­do tut­to in ro­vi­na».

È una vi­sio­ne mol­to pes­si­mi­sta, la sua. Non c’è mo­do di fer­ma­re que­sta fra­na?

«Bi­so­gne­reb­be riu­sci­re a cac­cia­re i fan­ta­smi, co­me li chia­ma­va San­t’Am­bro­gio. Che di­ce­va, di Mi­la­no: ba­sta con que­sti uo­mi­ni che si tra­ve­sto­no da san­ti, che si de­fi­ni­sco­no da so­li, dei san­ti. Non sem­bra­no le pa­ro­le di For­mi­go­ni, que­ste?».

RIO+20 e la cittadinanza come bene comune

Padre Zanotelli tira le conclusioni (amare) sul summit internazionale che qui in Italia si è notato pochissimo (troppo impegnati a coniare gli spot per le prossime politiche, tranne qualche caso) e usa parole forti:

Anche se non è ancora stato pubblicato un documento ufficiale finale di Rio+20, appare chiaro non solo il fallimento del vertice Onu ma soprattutto è di tutta evidenza che le Nazioni Unite sono prigioniere delle multinazionali, delle banche, del Fondo monetario internazionale, della Banca mondiale, dell’Organizzazione mondiale del commercio. Di fatto l’Onu benedice l’economia verde di mercato a vantaggio del grande business e della finanza globale. Siamo di fronte al fallimento dell’Onu, su cui la società civile aveva riposto tante speranze, e all’incapacità di stati e governi di dare una risposta alla gravissima crisi ecologica. In definitiva è il fallimento della politica. Ecco perché diventa fondamentale la capacità della cittadinanza attiva di organizzarsi a livello locale, regionale, nazionale e internazionale, come ha fatto la Cupola dos Povos e come dovremo fare al Forum sociale mondiale di Tunisi, che si terrà nel marzo del 2013.

Rimettere in discussione il modello sociale e economico è la priorità per uscire dai fanghi delle tiepidezze anche (e soprattutto) per qualsiasi riflessione sulle primarie del centrosinistra. Ed è il ruolo che non si può sperare tengano gli altri, è proprio il nostro compito. E’ la bandiera della candidatura che viene da SEL per le primarie nazionali (perché ne parlano in pochi, ma sono aperte per davvero). Zanotelli scrive:

Questo però non basta, se non si lavora seriamente dal basso per fare nascere un nuovo modello sociale ed economico alternativo a quello attuale. Che è entrato in una nuova fase di appropriazione e di finanziarizzazione dei beni comuni (acqua, aria, energia, terra) e che sta mettendo con le spalle al muro ogni forma di democrazia. Come missionari comboniani, riuniti a Rio nel contesto della Cupula dos Povos, stiamo affrontando proprio in questi giorni questi stessi temi perché sono centrali per la missione oggi.

Ecco, facciamoci invitare.

Chi racconta le mafie: cosa avrei voluto dire oggi ad Ercolano

Oggi avrei dovuto essere ospite ad Ercolano dagli amici di Radio Siani per il Festival dell’Impegno Civile. Non ci sono potuto andare. Ho mandato due righe. Ecco il testo del mio intervento:

Innanzitutto mi scuso per la mia assenza. Ci armiamo contro le mafie ma soccombiamo all’influenza, siamo fatti così. Mi spiace non potere spendere l’abbraccio che ho tenuto in serbo per Pino Maniaci e la nostra Telejato che può rivedere la luce e continuare a raccontare che la sfrontatezza delle mafie in quei territori ha bisogno di uno sfrontato coraggio quotidiano e sempre in diretta. E avrei raccontato a Ciro com’è difficile qui giù al Nord fare informazione senza i morti ammazzati in giro che aprano le pance e le teste.

