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Politica

I temi e le news della politica in Lombardia e in Italia. L’attività politica di Giulio Cavalli in consiglio regionale della Lombardia.

La riforma e il neofeudalesimo

(Antonio Esposito per Il Fatto Quotidiano)

Eugenio Scalfari, nel suo editoriale su la Repubblica di domenica scorsa dal titolo “Zagrebelsky è un amico ma il match con Renzi l’ha perduto”, sostiene due tesi: la prima è che il dibattito su La7 tra Renzi e Zagrebelsky sulla riforma costituzionale si è concluso con un 2-0 per di Renzi; la seconda è che Zagrebelsky ritiene erroneamente che la “politica renziana tende all’oligarchia” e che l’errore è dovuto al fatto che il costituzionalista “forse non sa bene che cosa significhi oligarchia”.

Entrambe le tesi sono profondamente errate.

Quanto alla prima, è vero esattamente il contrario: alla competenza con cui il Presidente emerito della Consulta ha spiegato e dimostrato, con tono pacato e dialogante e con ineccepibili argomentazioni, i gravi errori della legge di riforma e i pericoli che corre la democrazia parlamentare ove la legge venisse approvata con il referendum, si è contrapposta la “spocchia”, l’arroganza e l’improvvisazione dell’istrione Renzi che ha eluso le domande, ha fatto la solita demogagia sui costi della politica, ha cercato – (egli che è il campione del trasformismo) – di trovare inesistenti contraddizioni nei ragionamenti lineari e coerenti dell’altro, lo ha irriso ripetendo beffardamente “io ho studiato sui suoi libri”, sicché quanto mai appropriato è l’invito a lui rivolto su questo giornale da Antonio Padellaro nell’articolo di domenica scorsa “La ‘coglionella’ del mellifluo rottamatore costituzionale”: “Se davvero qualcosa ha letto (e imparato) da Zagrebelsky cominci a esibire il suo libretto universitario e ci dia la possibilità di consultare la sua tesi di laurea. Con rispetto parlando”.

Quanto alla seconda tesi, Scalfari ci ha impartito una lezione su “che cosa significhi oligarchia”. È partito da Platone per passare a Pericle, alle Repubbliche Marinare e ai Comuni per arrivare nel “passato prossimo” alla Dc e al Pci fino a concludere che “oligarchia e democrazia sono la stessa cosa” e che “Renzi non è oligarchico, magari lo fosse ma ancora non lo è. Sta ancora nel cerchio magico dei suoi più stretti collaboratori. Credo e spero che alla fine senta la necessità di avere intorno a sé una classe dirigente che discute e a volte contrasti le sue decisioni e poi cercare la necessaria unità d’azione. Ci vuole appunto una oligarchia”.

Per anni è stato insegnato che l’oligarchia – e, cioè, “il comando di pochi” (“olìgoi” e “arché”), quel tipo di governo i cui poteri sono accentrati nelle mani di pochi – è qualcosa di molto diverso dalla democrazia, il “governo del popolo” (“dèmos” e “Kràtos”) che si esercita, negli Stati moderni, attraverso la rappresentanza parlamentare. Dall’Antichità al Medioevo, l’oligarchia è stata considerata dal pensiero politico (in primis Aristotele) una forma di governo “cattiva”. Parimenti, nell’età moderna e contemporanea si è rafforzata la tesi che un governo di pochi è un “cattivo” governo. Il sistema oligarchico è in antitesi a quello democratico.

Orbene, non vi è dubbio che nel nostro Paese il Parlamento sia stato, di fatto, esautorato dall’esecutivo che – legato a ben individuati “poteri forti” che hanno chiesto ed ottenuto norme riduttive dei diritti dei lavoratori – ha esteso sempre più la sua sfera di influenza sulla informazione, sui vertici della Pa, delle forze di sicurezza, e delle aziende pubbliche e pone sistematicamente in atto una campagna, da un lato, di disinformazione e, dall’altro, di propaganda ingannevole.

