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Neppure Silvio arrivò a tanto, parola di Nicola Gratteri

“Nemmeno Berlusconi se le sognava, certe riforme”. Nicola Gratteri non usa giri di parole. Ospite della trasmissione In Altre Parole su La7, guarda il video in cui Carlo Nordio accusa i magistrati per l’aumento dei detenuti e chiede: “Ma è vero, o è un montaggio?”. Il ministro sostiene che se le carceri sono piene è colpa di chi manda in prigione le persone che commettono reati. Una logica rovesciata, che Gratteri smonta punto per punto.

Nessuna nuova struttura penitenziaria, nessun progetto, solo annunci. Le carceri sono diventate “contenitori” per migliaia di persone dipendenti da sostanze stupefacenti. “Appena escono tornano a rapinare per procurarsi una dose”, dice. Eppure basterebbe un accordo con le Asl per inviarli in comunità terapeutiche. Costerebbe meno – 60 euro al giorno contro i 170 del carcere – e restituirebbe dignità alle famiglie e alla funzione rieducativa della pena.

Gratteri propone anche di riconvertire beni confiscati alle mafie per accogliere persone con patologie psichiatriche, spesso incompatibili con la permanenza in carcere. Ma non se ne parla. Come non si parla dei cellulari che circolano nelle celle. “Propongo da anni i jammer, ma dicono che fanno male. Eppure io ne porto uno sulla schiena da due anni. E non ho commesso reati”.

Poi c’è il processo telematico, il fiore all’occhiello del ministro. “Ha paralizzato le procure. Hanno speso milioni, e sono riusciti perfino a sbagliare gli articoli del codice penale”. L’unica norma utile? Quella del luglio 2024, che consente indagini nel dark web e sul cybercrime.

“Tutto il resto è dannoso”, dice Gratteri. È un atto d’accusa documentato. Serve altro?

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Musk punta alle frequenze italiane, il governo arretra sulla rete strategica

C’è un’ombra lunga, e questa volta non viene da Est. L’ombra è quella di Elon Musk che, mentre il governo rilancia le privatizzazioni nel Documento di economia e finanza, affina l’incursione nei gangli strategici della rete nazionale, a partire dallo spazio. Lo ha denunciato la senatrice Dolores Bevilacqua (M5S), ma la questione non è ancora entrata davvero nel dibattito pubblico. Forse perché è scritta tra le righe di un provvedimento tecnico, il ddl Spazio.

L’articolo che apre le porte a Starlink

Nel testo, attualmente in discussione al Senato, l’articolo 26 apre alla sperimentazione su frequenze radio essenziali per le telecomunicazioni satellitari. Sono le stesse che fanno gola a Starlink, la costellazione di satelliti di proprietà di Musk, già al centro di accordi con Open Fiber ed Eolo per l’utilizzo della banda a 28 GHz. Il nodo è che l’Italia, nel suo consueto balletto della deregulation, non ha ancora imposto una regolamentazione chiara, né a livello nazionale né europeo, su alcune bande ad alto potenziale, come la cosiddetta “banda E” (71-76 GHz e 81-86 GHz). Proprio qui si gioca la partita grossa. Perché la banda, oggi praticamente libera, potrebbe diventare una pista d’atterraggio per i satelliti di Musk, senza che lo Stato batta ciglio.

Secondo fonti di settore citate da Reuters, Starlink avrebbe già inoltrato una richiesta formale per ottenere accesso a questa fetta di spettro, mentre in Lombardia è in corso – sotto silenzio – una gara per la sperimentazione di comunicazioni satellitari 5G non terrestri (non-terrestrial networks, NTN), promossa da Infratel e finanziata dal Ministero delle imprese e del made in Italy. Si tratta di un bando pubblico, lanciato lo scorso febbraio, per testare tecnologie di connessione che integrano satelliti e reti mobili terrestri, con lo scopo dichiarato di estendere la copertura in aree remote. Una gara tecnica, con ricadute tutt’altro che tecniche. Tutto in sordina. Tutto in un silenzio complice.