Perché il titolo della tavola rotonda proposto dagli amici di Radio Siani “Chi racconta le mafie” mi ha subito posto la domanda: ma chi racconta le mafie? Sappiamo chi cerca di fermarle e arrestarle, sappiamo dove vengono giudicate, conosciamo i meccanismi legislativi che le rallentano (o le favoriscono) ma in questa nostra Italia chi racconta le mafie? I giornalisti, mi si dice. Non tutti, chiaro. Ma molti. E’ vero. Ci basta? Gli scrittori, mi ricordano, anche se poi di solito sono i giornalisti che decidono di prendersi la libertà senza i limiti di battute. Il cinema e il teatro, ogni tanto qualcuno si avventura. Il cinema e il teatro? Pochi pervenuti, forse sono poco attento io, e quasi sempre sono trasposizioni giornalistiche, del resto.

Ecco, in fondo, se fossi stato lì vi avrei annoiato moltissimo su un mio dubbio (mi ci sto arrovellando da qualche mese) che non abbiamo ancora capito bene come raccontarle in giro, le mafie. Dico per strada. Tra la gente. Nei bar. Nelle piazze. L’argomento mafie che entra prepotentemente nei pochi minuti di conversazione in una giornata tra colleghi, coinquilini, i fedeli, tra i mariti con le mogli, negli spogliatoi delle partite di calcetto del mercoledì o nei treni pendolari. Lì ci siamo arrivati? Perché abbiamo un esercito di ostinati in giro (dico, lì siete tutti degli ostinati dell’antimafia che mi rendono orgoglioso di essere vostro concittadino) ma la sensazione è che poi ad un certo punto quel filo cada e si perda. Esce stampato in pagina, diventa un servizio televisivo, si veste da scena teatrale e non riesce a scendere le scale che portano alla gente. Rimane arroccato tra pochi. Un’oligarchia dell’analisi, delle chiavi di lettura e della consapevolezza.

Diventiamo “pop” se ci succede qualcosa. Si va a vedere Cavalli per vedere l’effetto che fa il minacciato al Nord, si invita Pino a raccontare delle lettere anonime o si solidarizza con Ciro per la causa milionaria. E noi (io almeno sicuro, non so se capita anche a voi) a correre e faticare per infilarci tra le pieghe del voyeurismo  qualche concetto vero, qualche valore che non ha bisogno di azzardate temperature emotive, uno slancio di studio e di analisi. Altrimenti siamo tutti animali da tournée, come l’uomo lupo che arrivava nelle piazze qualche decennio fa. Rischiamo addirittura di essere rassicuranti. Se esiste Cavalli a Milano, Pino Maniaci a Partinico, Ciro nelle terre di Cosentino e tutti gli altri nei loro luoghi dove devono stare ecco, in fondo, sembra che possa bastare per sentirsi tutti più sicuri.

Mi spaventa pensare a Don Peppe Diana che era riuscito ad infilare la parola antimafia invece nelle borse della spesa di tutte le donne di Casal di Principe. Mi spaventa pensare a Placido Rizzotto che aveva trovato le parole giuste per farla diventare un’emergenza nei campi. Mi spaventa la potenza di Don Puglisi che è riuscito ad infettare di bellezza i vicoli e i sottoscala. La potenza non perché bellezza o intelligenza, la potenza nell’essere così virale, così grande, così forte eppure così semplice da diventare subito quotidiana. Ecco, quella potenza lì. Come facciamo ad armarcene?

Non avrei avuto la risposta, eh. Avrei fatto la domanda con un discorso un po’ più arzigogolato e dentro un po’ di ironia per lenire il caldo. Ma quella potenza lì, per favore, se oggi pomeriggio trovate anche solo un’idea di come possiamo ammalarcene fatemi sapere con urgenza.

Un abbraccio.

 

Lo dicevano una follia e ora lo inseguono tutti: il reddito minimo garantito

E, devo dire, che comunque questo improvviso interessi può farci solo piacere. Perché ridisegnare il welfare partendo dalla comparazione dei diversi Paesi europei sul reddito minimo garantito (come si può leggere nel documento del MISSOC, il sistema informativo comune sulla protezione sociale negli Stati membri dell’Ue e nell’area economica europea) noi lo stiamo dicendo da un po’. E la riflessione di Tito Boeri per La Repubblica di oggi ci conforta:

Il premier ha garantito che troverà soluzioni alla questione esodati-esodandi. Bene che cerchi soluzioni universali anziché affidarsi alla discrezionalità dei tavoli tecnici invocati da più parti e prefigurati nella stessa audizione parlamentare del ministro Fornero.