Il Fatto Quotidiano, nel febbraio di quest’anno (“Le Ragioni del no”, 9/2), denunciò che la riforma costituzionale e la nuova legge elettorale – le quali, nel loro perverso, inestricabile intreccio, riducono il ruolo dei contrappesi, azzerano la rappresentatività del Senato, sottraggono poteri alle Regioni, consentono ad una minoranza di elettori di conquistare la maggioranza della Camera, unica rilevante (anche per la fiducia al Governo) di fronte ad un Senato delegittimato e composto della peggiore classe politica oggi esistente – avrebbero contribuito a portare a compimento un disegno autoritario diretto a concentrare tutto il potere nelle mani dell’esecutivo e, segnatamente, nel capo del Governo, (che da tempo è anche segretario del partito di maggioranza, e la doppia carica preoccupa), e di un gruppo di oligarchi da lui designati. Basti pensare a quei personaggi, ben noti, che lo stesso Scalfari inserisce nel c.d. “cerchio magico” di Renzi e che però, definisce, eufemisticamente, “i suoi più stretti collaboratori”.

Questo spiega la impropria discesa in campo degli oligarchi e del loro capo – (che si sarebbero dovuti astenere dal partecipare alla campagna referendaria) – ed il loro attivismo, (anche all’estero), ogni giorno sempre più frenetico, ossessivo, invasivo con la promessa – da veri imbonitori – di stabilità e benessere se vincerà il SÌ e con il prospettare catastrofi e caos nel caso opposto.

Solo votando NO sarà possibile evitare la deriva autoritaria.

Dov’è finito il giornalismo culturale

Una riflessione di Simona Maggiorelli:

Il prossimo gennaio la rivista Lo straniero pubblicherà il suo ultimo numero. Lo ha annunciato Goffredo Fofi nell’editoriale del luglio scorso. Finisce un’esperienza ventennale. Ma simbolicamente anche un’epoca, quella delle riviste letterarie che hanno acceso il dibattito del Novecento. Pensiamo per esempio a Belfagor diretto da Luperini, a Paragone ai tempi di Baldacci, ma anche a Linea d’Ombra diretta dallo stesso Fofi dal 1983 al 1995, e così via. «Purtroppo è inutile continuare rimpiangerle, quel modello non tiene più. Il mondo dei media che conoscevamo è esploso, si è frammentato, non è più mappabile. Se guardiamo al pubblico tradizionale dobbiamo dire che quelli che leggono sono una estrema minoranza, ma è anche vero che quella minoranza c’è ed è infra generazionale. Semmai il problema è che oggi sono un po’ meno riconoscibili i luoghi in cui si riesce ancora a fare critica», dice Giorgio Zanchini conduttore di Radio Rai, saggista e ideatore del Festival del giornalismo culturale di Urbino e Fano (dal 14 al 16 ottobre).

Nel suo ultimo libro Leggere cosa e come (Donzelli) tratteggia un quadro articolato e complesso del panorama attuale dell’informazione culturale dando rilievo ai cambiamenti portati dalla diffusione di Internet che ha reso più facile e democratico l’accesso alle notizie. In particolare, Zanchini sottolinea la dimensione partecipativa e di condivisione che caratterizza i social network. Senza tuttavia tacere riguardo agli aspetti negativi: «Sul web si sviluppa il discorso pubblico, ma è difficile distinguere l’autorevolezza e l’affidabilità delle voci». La cacofonia di un flusso continuo e massiccio di input, scollegati fra loro, rischia di “travolgere” il lettore se non è abbastanza attrezzato e capace di distinguere le notizie dalle bufale. Senza contare il filtro che esercitano sulle notizie colossi come Facebook e Google.

Con i suoi pro e contro «la rivoluzione tecnologica ha generato un cambio di paradigma nell’informazione», dice Zanchini. Ma non ha ucciso la carta, come invece si paventava. Così come Anobii o Trip advisor, a nostro avviso, non rendono inservibile la critica colta e argomentata. Anzi. In un momento come quello che stiamo vivendo in cui l’offerta culturale di libri, dischi, mostre ecc., è enormemente aumentata rispetto a trent’anni fa c’è più che mai bisogno di mediatori culturali autorevoli, preparati, capaci di organizzare una gerarchia delle notizie e di provare a interpretarne il senso. Ma eccoci al punto: chi ha una formazione specifica e gli strumenti culturali non trova spazio. I critici sono rimasti senza mestiere, per dirla con il titolo di un libro di Alfonso Berardinelli che aveva già acutamente inquadrato il problema negli anni 80. Sparite molte storiche riviste, la critica, in parte, si è rifugiata in rete, in siti letterari come Doppiozero, minima&moralia, Nazione indiana, Finzioni, Il lavoro culturale, Le parole e le cose, il sito di Rivista Studio ecc., ma in Italia il mercato pubblicitario sul web non decolla ancora e il pubblico non è abituato a pagare l’online. Così le riviste culturali telematiche, da noi, restano dei raffinati prodotti di nicchia. «Il fatto è che oggi con la critica non si campa più», commenta Giorgio Zanchini. «Non ci sono più, o sono pochissimi, quelli che riescono a vivere facendo i critici militanti come potevano ancora fare Geno Pampaloni o Luigi Baldacci; oggi i critici o sono accademici o devono arrabattarsi con altri mestieri e, nei rimasugli di tempo, scrivono delle recensioni e indirizzano i lettori».