L’articolo 25 del ddl richiama genericamente la “capacità trasmissiva nazionale”, ma non dice come questa vada tutelata. Intanto, FiberCop – controllata da Tim – solleva problemi di compatibilità tecnica con Starlink, mentre i fondi esteri che guidano la partita sulla rete unica continuano indisturbati a riorientare gli asset strategici italiani secondo logiche di profitto. Non è difficile capire dove si vuole arrivare: uno Stato che arretra, mentre soggetti privati e multinazionali avanzano su infrastrutture decisive per la sicurezza nazionale e l’autonomia tecnologica. Un copione già visto, ora aggiornato alla geopolitica dell’orbita bassa.

Privatizzazioni, dazi e diplomazia satellitare

Il Partito democratico ha proposto emendamenti al ddl per rendere più costoso l’utilizzo delle frequenze da parte di soggetti extra-Ue. Ma è troppo poco e troppo tardi. La finestra è già aperta, Musk è già dentro. In ballo non c’è solo l’accesso allo spettro radio: ci sono i gateway terrestri – come quelli detenuti da Rai Way – che rappresentano un tassello essenziale per completare il dominio satellitare. Sono stazioni a terra che collegano i satelliti alla rete Internet nazionale. Se finiscono in mano a soggetti privati stranieri, lo spazio diventerebbe un altro comparto strategico regalato in outsourcing.

A rendere ancora più inquietante lo scenario è il fatto che tutto questo si intreccia con la diplomazia parallela tra Meloni e Trump. Secondo Bevilacqua, la premier sarebbe pronta a concedere aperture a Musk e Starlink per guadagnare benevolenza oltreoceano, nella speranza di mitigare i dazi annunciati dal tycoon. Uno scambio diseguale che rischia di barattare un’infrastruttura nazionale con una promessa elettorale americana.

Il risultato è un Paese esposto, che invece di programmare il futuro delle sue telecomunicazioni, rincorre gli investitori più potenti sperando di attirarne le briciole. Il governo parla di “ambizioni sulle privatizzazioni”, ma quello che si vede è solo una ritirata dallo spazio strategico. Silenziosa, rapida e pericolosamente irreversibile.

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Il pianeta brucia mella fredda indifferenza dei media

Nel 2024 l’Europa ha conosciuto il suo anno più caldo da quando esistono le rilevazioni. Un continente in pieno squilibrio climatico ha contato almeno 335 vittime a causa delle inondazioni e oltre 400.000 persone colpite dagli eventi estremi. I ghiacciai europei si sono liquefatti con una velocità record, la Scandinavia e le Svalbard hanno segnato i peggiori tassi di perdita di massa glaciale mai registrati, il Mar Mediterraneo ha toccato temperature 1,2 gradi sopra la media. Sono dati ufficiali, certificati dal Servizio per il Cambiamento Climatico di Copernicus, raccolti nel rapporto European State of the Climate 2024. Ma in Italia — dove più della metà del territorio è a rischio desertificazione — la crisi climatica ha perso spazio nei giornali e nei telegiornali. Letteralmente.

Secondo l’Osservatorio di Pavia, che ogni anno analizza l’attenzione mediatica sul tema per conto di Greenpeace, nel 2024 le notizie dedicate al clima sono crollate del 47% sui quotidiani e del 45% nei telegiornali rispetto all’anno precedente. Il risultato: un articolo ogni due giorni nei giornali, un servizio ogni dieci giorni in tv. Di fronte alla peggior crisi ambientale della nostra epoca, l’informazione italiana ha scelto il silenzio. E quando ne parla, il clima entra dalla porta di servizio: diventa un problema economico, un ostacolo burocratico, un fastidio regolatorio.

L’ossessione per i costi e il tabù dei responsabili

L’Italia è uno dei Paesi più esposti alla crisi climatica, ma nel racconto mediatico a prevalere sono state le preoccupazioni per i costi della transizione. Le narrazioni dominanti — spesso figlie del governo in carica — hanno insistito sui “sacrifici economici”, sulla “pressione delle direttive europee”, sulla necessità di “rivedere i tempi del Green Deal”. Una su tutte: la battaglia contro la direttiva Case Green, rappresentata come una vessazione ai danni dei proprietari, invece che un investimento per ridurre emissioni e bollette. In questo contesto, il 64% delle dichiarazioni dei leader politici rilevate nel 2024 non ha mai nemmeno nominato la crisi climatica.

