Erano altri tempi quelli di Adriano Olivetti. Imprenditoria etica e un Paese che nonostante la crescita aveva a cuore il pil dell’uguaglianza e della felicità. Tempi in cui la riflessione sul lavoro e sui suoi rapporti con la vita e con le persone non aveva slogan ma pensiero.
E lui, Olivetti, stava anche nelle relazioni della letteratura senza sfilarsene snob come va tanto di moda oggi. Mi chiedevo, leggendo il libro, come scucirò a raccontare ai miei figli che davvero una volta gli imprenditori non c’entravano con la finanza, che davvero le fabbriche fabbricavano piuttosto che concentrarsi sulle proprie quotazione, sui derivati o sui fondi finanziari.
Come scrive Il Librario:
Erano gli anni del boom per l’Italia, si sviluppava una sorta di rivoluzione industriale, e la letteratura si trovava ad affrontare questa novità con le trasformazioni che portava e le contraddizioni e i problemi che sollevava.
Adriano Olivetti, già sposato alla sorella di Natalia Ginzburg, aveva assunto Paolo Volponi, come direttore dei servizi sociali, e Ottiero Ottieri, come direttore del personale, insieme a loro aveva riunito molti dei grandi intellettuali italiani del tempo, come Sinisgalli, Bigiaretti, Buzzi, Fortini, Giudici, Pampaloni, Soavi. Li aveva assunti alla Olivetti, affinché si occupassero di economia e sociologia, di pubblicità e design, perché credeva nella possibilità di coniugare la modernità, con i suoi nuovi metodi di produzione di massa, e la persona umana, la cultura tecnico-scientifica e quella umanistica. Fu in questi anni che nacque la grande letteratura industriale italiana.
Che anni. Quegli anni.
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