(continua in edicola, su Left)

Le autoelezioni che non se ne accorge nessuno. A proposito del Senato che vorrebbero.

Per chi continua a dire che il Senato immaginato dalla riforma Renzi-Boschi non sarà svilito dall’elezione indiretta vale la pena seguire le elezioni provinciali che si tengono in questi giorni e nessuno ne sa niente. Una campagna elettorale che è tutto un inciucio tra segreterie di partito e programmi politici di cui non si ha traccia. Come scrive oggi Il Fatto (qui):

«Nella Capitale, il cui consiglio è composto da 24 membri, sono in corsa 4 liste: Movimento 5 stelleLe Città della MetropoliPatto Civico Metropolitano e Territorio Protagonista. Gli elettori sono 1.647, ovvero i consiglieri e i sindaci eletti nei 121 comuni della provincia. La sindaca Raggi, la cui nomina è stata ufficializzata il 22 giugno, ha votato nel primo pomeriggio a Palazzo Valentini. Un appuntamento rispettato anche dal M5S, nonostante quest’ultimo abbia a lungo osteggiato la riforma.

A Milano, dove sono chiamati al voto i rappresentanti dei 134 Comuni della Città metropolitana, la scelta è tra cinque liste: C+ Milano MetropolitanaInsieme per la Città metropolitanaMovimento Movimento5stelle.itLa Città dei Comuni Lista civicaLega Nord Lega Lombarda Salvini. A Napolile liste sono 6: Napoli PopolareForza ItaliaPartito DemocraticoMovimento 5 stelleNoi SudCon de Magistris. Tre quelle in gara corsa  a Torino: Città di cittàLista civica per il territorioMovimento 5 stelle.

Sono chiamati alle urne anche a Bologna i sindaci e consiglieri comunali dei 55 Comuni del bolognese. Visto che la stragrande maggioranza di questi ultimi sono amministrati dal centrosinistra, il Pd dovrebbe raccogliere una larghissima fetta dei voti e, di conseguenza, avere la maggioranza nel consiglio metropolitano. Gli elettori sono 832 e votano per i candidati di quattro liste: Partito democraticoMovimento 5 StelleUniti per l’alternativa (centrodestra) e Rete civica. I prossimi appuntamenti: a Cagliari si vota il 23 ottobre mentre per Catania, Palermo e Messina la data scelta è quella del 20 novembre.»

Voi lo sapevate?

I dentisti, volontari con gli sfollati.

(Buone notizie che fanno bene al cuore. L’articolo è di Emiliano Moccia per il Corriere della Sera)

«Tra le prime cose a cui ho pensato subito dopo il terremoto, è rientrata anche la necessità di disporre un presidio di assistenza odontoiatrica per garantire le cure non solo ai cittadini che hanno perso tutto, ma anche a soccorritori, volontari, personale delle forze armate. Nella situazione in cui ci troviamo adesso, anche questo tipo di servizio diventa importante per la popolazione». Paolo Bizzoni vive e lavora(va) ad Amatrice, la città che insieme ad Accumoli e San Benedetto del Tronto è stata tra le più colpite dal sisma del Centro Italia che lo scorso 24 agosto ha provocato 298 vittime e migliaia di sfollati. Bizzoni è tra coloro che durante il terremoto hanno perso la propria abitazione e lo studio medico. Ma la sua voglia di impegnarsi e di fare qualcosa per gli altri non l’ha fermato. E proprio facendo leva sulle sue competenze professionali, con il coinvolgimento di circa ottanta volontari, ha messo in moto un presidio di assistenza sanitaria per offrire cure odontoiatriche gratuite a chi è rimasto in paese, a quanti vivono a pochi passi dalle macerie, a chi lotta affinché la vita – seppur ferita – possa presto tornare normale.