Ma la vera fotografia di un sistema informativo inquinato arriva dai numeri della pubblicità. Mentre il tema climatico spariva dalle pagine e dai palinsesti, le pubblicità delle aziende inquinanti aumentavano: 1.284 nel 2024, più dell’anno precedente. Più spazio agli spot di gas, petrolio e automotive, meno spazio alle notizie sulle cause e gli effetti del riscaldamento globale. È un conflitto d’interessi strutturale che inquina non solo l’aria, ma anche il dibattito pubblico.

I telegiornali hanno citato le compagnie dei combustibili fossili come responsabili della crisi climatica una sola volta in tutto l’anno. Una. Volta. E nei giornali le fonti principali delle notizie sul clima sono state per il 40% rappresentanti del mondo economico. Quasi nessuno spazio agli scienziati, agli attivisti, ai cittadini che vivono sulla propria pelle le conseguenze del collasso climatico.

Un’informazione ostaggio dell’inazione

Il risultato è una narrazione sgonfiata, distorta e spesso manipolata. La resistenza alla transizione ecologica ha trovato casa nel linguaggio dell’equilibrio: il “pragmatismo”, la “neutralità tecnologica”, la “transizione realistica”. Un eufemismo dietro l’altro per giustificare l’immobilismo. Secondo il rapporto di Greenpeace, il 17% degli articoli dei quotidiani e il 19% dei servizi dei telegiornali conteneva esplicite narrative contrarie alla transizione ecologica o a singole azioni climatiche. È un dato in crescita rispetto al 2023. E non è un caso: coincide con l’ascesa di un governo che ha trasformato l’ambiente in un terreno di scontro ideologico, mentre autorizza trivelle e rallenta le rinnovabili.

Lo spazio per il clima si restringe anche nei palinsesti e nei bilanci editoriali. Nessuna delle cinque principali testate italiane ha raggiunto la sufficienza nella classifica di Greenpeace sul trattamento della crisi climatica. Solo Avvenire si salva parzialmente (5,4 su 10), seguono Corriere della Sera (3,2), Il Sole 24 Ore (3), la Repubblica e La Stampa fanalini di coda (2,6). I criteri sono semplici: frequenza della copertura, citazione delle cause (i combustibili fossili), spazio dato alle pubblicità inquinanti, trasparenza sui finanziamenti, varietà delle fonti.

In questo scenario, l’appello degli scienziati resta inascoltato. Il 2024 è stato l’anno delle inondazioni più diffuse dal 2013, del secondo più alto numero di giorni con stress da caldo, della maggiore perdita di ghiaccio nei ghiacciai europei, di oltre 100.000 ettari bruciati solo in Portogallo a settembre. L’Europa è la regione del mondo che si riscalda più rapidamente, e secondo l’IPCC — se non cambierà la traiettoria — un riscaldamento globale di 1,5ºC potrebbe causare 30.000 morti ogni anno nel continente.

Ma in Italia, tutto questo si può ignorare. Basta che non rovini la campagna pubblicitaria di un nuovo SUV. Basta che non ostacoli il racconto di una transizione lenta, gestita dai padroni dell’energia, diluita nel tempo e svuotata di senso.

Il clima cambia. La stampa italiana, no.

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Ursula come Trump. Anche l’Europa fa la guerra alle ong

Chi grida all’eccezione europea dovrebbe dare un’occhiata alle carte del prossimo bilancio settennale. Mentre le destre si galvanizzano immaginando di prosciugare i fondi destinati alla società civile, la Commissione tace o asseconda. Il risultato è una versione made in Brussels della dottrina Trump: meno soldi alle Ong, più potere a chi può permettersi il lusso di farsi ascoltare.

La scusa, come sempre, è la trasparenza. Il Parlamento europeo ha approvato una serie di emendamenti per chiedere maggiore controllo sull’uso dei fondi europei da parte delle Ong. Peccato che, come ha scritto Politico, il tutto avvenga dopo mesi di attacchi sistematici da parte dei gruppi conservatori e dell’estrema destra. A farne le spese sono organizzazioni che spesso dipendono dai finanziamenti Ue per sopravvivere: nel caso di alcune Ong ambientali, fino al 70-80% del bilancio.

L’ispirazione viene da oltre oceano. Lo dice esplicitamente Nicholas Aiossa di Transparency International: “la destra europea si sente rinvigorita da Trump e Musk, e vuole replicare lo stesso schema per tagliare i fondi alle Ong”. Uno schema già sperimentato negli Stati Uniti con lo smantellamento di USAID, il principale canale di finanziamento per le organizzazioni non governative. Ora lo si esporta, con la solita retorica soft, nei corridoi ben pettinati della Commissione.