I tavoli non sono fatti per questo governo e il tavolo tecnico, chiamato a gestire “in modo pragmatico” la vicenda, rischia di essere la premessa di una nuova moltiplicazione di regimi previdenziali ad hoc per specifiche categorie di lavoratori, quando il più che condivisibile obiettivo della riforma varata alla genesi del governo Monti era stato proprio quello di uniformare i trattamenti previdenziali, stabilendo regole uguali per tutti. Peggio ancora, il tavolo rischia di dare ai lavoratori un messaggio di cui proprio non si sentiva il bisogno: se vuoi avere la pensione nei tempi preventivati, devi ricorrere alle rappresentanze sindacali e alla mediazione della politica.
Cerchiamo di riassumere i tortuosi tratti della vicenda. In gioco le sorti previdenziali di lavoratori coinvolti in processi di ristrutturazione con licenziamenti collettivi, esuberi con uscite volontarie più o meno incentivate prima dell’entrata in vigore della riforma. Questi lavoratori si sono visti spostare in là nel tempo la data con cui avrebbero potuto fruire della pensione, su cui contavano in genere al termine di un periodo di cosiddetta “mobilità lunga”, con sequenza di buonuscita, cassa integrazione, indennità di mobilità e, infine, pensione. Per questi lavoratori, inizialmente dimenticati, poi stimati in una platea di 50.000 persone, “prudenzialmente” elevata a 65.000 al varo della riforma e infine lasciata indeterminata nel milleproroghe, è stata introdotta una clausola di salvaguardia che preservava il loro diritto ad andare in pensione con le regole (e i tempi) precedenti. Oggi le nuove stime del ministero parlano di 120.000 persone, ma sarebbero addirittura 370.000 secondo i consulenti del lavoro e 390.000 nei calcoli dell’Inps.
Perché la platea coinvolta è stata così grossolanamente sottostimata?
La gestione privatistica delle informazioni statistiche da parte del presidente dell’Inps ha giocato un ruolo importante. Il problema non è la fuga di notizie, ma l’assenza di notizie, perché Mastrapasqua non rende disponibili i dati che raccoglie nell’esercizio delle sue funzioni. Si limita a filtrarli a suo piacimento. Ha pesato anche l’incapacità del ministero del Lavoro di monitorare gli accordi aziendali: come mai i tanti ministri succedutisi nel Dopoguerra, quasi sempre ex leader sindacali, non hanno pensato di costruire un’anagrafe degli accordi aziendali? Conta, certo, anche la fretta con cui è stato varato il provvedimento, come riconosciuto dal ministro Fornero. Ma bisogna saper intervenire bene e in fretta perché spesso le riforme si riescono a fare solo in condizioni di emergenza: ricordiamo che la riforma delle pensioni andava fatta 15 anni fa. Infine, c’è un altro fattore dietro alla sottostima, importante perché ci dà una misura delle insidie che si celano dietro al tavolo tecnico: il problema è che la scelta dei lavoratori “esodandi” di restare in azienda dipenderà proprio dal modo con cui il “tavolo tecnico” interpreterà l’estensione della clausola di salvaguardia. È questa una scelta che dipenderà principalmente dalla forza contrattuale delle diverse categorie di lavoratori coinvolti. E si porterà dietro un inevitabile strascico di tensioni e recriminazioni, di cui abbiamo già avuto qualche anticipazione in queste settimane.
Per tutti questi motivi, invece di affidarsi alla discrezionalità del tavolo tecnico, meglio ritoccare le regole per le pensioni, gli ammortizzatori sociali o entrambi, senza creare regimi ad hoc, ma semmai anticipando l’entrata in vigore delle nuove normative.