L’ODONTO-AMBULANZA
Dal 26 settembre, dunque, l’odonto-ambulanza, un’unità mobile appositamente attrezzata, è attiva ogni lunedì, mercoledì e sabato, dalle ore 10 alle 13 e dalle 15 alle 18 presso il PASS (Posto di Assistenza Socio Sanitaria) di Amatrice, in prossimità della tendopoli e della mensa, luogo di passaggio e di vita per quanti sono rimasti vicini alle loro cose e alla loro terra. Il particolare servizio è stato reso possibile grazie alla Fondazione ANDI onlus – Associazione Nazionale Dentisti Italiani – che dopo la richiesta di aiuto da parte di Bizzoni ha immediatamente attivato una raccolta fondi interna all’associazione raccogliendo presso i propri soci quanto necessario, sia in termini economici sia in numero di volontari, per garantire l’autonomia del presidio.

«Abbiamo ricevuto adesioni da ogni parte d’Italia – racconta Bizzoni – e grazie al gran numero di volontari-dentisti che hanno donato la loro disponibilità, possiamo effettuare una rotazione di turni che ci consente di avere a bordo del mezzo due soci-dentisti al giorno. Al momento, svolgiamo principalmente terapie di conservativa, estrazioni, piccola chirurgia e protesica mobile. Ma non possiamo pianificare trattamenti più lunghi. Inoltre, abbiamo preso accordi con l’Accademia Italiana di Odontoiatria Protesica affinché degli odontotecnici residenti in zona possano collaborare con i nostri volontari per fornire nuove protesi rimovibili, totali o parziali, a chi le ha perse durante il terremoto. Così come predisposto, l’odonto-ambulanza andrà avanti per almeno due mesi».

LAVORO E SOLIDARIETA’
La speranza, infatti, è quella di tornare al più presto verso una parvenza di normalità. Dove anche il lavoro si ritaglia un ruolo importante. Perché l’inattività occupazionale o la perdita della propria attività sta spingendo molti cittadini a trovare nuove soluzioni in altri contesti urbani.

«Il 92% delle attività commerciali sono perse – aggiunge Bizzoni – perché si trovavano in centro, dove è andato quasi tutto distrutto. Ed in centro si trovavano anche i quattro studi dentistici del paese, tra cui il mio che non è crollato ma è ormai inagibile e non si può entrare. Il mio obiettivo è di recuperare quanto prima l’attrezzatura lavorativa».

Nel frattempo, oltre a pianificare il suo futuro ed a reagire a quanto causato dal sisma, Bizzoni coordina la squadra dei dentisti-volontari che tre giorni a settimana sale sull’unità mobile messa a disposizione da Fabio e Andrea Peschiulli, entrambi soci ANDI e proprietari del mezzo che hanno raccolto l’appello della Fondazione.

«Avevamo già vissuto l’esperienza del terremoto dell’Aquila – dice Fabio Peschiulli – è sappiamo quanto sia importante reagire in queste situazioni, anche con un servizio di questo tipo, che trasmette vicinanza ai colleghi che hanno perso tutto a causa del sisma e favorisce il rapporto di vicinanza tra gli abitanti delle comunità ferite che sono rimasti nel loro territorio».

Per questo, all’indomani del terremoto Fabio Peschiulli ha lasciato la sua attività professionale, si è messo in viaggio da Lecce per raggiungere Amatrice ed ha consegnato il mezzo attrezzato ai suoi colleghi. Dopo aver ottenuto le autorizzazioni da parte dell’ASL di Rieti e del sindaco di Amatrice, di concerto con la Protezione Civile, i dentisti-volontari di ANDI sono a disposizione di tutti coloro che necessitano di cure odontoiatriche. Piccoli segni di normalità. Piccole tracce di una vita che ricomincia.

(fonte)

Cara ministra, piuttosto che querelare risponda

(Ne avevo scritto già qui e noto con piacere che l’affare si è ingrossato. Innanzitutto la Procura di Brescia ha aperto un’inchiesta. Ecco cosa scrive Stefano Catone.)

Ci sono stati nuovi sviluppi sulla visita della ministra Pinotti al governo Saudita, rispetto alla quale abbiamo interrogato la ministra stessa: come denunciato più volte da più voci, l’Italia ha esportato armi verso l’Arabia Saudita, circostanza vietata dalla legge 185 del 1990, dato che l’Arabia Saudita è un paese che sta conducendo un conflitto.