Cancellare le parole per salvare i bilanci

Il colpo di grazia è arrivato con un rapporto della Corte dei conti europea che ha definito “opaco” il sistema con cui Bruxelles distribuisce i fondi alle Ong. È bastato questo per scatenare una raffica di emendamenti e dichiarazioni pubbliche: secondo i deputati del Ppe, troppe Ong fanno lobbying con soldi pubblici. Eppure, dietro la retorica dei “controlli necessari”, il messaggio è chiaro: chi fa pressione per difendere l’ambiente o i diritti sociali non è più gradito.

Il paradosso è che le Ong sono la seconda categoria più numerosa nel registro della trasparenza dell’Unione europea, appena dietro le aziende. Sono 3.821, contro le 3.864 del settore privato. Ma solo le prime finiscono nel mirino. E solo le prime rischiano di essere zittite.

Faustine Bas-Defossez, direttrice del Bureau ambientale europeo, parla apertamente di una “campagna politica costruita ad arte”. Le fa eco Carlotta Besozzi, direttrice di Civil Society Europe: “ci stanno preparando a un attacco massiccio nella prossima programmazione finanziaria”. Il bersaglio sono le Ong che svolgono attività di advocacy, spesso le uniche a contestare con competenza e dati le scelte politiche più opache. In una parola: fastidiose.

Non bastasse, ci sono segnali concreti. Ventotto Ong sanitarie hanno scritto a Ursula von der Leyen per chiedere chiarimenti dopo che è trapelata l’intenzione della Commissione di non erogare più fondi operativi dal direttorato per la salute. Alcune Ong ambientali, pur di non perdere i finanziamenti, hanno rimosso dai progetti ogni riferimento ad attività di pressione. Cancellare le parole per salvare i bilanci: è così che muore lentamente la voce della società civile.

Una democrazia solo per chi se la può permettere

Intanto si affilano le lame del prossimo quadro finanziario pluriennale. I fondi destinati a ricerca e clima sono già nel mirino per essere spostati verso difesa e crescita industriale. La solita Europa che dice una cosa e ne fa un’altra.

Il Ppe giura che non si vuole tagliare nulla, ma che “servono controlli su 20-25 Ong”. È lo stesso linguaggio con cui si inizia ogni censura: non è un attacco, è una verifica. Non è una punizione, è una riforma. Non è repressione, è trasparenza.

Ma la verità è che se passa questa linea, resteranno solo le voci di chi ha soldi propri per influenzare le decisioni. Tutto il resto — il clima, la salute, la giustizia sociale — sarà silenziato.

E sarà difficile distinguerci da chi abbiamo sempre detto di voler contrastare.

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Salvini parla da ministro degli Esteri ma confonde la Serbia e il Kosovo

Se fosse per lui, il Kosovo sarebbe ancora un pezzo di Serbia, la Crimea legittimamente russa, la geopolitica un reality show da congresso leghista. Matteo Salvini, che sulla carta è ministro delle Infrastrutture, continua a sognare i palazzi della diplomazia e a improvvisarsi statista d’altri tempi. Peccato che nel frattempo il sistema ferroviario italiano arranchi, i treni si fermino per guasti elettrici, e il Pnrr, quello vero, quello che dovrebbe modernizzare le infrastrutture, resti incagliato tra conferenze stampa e proclami vuoti.

La geopolitica da bar di un ministro fuori binario

Durante il congresso della Lega a Firenze, il vicepremier ha dichiarato che “una minoranza cristiana sta resistendo e combattendo in Serbia”. Non era una svista. Era propaganda. Il genere che ricalca fedelmente le narrazioni di Vladimir Putin e dell’estrema destra europea: l’Occidente brutale, i cristiani perseguitati, le bombe cattive della Nato. Tutto già sentito. Tutto già smentito dai fatti. Ma evidentemente utile per provare a guadagnare due titoli sui giornali e qualche applauso nei convegni con bandiere balcaniche.