La riforma varata a dicembre impone un drastico incremento dell’età effettiva di pensionamento per chi ha anzianità aziendali inferiori ai 42 anni e innalza rapidamente l’età pensionabile a 67 anni. La vicenda esodati è figlia proprio di questo blocco, che oscura alla memoria gli “scaloni” di Maroni e Tremonti. Invece di bloccare così drasticamente le uscite, si sarebbe potuto adeguare il livello delle prestazioni a seconda dell’età di pensionamento, lasciando poi libertà di scelta fra i 63 e i 68 anni, come avverrà per le generazioni che avranno pensioni maturate interamente col metodo contributivo. Perché dal punto di vista del bilancio dello Stato (e del debito pubblico), quando si applicano riduzioni attuariali negli importi delle pensioni non c’è differenza fra pagare una pensione più bassa più a lungo o una pensione più alta per un periodo più breve. Questa strada può essere ancora perseguita, applicando i coefficienti di trasformazione previsti dal metodo contributivo anche alle pensioni calcolate col regime retributivo o quello ibrido, parzialmente retributivo e parzialmente contributivo. I lavoratori in esubero si troverebbero così con una pensione più o meno nei tempi preventivati, anche se fino al 15% più bassa di quella su cui avevano inizialmente pianificato l’uscita. Avrebbero però la possibilità di cumulare a questa pensione redditi da altri lavori. Inoltre, ai loro datori di lavoro potrebbe venire richiesto di continuare a versare i contributi previdenziali per qualche anno, se lo desiderano reintegrando i lavoratori magari a orari e salari ridotti, onde permettere loro di rimpinguare la pensione.
La seconda ragione per cui la vicenda esodati è oggi esplosiva è che contestualmente all’aver introdotto un rigido blocco delle uscite, il governo ha ridotto la durata delle indennità di mobilità con la riforma del mercato del lavoro, che si dovrà approvare prima del vertice europeo. Il tutto, nel mezzo di una pesante recessione. Chi è rimasto senza lavoro con più di 60 anni si sente così preso tra due fuochi: una pensione che si allontana e sussidi di disoccupazione che si accorciano con scarse prospettive di trovare lavoro. Sarebbe perciò opportuno cominciare a muoversi nella direzione che dovrebbe prendere ogni seria riforma degli ammortizzatori sociali, costruendo, come nel resto d’Europa, un sistema di assistenza per i disoccupati di lunga durata che non hanno altre fonti di reddito. Potrebbe essere inizialmente sperimentato sulle fasce di età coinvolte dalla riforma, per poi essere generalizzato a tutti, non appena le condizioni di finanza pubblica lo renderanno possibile. Una sperimentazione di un reddito minimo garantito è stata prevista anche in sede di conversione in legge del decreto semplificazione, quindi si tratterebbe di circoscrivere la platea dei beneficiari non in base al Comune di residenza, ma all’età, il che rende tra l’altro più agevole la sperimentazione. Essendo i trasferimenti condizionati al manifestarsi di condizioni di indigenza ed essendo la povertà oggi concentrata in altre fasce di età, questa misura avrebbe costi comparabili a quelli della sperimentazione già prevista o potrebbe essere finanziata attingendo ai fondi comunitari (si tratta tra l’altro di costi associati all’attuazione di una riforma strutturale, come previsto dai progetti di riforma dei fondi strutturali in discussione a Bruxelles).
Ciò che accomuna i due correttivi è il fatto di anticipare l’entrata in vigore di regole che, prima o poi, varranno per tutti. Ci si muove perciò sulla strada dell’universalismo. Ci sembra una strada di gran lunga preferibile alle deroghe, alle proroghe e alle eccezioni fatte solo per dare più potere ai partiti e convincere gli italiani, una volta di più, che in Italia non esistono diritti soggettivi, ma solo privilegi cui si può accedere trovandosi un rappresentante con muscoli e voce stentorea, cui delegare la difesa dei propri interessi, rigorosamente in contrapposizione a quelli di tutti gli altri.

Intanto in rete vede la luce il sito del comitato promotore per una legge di iniziativa popolare (http://www.redditogarantito.it) e noi in Lombardia siamo pronti per la raccolta firme.

Insomma, si prova a fare politica.