E’ dal marzo 2015, infatti, che l’Arabia Saudita sta bombardando lo Yemen, nonostante nessuno ne parli. Ed ecco perciò la necessità di avere la massima chiarezza sui rapporti che intercorrono tra il nostro governo e il governo saudita, in ogni momento e in particolare quando la ministra della Difesa si reca in visita a Riad per incontrare tutto lo Stato maggiore dell’esercito saudita, e mentre siti specializzati parlano di «naval deals between both countries».

E se Rete Disarmo e Amnesty International chiedono chiarezza, e se Possibile interroga la ministra, il ministero risponde così,minacciando querele:

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Vogliamo chiarezza, le querele non ci spaventano. Ci spaventa il mistero che avvolge la vicenda e ci spaventano le responsabilità italiane sulle morti di civili yemeniti sotto i bombardamenti. Questo sì, ci spaventa.

E ci spaventa ancora di più che le informazioni raccolte nei mesi scorsi abbiano trovato un proprio fondamento, dato che la procura di Brescia ha avviato un’indagine su quanto dicevamo in apertura: la fornitura di bombe “made in Italy” all’Arabia Saudita, in violazione della legge 185/1990. Un’indagine che potremmo definire storica, dato che mai in precedenza ne sono state condotte di simili, ci conferma Francesco Vignarca di Rete Disarmo.

Lasci perdere le querele e le minacce, ministra Pinotti. Faccia fare il proprio lavoro ai giornalisti, risponda in Parlamento alle interrogazioni e ci lasci la libertà di indignarci.

(il post è qui per i quaderni di Possibile)

«Queste due Camere rigurgitano di inquisiti, nocivi e ricattabili, questo è il problema»: Erri De Luca sul referendum

(intervista a Erri De Luca di Giacomo Russo Spena, fonte)

Dopo istigatore alla violenza e cattivo maestro, adesso verrà definito anche un parruccone o, addirittura, “conservatore” perché, secondo lui, è un grave errore toccare la  nostra Costituzione. Erri De Luca – scrittore, poeta impegnato e uomo di cultura – prende posizione sul referendum costituzionale del 4 dicembre dove si recherà al seggio per esprimere il suo NO, un voto principalmente contro Renzi, reo di aver personalizzato la partita. Non ha competenze specifiche in materia, lo ammette lui stesso, ma è sicuro che questa classe dirigente – con la corruzione ormai diffusa nelle istituzioni – non sia legittimata e idonea a revisionare la Carta: “Considero la Costituzione italiana l’equivalente laico di un testo sacro, perciò intoccabile”, ci dice.

De Luca, che idea si è fatto della discussione sul referendum costituzionale? 

Il dibattito è tra sordi, come si conviene al nostro Paese. Per me resta più un referendum sul governo e meno sulla materia costituzionale. È in corso un assaggio di campagna elettorale.

Saranno molti gli elettori che come Lei voteranno NO per le condizioni di disagio socio-economiche del Paese, senza entrare nel merito del quesito referendario? 

Assolutamente, del resto confermo il mio voto: il NO è un pronunciamento contro il governo in carica.

Voterà NO come Salvini e Brunetta. La imbarazza?

Se è per questo, mettiamoci pure D’Alema tra i votanti che sperano di trarre vantaggio politico dal NO. Io, invece, non ho nessun vantaggio da ottenere, solo la difesa di quel nobile pezzo di Carta.

Ma perché, mi scusi, boccia nettamente il governo Renzi tanto da far passare in secondo piano le ragioni della riforma costituzionale? 

Non lo boccio, ma spero in un Parlamento prossimo venturo meno compromesso. Insisto: a me interessa solo l’integrità della Costituzione.

“Se perdo il referendum me ne vado” aveva detto Renzi personalizzando, in una prima fase, il voto del 4 dicembre. Sarà veramente così?

Non è necessario, potrà  proseguire ma sarà certamente più debole.

Ha avuto modo di vedere il dibattito televisivo tra il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky e il premier Renzi? 

Sì e Zagrebelsky ha perso il confronto perché intimidito e di poca presa televisiva, almeno rispetto a Renzi.

Più in generale, secondo Zagrebelsky se vincesse il SÌ rischieremmo una deriva oligarchica. Non è un’esagerazione paventare svolte autoritarie?

Ogni ritocco alla Costituzione ne indebolisce l’intento democratico. Siccome è  la migliore possibile, al punto di essere continuamente disattesa, ogni ipotesi di riforma diventa restaurazione di un potere meno democratico. Pure da inapplicata, preferisco tenerla così, una via aperta verso il suo traguardo.