Il fatto che la “minoranza cristiana” a cui si riferisce Salvini viva in Kosovo, non in Serbia, è il dettaglio minore. Il problema vero, come ha notato Pagella Politica, è che il suo discorso ricalca parola per parola quello usato dai nostalgici della ex Jugoslavia, dai nazionalisti serbi, dai propagandisti del Cremlino. E non è una novità: già nel 2014, quando Mosca annetteva la Crimea, Salvini si chiedeva su Twitter perché l’Europa fosse tanto indignata. In fondo – sosteneva – anche Bosnia e Kosovo avevano avuto l’indipendenza grazie alle bombe. Un copia-incolla geopolitico che dimentica la storia e scavalca il presente.

Per convenienza. Perché la Lega, da Bossi in poi, ha sempre avuto una strana fascinazione per la Serbia. Era il 1999 quando il Senatùr volava a Belgrado per incontrare Milošević, il macellaio dei Balcani, dichiarando che i veri destabilizzatori erano gli albanesi, non i serbi. Anche allora, la favola era la stessa: i buoni cristiani contro i musulmani cattivi. Una semplificazione tossica, funzionale a un’idea d’Europa che assomiglia più a un fortino che a un progetto comune.

Salvini continua su quella linea. Oggi, con la disinvoltura del politico che non deve rendere conto a nessuno, rilancia teorie vecchie, ambigue e pericolose. Parla di religione dove c’è nazionalismo, di martiri dove ci sono tensioni etniche, di oppressione dove c’è – semmai – un processo delicato di costruzione statale, come quello del Kosovo. E intanto ignora – o finge di ignorare – che l’Italia riconosce il Kosovo come Stato sovrano dal 2008. Quindi? O il ministro ignora la politica estera del suo stesso governo, oppure finge di volerla riscrivere con la lingua della propaganda.

Mentre il Kosovo è in Europa, i treni no

Il tutto mentre il suo ministero arranca. Le infrastrutture italiane sono un campo minato. I treni regionali cadono a pezzi. Il ponte sullo Stretto è un progetto che resta sulla carta. Le opere del Pnrr vanno a rilento, e la transizione ecologica dei trasporti è una parola vuota nei documenti ufficiali. Ma Salvini è troppo impegnato a evocare guerre del secolo scorso per accorgersene. E mentre si lancia in difese grottesche dei serbi ortodossi “assediati” in una terra che chiama ancora Serbia, finge di dimenticare che il vero assedio, oggi, lo subisce la verità.

In un Paese normale, un ministro delle Infrastrutture si occuperebbe di far arrivare i treni in orario. Salvini, invece, preferisce fare il ministro degli Esteri in surrogato, il portavoce delle destre identitarie europee, il testimonial di un nazionalismo a buon mercato che odora di naftalina. Ma se vuole giocare alla geopolitica, almeno impari la geografia: il Kosovo non è la Serbia, la religione non è un’arma, la storia non è un meme da rilanciare nei comizi.

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Punire tutto, risolvere niente

Un decreto che scavalca il Parlamento, ignora la Costituzione e criminalizza la marginalità sociale. Così si presenta il nuovo decreto Sicurezza, scritto con l’inchiostro dell’emergenza ma senza l’urgenza dei fatti. Bastano trentasei ore e una manciata di righe dell’Associazione nazionale magistrati per svelarne la natura: 14 nuovi reati, 9 aggravamenti di pena, e nessuna soluzione.

Nel nome dell’ordine pubblico si colpisce chi occupa case, chi resiste in modo non violento, chi lavora con la canapa legale. Si costruisce un diritto penale simbolico che inasprisce senza distinguere. L’occupazione abusiva di un alloggio viene trattata come un omicidio sul lavoro. Le carceri scoppiano, ma si aggiungono nuovi reati e si restringono i benefici penitenziari, persino per le donne incinte.

Mentre Piantedosi promette altre misure, chi lavora nella legalità – come i commercianti di cannabis light – viene abbandonato nel vuoto normativo. Pagano tasse su merce che da un giorno all’altro diventa illegale. E il dissenso? Equiparato alla devianza. La disobbedienza civile evocata da Franco Corleone è una risposta necessaria a uno Stato che preferisce reprimere piuttosto che governare.

Perché quando si governa con la paura, la legge diventa manganello.

Buon martedì. 