Non crede che la situazione italiana sia ben diversa da quella, ad esempio, turca e la nostra democrazia sia sostanzialmente più sana?

Al peggio non c’è fine e la democrazia turca si è suicidata consegnando la maggioranza al sultano Erdogan. La Turchia non c’entra nulla con i casi nostri, noi siamo malati di corruzione. È il guasto del nostro Paese, questa è la tirannia penetrata nelle fibre della società, che produce inerzia.

Per Salvatore Settis – che ha scritto una lettera all’ex presidente Giorgio Napolitano – questa riforma coincide in alcuni punti essenziali con la riforma Berlusconi-Bossi. Lei che ne pensa?

Non me ne intendo, non mi ricordo e non mi sono interessato di quella faccenda. Non chiamerei riforma alcuna legge che sia provenuta da quel duo.

In sostanza, lei manterrebbe in vita il bicameralismo paritario? Non crede che la “navetta” tra le due Camere rallenti l’iter legislativo e serva maggiore semplificazione?

L’iter legislativo sa essere molto spedito quando fa comodo – aumento di denaro ai parlamentari, per esempio – dunque non è un problema di bicameralismo. Queste due Camere rigurgitano di inquisiti, nocivi e ricattabili, questo è il problema.

Il Senato, secondo la riforma renziana, passa da 315 a 100 esponenti ma godranno dell’immunità parlamentare. Una giusta scelta garantista o così rischiamo un Parlamento pieno di indagati?

Voglio credere che il prossimo Parlamento sarà meno pieno di indagati di questo. Mentre, di principio, resto favorevole alla immunità di un parlamentare, tutela che può decadere per voto stesso del Parlamento in caso di incriminazione.

(6 ottobre 2016)

Il mare, Nobel per la Pace

Ho provato ad affogare i miei dolori, ma hanno imparato a nuotare.

(Frida Kahlo)

Troppo liquido per sottostare alle perversioni architettoniche dei potenti che appendono le maschere del loro digrignar di denti a muri o fili spinati e troppo largo o lungo per essere piantonato da chi vorrebbe comprarsi tutte le strade per dettare i cammini degli altri: il mare premia gli esploratori con il cuore dolce nonostante i capelli infeltriti dal sale. Le onde di Lampedusa o di Lesbo indicano la via lattea dei soccorsi.

Il mare è antigovernativo perché in questi anni continua a bisbigliarci che non si possono incanalare i bisogni, ci insegna che la disperazione fugge ai recinti e che gli affamati muoiono di acqua nei polmoni piuttosto che lasciare vincere l’inedia. Se la politica rincorre decisioni stupide e inutili il mare se ne frega, continua a fare il mare. E il mare è così tanto che diventa ridicolo il tiranno quando, ubriaco da hybris, promette di asciugarlo per fargliela pagare.

Il mare e le sue coste hanno una legge non eludibile: si soccorre sempre, si soccorre tutti. Chissà quando è successo che una legge così semplicemente giusta sia stata buttata a mare e non ce ne siamo accorti. Il mare e i suoi abitanti l’hanno custodita per secoli e ce l’hanno portata fin qui.

E poi il mare è inesorabile: inghiotte i corpi che non siamo riusciti a salvare ma li sputa sulle coste. Sarebbe troppo semplice tenerseli in pancia: eccoli lì i nostri morti. Per avere cura della pace non bisogna avere pace delle nostre disaffezioni.

Ecco, io credo che stia facendo un gran lavoro, il mare. Lui, i suoi marinai e i suoi abitanti delle sue coste.

(il mio buongiorno per Left è qui)

Referendum: ecco perché la riduzione dei costi è solo uno spot

(di Alfonso Celotto, professore di Diritto Costituzionale)

In questi giorni è iniziata una accattivante campagna d’informazione a favore del Sì al referendum costituzionale. Cartelloni nelle città, messaggi sugli autobus, post sui social network che proclamano:
“Vuoi ridurre i costi delle regioni?”
“Vuoi diminuire le poltrone delle politica?”
“Vuoi aumentare la partecipazione dei cittadini?”
“Vuoi maggiore autonomia per le regioni virtuose e un rilancio del sud?”
E così via….