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Meloni tace su Gaza e in Italia si pensa ai gelati

Israele ha completato l’accerchiamento di Rafah, dopo averla desertificata svuotandola dei suoi abitanti. Il ministro della Difesa Israel Katz ha dichiarato che la città del sud della Striscia è diventata parte di una «zona di sicurezza israeliana». Le 200mila persone che abitavano a Rafah vagano per la Striscia, sperando che non gli cada in testa una bomba e di non imbattersi in qualche cecchino dell’esercito di Netanyahu.
Nella notte tra sabato e domenica, l’ultimo ospedale di Gaza è stato colpito da due missili che hanno distrutto il pronto soccorso, l’area del ricevimento dei pazienti, le ambulanze, la farmacia e il laboratorio. Era l’ultimo ospedale interamente operativo a nord della Striscia. “A Gaza 38 ospedali sono stati resi da Israele completamente fuori servizio, questo era l’ultimo ospedale interamente funzionante”, racconta Mohammed Abu Sabla, perfusionista dell’ospedale European di Gaza.
Il ricercato dalla Cpi per crimini di guerra Benjamin Netanyahu è contestato anche in patria, ritenuto il mandante di un eccidio che è la vergogna dell’Occidente. Di Gaza non parla quasi mai la presidente Giorgia Meloni, impegnata nella corsa al bacio sul deretano di Trump. Ma che fa l’Italia
In occasione della Giornata della ricerca italiana nel mondo 2025, l’Istituto Italiano di Cultura e l’Ambasciata d’Italia a Tel Aviv presentano La scienza del gelato, conferenza e degustazione di gelato, martedì 22 aprile alle 18. La conferenza, tenuta dall’addetto scientifico presso l’Ambasciata d’Italia in Israele, esplorerà la scienza alla base della struttura e della consistenza del gelato.

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Dietro Messina Denaro, una rete di donne: l’arresto di un’insegnante vicina al boss

Un foulard rosso, un cappello a tesa larga e un’Alfa Romeo lungo la statale da Petrosino a Mazara del Vallo. Così Matteo Messina Denaro girava indisturbato mentre era l’uomo più ricercato d’Italia. Accanto a lui, spesso, c’era una donna: Floriana Calcagno, insegnante, nipote del boss Francesco Luppino, moglie di un altro condannato per mafia, Paolo De Santo. Una donna che oggi è in carcere, accusata di avere sostenuto la latitanza del padrino fino agli ultimi mesi della sua fuga.

Secondo la Direzione distrettuale antimafia di Palermo, Calcagno non è stata una semplice amante. La sua figura emerge come centrale nella rete di protezione del boss: appunti ritrovati nei covi, lettere inviate da Laura Bonafede — altra donna legata sentimentalmente e criminalmente a Messina Denaro — e ore di videosorveglianza raccontano un copione già scritto, dove la fedeltà personale si mescola con quella mafiosa, e i sentimenti si intrecciano alle staffette per eludere le forze dell’ordine.

Una vita normale, sotto copertura

Calcagno, scrivono i magistrati, forniva “sostegno logistico, aiuto e supporto morale e materiale”. Tradotto: accompagnava il boss, lo ospitava, ne garantiva la riservatezza. Con la sua auto organizzava scorte e spostamenti protetti tra Campobello di Mazara, Mazara del Vallo e Tre Fontane. Un meccanismo sofisticato che ha permesso al latitante non solo di sfuggire alle ricerche, ma anche di condurre quella che i pm definiscono una “vita normale”: cene al ristorante, passeggiate al mare, lunghe permanenze a casa di lei durante l’estate del 2022.

La versione fornita da Calcagno — secondo cui avrebbe scoperto l’identità dell’uomo solo dopo il suo arresto — non ha mai convinto la Procura. A smentirla sono i filmati, i tabulati telefonici, ma soprattutto le lettere gelose scritte da Bonafede, in cui la maestra rivale le attribuisce nomi in codice: “Handicap”, “Sbrighisi”, “Acchina”. In uno di questi scritti, datato 30 dicembre 2022, Bonafede racconta di aver visto “Handicap” uscire dal covo con una borsa Louis Vuitton, segno — per lei — di un’intimità ormai inaccettabile: “Le bastonate gliele darei eccome”.

L’altra metà della latitanza

Non è un dettaglio da poco. La gelosia in questo caso non è solo un fattore umano, ma diventa strumento probatorio. Per i magistrati, quel disprezzo racconta molto più di quanto la diretta interessata abbia mai confessato. Anche perché, dicono, è impensabile che una donna cresciuta in una famiglia mafiosa, sposata con un uomo condannato per favoreggiamento e imparentata con uno dei capi di Campobello di Mazara, non sapesse chi si celasse dietro il nome “Francesco Salsi”.

L’arresto di Calcagno, avvenuto oggi è solo l’ultima tappa di un’indagine che sta svelando la fitta trama di connivenze che hanno protetto Messina Denaro. Dopo la cattura e la morte del boss nel settembre 2023, l’antimafia ha ricostruito la rete che gli ha permesso per anni di vivere nella provincia di Trapani, sotto gli occhi di tutti. Una rete fatta di uomini ma anche, e forse soprattutto, di donne: amanti, postine, complici, tutte insospettabili. Maestre, professoresse, mogli.

Non è un caso. Se in Cosa nostra i ruoli ufficiali sono spesso occupati da uomini, l’infrastruttura affettiva e logistica della latitanza si regge su relazioni che sfuggono ai radar della repressione penale. Relazioni intime, fondate sulla fiducia e sul silenzio. Come nel caso di Floriana Calcagno, dove il confine tra l’amore e la complicità diventa così sottile da rendere l’uno indistinguibile dall’altra.

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La resa dei conti (e delle coscienze) nel ministero di Nordio

Nel ministero della Giustizia volano le sedie. Luigi Birritteri, il magistrato con delega agli Affari di giustizia e alle relazioni internazionali, se ne va sbattendo la porta. Ufficialmente chiede il rientro in ruolo, nei fatti prende le distanze da un governo che nella gestione del caso Almasri ha fatto tutto fuorché rispettare le regole.

Il torturatore libico arrestato a Torino e riconsegnato al suo Paese con un volo di Stato è oggi libero a Tripoli, mentre i suoi torturati chiedono giustizia nei tribunali italiani. In mezzo, una Corte penale internazionale ignorata, una figuraccia diplomatica, due inchieste in corso e un ministro – Nordio – che non risponde agli atti.

Birritteri non è l’ultimo, ma l’ennesimo a mollare via Arenula sotto la reggenza silenziosa ma inflessibile di Giusi Bartolozzi, la vera ministra. Il Viminale zittisce, Palazzo Chigi tace, e intanto il dipartimento incaricato della cooperazione internazionale viene escluso da una vicenda che riguarda la giustizia internazionale.

Non è solo una questione di procedure, ma di credibilità. E forse anche di complicità. Perché chi sceglie il silenzio, chi evita di firmare, chi aggira le competenze, non sbaglia per distrazione. Semplicemente, decide. Decide di non disturbare il manovratore libico. Decide di non disturbare l’alleato utile. Decide che la legge, a volte, è un ostacolo.

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Il grande circo dei rimpatri

Le fascette ai polsi valgono più delle sentenze. Sono il manifesto da campagna elettorale permanente, il trofeo agitato contro le telecamere per dimostrare che “la pacchia è finita”. I migranti trasferiti in Albania legati come pacchi, esibiti come criminali, sono il prezzo pagato per un racconto che ha bisogno di cattivi da punire più che di soluzioni da costruire. Piantedosi rivendica. Salvini sghignazza. E nel frattempo, come ha denunciato Cecilia Strada, quei trasferimenti sono avvenuti senza alcuna informativa, con le fascette strette anche durante i pasti e per andare in bagno.

Dietro lo show, il fallimento: un protocollo da un miliardo di euro, che moltiplica i costi per ogni trasferimento e obbliga al ritorno in Italia prima di ogni rimpatrio. Una macchina assurda che somiglia più a un baraccone itinerante che a una politica migratoria. Ma funziona, perché mette in scena la cattiveria come virtù e la forza come propaganda.

Intanto, i numeri smentiscono l’allarme: il Viminale certifica il 28% in meno di sbarchi rispetto all’anno scorso. Eppure l’emergenza resta, perché serve. Serve a coprire i tagli, a distrarre dai fallimenti, a fare l’ammuina. Si cambia la destinazione, non la logica. Il Cpr albanese è solo il remake fuori confine dei lager amministrativi italiani.

In questa rappresentazione, la disumanizzazione diventa linguaggio di governo. Chi arriva in Italia viene trattato come rifiuto speciale, chi contesta viene accusato di debolezza. E intanto un’intera democrazia si abitua al filo spinato come ornamento istituzionale. Fino alla prossima foto. Fino alla prossima umiliazione da sbandierare come vittoria.

Buon lunedì.

Foto WMC

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