Sono tutte domande a cui è difficile, forse impossibile, rispondere No. Peccato che queste appetibili promesse non siano in alcun modo legate alla riforma costituzionalesu cui saremo chiamati a votare il 4 dicembre. Infatti, andando al contenuto della riforma, ci si accorge agevolmente di come siano tutte informazioni parziali o ingannevoli:

La riforma costituzionale incide solo marginalmente sui costi delle regioni. Oggi le regioni si stima che costino 208 miliardi l’anno (dati Cgia di Mestre). La riforma, dal punto di vista dei costi, pone un tetto alle indennità dei consiglieri regionali. Ma si tratta di un risparmio davvero infinitesimale. Infatti non si toccano i costi dei Consigli regionali (che, si dice, costino circa 1 miliardo l’anno), ma si incide soltanto sulle indennità dei consiglieri, corrispondenti invece a 230.000 milioni nel complesso (dati lavoce.info). Ipotizziamo che la riforma dimezzi queste indennità: arriviamo a un risparmio di 115 milioni, che in percentuale sui 208 miliardi vale lo 0,00056 %. Davvero possiamo dire che riduciamo i costi delle regioni?

Prendiamo le poltrone della politica. Attualmente in Italia abbiamo 945 parlamentari, 15 ministri, 8 vice-ministri, 35 sottosegretari, 20 presidenti e 250 assessori regionali, circa 1.100 consiglieri regionali, 8.094 sindaci e all’incirca 120.000 consiglieri e 35.000 assessori comunali, oltre ai 65 membri del Cnel. Senza voler contare società miste e partecipate. La riforma elimina 215 senatori e i consiglieri Cnel, per un totale di 280 poltrone. Il totale delle attuali poltrone è di 165.524. Così, se ne eliminano 280, cioè lo 0,169 %. Un dato che non ha bisogno di commento.

Passiamo alla partecipazione dei cittadini. Attualmente gli istituti di democrazia diretta languono: la petizione è antistorica, l’iniziativa legislativa popolare ha prodotto leggi in una serie di casi che possono essere contati sulle dita di una sola mano; il referendum abrogativo da almeno 15 anni non riesce quasi mai a raggiungere il quorum di validità. Ora si pone un obbligo di esame parlamentare per i disegni di legge di iniziativa popolare; si rende flessibile il quorum dei referendum abrogativi e si rimanda a una futura legge la possibilità che vengano istituite nuove forme di consultazione referendaria. Bastano questi tre dettagli per ritenere che si sia aumentata la partecipazione dei cittadini, in un’epoca in cui ormai l’unica forma di partecipazione diretta che si può pensare passa attraverso un corretto uso degli strumenti elettronici e informatici?

La maggiore autonomia delle regioni virtuose e il rilancio del sud non hanno alcun appiglio concreto nella riforma. Da un lato, si modifica l’art.116 della Costrizione per consentire forme di autonomia speciale ad alcune regioni che ne faranno richiesta. Peccato che già nel 2001 era stata prevista tale possibilità e che nessuna regione ne abbia mai fatto fino ad ora uso. Quanto al sud, non c’è alcuna previsione specifica nel nuovo testo costituzionale. E non pare certo che sia sufficiente il nuovo riparto di competenze fra Stato e regioni per affrontare davvero (non diciamo risolvere) la annosa questione meridionale.

Potremmo non fermarci qui. E ricordare le promesse di Confindustria su posti di lavoro e punti del Pil che nasceranno magicamente a seguito di una riforma che nulla prevede nel settore economico e che, a ben vedere, semplifica davvero poco.

Ma comunque noi siamo degli inguaribili ottimisti. E ci piace pensare che nelle prossime settimane ci verrà detto che se voteremo Si vivremo tutti felici e contenti. Come nelle belle favole che tanto piacciono ai bambini. Peccato che nella riforma costituzionale Renzi-Boschi non ci sia neppure un accenno al “pursuit of Happiness” che invece venne richiamato nella dichiarazione di indipendenza Usa del 4 luglio 1776.

(fonte)

Cannabis. E la politica che fa cultura.

Ho un sogno. Da sempre. Immaginare di vivere in un Paese in cui la politica fa cultura nel senso più pieno informando, raccogliendo dati, proponendo soluzioni e, soprattutto, raccontando storie possibili. Penso a una politica che non assoldi intellettuali e artisti ma piuttosto coinvolga le menti migliori del Paese per proporre oltre ai soliti programmi elettorali anche delle visioni sociali e culturali. Sembra un’idea folle di questi tempi, lo so, ma l’alfabetizzazione dovrebbe essere un dovere della classe dirigente e mi piace pensare che sia un prospettiva attuabile. Da parte di tutti, ancora meglio: destra, sinistra e i centrodestri e i centrosinistri e quelli che “né destra né sinistra”.

La questione della legalizzazione della cannabis, ad esempio, si sta svolgendo in Parlamento con una colpevole strumentalizzazione dell’ignoranza: si può essere d’accordo o meno ma è necessario conoscere. Sapere e far sapere. Per questo credo che farne un libro (che per lunghezza e densità non permette di limitarsi alla propaganda pubblicitaria) sia un atto opportuno.

Pippo Civati l’ha scritto per i tipi di Fandango, con la nota introduttiva di Roberto Saviano. Cannabis. Dal proibizionismo alla legalizzazione. Ecco la presentazione:

«Esiste una legge migliore di quella che consentirebbe di riportare nella legalità milioni di italiane e italiani, di separare il mercato dalla cannabis da quello delle droghe pesanti, di ridurre il finanziamento alla criminalità organizzata (oggi pressoché inevitabile per gran parte di coloro che fanno uso di cannabis), di far emergere una quota consistente di economia sommersa e di ricavare una cifra tutt’altro che banale per le casse dello Stato, con particolare riguardo a ciò che si potrebbe spendere per la prevenzione e, più in generale, per la Sanità?

Esiste una legge migliore di quella che permetterebbe di controllare la qualità di ciò che viene immesso nel mercato, di risparmiare costi per lo Stato nelle varie fasi di repressione, indagine, in ambito giudiziario e carcerario?

Sarebbe una buona legge, in particolare per il nostro Paese dove è alto il consumo della cannabis e dove è forte, in alcuni casi molto complicata da contrastare, la presenza diffusa su tutto il territorio nazionale delle mafie.

Una legge basata sui migliori esempi a livello internazionale, su regole chiare e semplici, sulla possibilità dell’autoproduzione, della costituzione di cannabis social club e di un accesso legale alla cannabis per i consumatori occasionali.»

Lo potete comprare (anche) qui.

La Pinotti in Arabia Inaudita

Una domanda pubblicata sui quaderni di Possibile che meriterebbe una risposta:

Sono mesi che denunciamo a tutti i livelli istituzionali, grazie ai dettagliati report della Rete Disarmo, la continua vendita di armi all’Arabia Saudita da parte del nostro Paese. Un mercato indegno che viola la legge n. 185 del 9 luglio 1990 per la quale l’esportazione «di materiale di armamento nonché la cessione delle relative licenze di produzione devono essere conformi alla politica estera e di difesa dell’Italia» ed è comunque vietata verso i paesi impegnati in conflitti e in spregio totale della nostra Costituzione che ripudia la guerra. L’Arabia Saudita è infatti impegnata da tempo in operazioni militari che stanno colpendo lo Yemen, tra le quali si registrano bombardamenti con ordigni spediti dal suolo italiano.
Da mesi denunciamo la mancanza di trasparenza che caratterizza tutta questa vicenda.
Ora apprendiamo dalla stampa che la ministra Pinotti – ignara forse della Costituzione e della Carta delle Nazioni Unite oltre che delle prese di posizione espresse dal Parlamento europeo che hanno chiesto l’embargo sulle armi rispetto al governo di Riad – avrebbe incontrato a inizio ottobre nella capitale Saudita il vice erede al trono e responsabile del dicastero della Difesa, Mohammed bin Salman.
Secondo quanto riferiscono fonti del ministero della Difesa i due si sarebbero incontrati per discutere delle relazioni bilaterali tra i due paesi, con particolare attenzione al settore difesa. L’agenzia di stampa saudita “Spa” riporta poi dettagli inquietanti dell’incontro al quale avrebbero partecipato dal lato saudita, l’assistente segretario per la Difesa, Mohammed Ayesh, il capo di Stato maggiore, Abdulrahman al Banyan, Fahd al’Aysa consulente reale della difesa e altri funzionari del ministero della Difesa saudita e, per l’Italia, l’ambasciatore italiano in Arabia Saudita, Luca Ferrari, il segretario generale della difesa e direttore nazionale degli armamenti, Carlo Magrassi. Tema centrale sarebbe stato la consegna di armamenti navali al paese che sta attuando un genocidio sistematico in Yemen. Un’iniziativa, quella della Pinotti, che se confermata potrebbe essere definita solo con un aggettivo: criminale.

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