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Prove tecniche per (ri)perdere in Lombardia

Pier Luigi Bersani ci crede: la Lombardia andrà al voto nel 2013. Un anno prima della scadenza naturale della legislatura. Ma il segretario nazionale del Pd per la prima volta frena sulle primarie per la scelta del candidato del dopo Formigoni: «Vedremo se ce ne saranno le condizioni». Rilancia un «patto civico aperto» e non esclude un accordo con l’Udc. Lo scrive oggi Repubblica e, chissà perché, ce lo aspettavamo. Che non significa che si sta proni ad aspettare ed ascoltare. Tutt’altro.

Un ‘patto civico’ è civico se il testimone sta in mano ai cittadini e le primarie sono il percorso unico per aprire la consultazione. E invece qui i capi bastone delle segreterie si incontrano davanti ad un caffè e elaborano i loro stratagemmi (ultimamente, in Lombardia, parecchio sfortunati) e li truccano con i costumi del civismo. No, questa volta non gli sarà possibile. Ma mica perché siamo in tanti a non concederglielo (e mi conforta il post e la quotidiana chiacchierata mattutina con Pippo Civati) ma perché il trucco è stato scoperto da un po’. E perché evidentemente resistono ancora quelli che intendono il “potere” con la voce del verbo “potere decidere da che parte vanno i voti fedeli alla ditta” nonostante le scelte suicide.

Nessuna concessione ai tiepidi pupi e ai sofismi programmatici: dieci punti dieci di denuncia e di proposta per un’alternativa (basta ascoltarli in giro da chi ci lavora da anni, basta rileggere quello che proviamo a raccontare da anni), i tempi chiari dei passaggi del cambiamento e interpreti non condizionati, non condizionabili e non ricattabili. Non sappiamo mica se questa cosa si chiami “primarie” ma noi siamo in quel posto lì. E non ci interessano i patti sottovoce negli spogliatoi.

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Ripensare la sanità: prescrivere salute

Un’idea, un’ispirazione. Lo squarcio di un modello opposto alla lobby (antisociale) della sanità. Anche (e soprattutto) lombarda. Rebecca Onie si pone domande coraggiose: E se le sale d’aspetto fossero luoghi fatti per migliorare le cure sanitarie quotidiane? E se i medici potessero prescrivere cibo, casa, e riscaldamento in inverno? A TEDMED Rebecca Onie parla di Health Leads, un’organizzazione che fa proprio questo — e lo fa attraverso una base volontaria dedicata quanto una squadra sportiva universitaria.

Il mio primo anno di università mi sono iscritta ad un tirocinio nella divisione immobiliare al Greater Boston Legal Services. Mi sono presentata il primo giorno pronta a preparare caffè e fare fotocopie, invece sono stata assegnata a questo avvocato onesto e profondamente ispirato di nome Jeff Purcell, che mi ha spedita in prima linea fun dal primo giorno.

In quei 9 mesi ho avuto la fortuna di parlare con dozzine di famiglie a basso reddito di Boston che si presentavano con problemi di alloggio, ma alla base avevano sempre problemi di salute. Ho avuto un cliente che stava per essere sfrattato perché non aveva pagato l’affitto. Ovviamente non aveva pagato l’affitto perché pagava le cure per l’HIV e non poteva permettersi entrambi. Avevamo madri che si presentavano con figlie che soffrivano d’asma, che si svegliavano la mattina coperte di scarafaggi. E una delle nostre strategie in tribunale era quella di mandare me a casa di questi clienti con questi bottiglioni di vetro.Raccoglievo gli scarafaggi, li incollavo su questa lavagna che portavamo in aula per i nostri casi. E abbiamo sempre vinto perché i giudici erano sempre disgustati. Ancora più efficace, devo dire, di qualunque cosa io abbia imparato a giurisprudenza.

Ma durante questi nove mesi, è cresciuta la frustrazione per la sensazione di intervenire troppo tardi nelle vite dei nostri clienti — che nel momento in cui venivano da noi, erano già in crisi. Ala fine del mio primo anno di università, lessi un articolo sul lavoro che stava svolgendo il Dott. Barry Zuckerman titolare della cattedra di Pediatria al Boston Medical Center. La sua prima assunzione era un avvocato per rappresentare i pazienti.

Così chiamai Barry, e con la sua approvazione, nell’ottobre del 1995 entrai nella sala d’attesa della clinica pediatrica del Boston Medical Center. Non dimenticherò mai la TV che trasmetteva in continuazione cartoni animati. E lo sfinimento delle madri che avevano preso due, tre, qualche volta quattro autobus per portare i figli dal medico era palpabile.

I medici, così sembrava, non avevano mai abbastanza tempo per tutti i pazienti, facevano quello che potevano. Durante quei sei mesi, io li ho messi continuamente con le spalle al muro, nei corridoi, e ho fatto loro una domanda, ingenua ma fondamentale; “Se aveste risorse illimitate, quale sarebbe la prima cosa che dareste ai vostri pazienti?”

E ho sempre sentito la stessa storia, una storia che da allora abbiamo sentito centinaia di volte. Dicevano: “Ogni giorno arrivano pazienti in clinica — il bambino ha un’infezione all’orecchio, prescrivo antibiotici. Ma il vero problema è che non hanno cibo a casa. Il vero problema è che il bambino vive con altre 12 persone in un appartamento di due locali. Io non faccio domande su questi problemi perché non posso farci niente. Ho tredici minuti a paziente. I pazienti si accumulano nella sala d’attesa della clinica. Non ho idea di dove sia la dispensa più vicina. E non ho nessuno che mi aiuti”. In quella clinica, ancora oggi, ci sono due assistenti sociali per 24 000 pazienti pediatrici, che è molto meglio di tante altre cliniche.

Da queste chiacchierate è nato Health Leads — un modello semplice dove i medici e le infermiere possono prescrivere cibo nutriente, riscaldamento in inverno e altre risorse di base ai propri pazienti nello stesso modo in cui prescrivono medicinali. I pazienti portano le loro prescrizioni alla nostra scrivania nella sala d’attesa della clinica dove abbiamo un gruppo di studenti di legge molto in gamba che lavorano fianco a fianco con queste famiglieper metterle in contatto con lo scenario esistente delle risorse locali.

Abbiamo iniziato con un tavolino nella sala d’attesa della clinica — stile bancarella. Ma oggi abbiamo migliaia di studenti di legge che lavorano per mettere in contatto quasi 9000 pazienti e le loro famiglie con le risorse di cui hanno bisogno per essere in salute.

18 mesi fa ho ricevuto un’email che mi ha cambiato la vita. L’email era del Dott. Jack Geiger, che scriveva per congratularsi per Health Leads e per condividere, come dice lui,un po’ di contesto storico. Nel 1965 il Dott. Geiger ha fondato uno dei primi due centri sanitari comunitari del suo paese, in un’area terribilmente povera nel Delta del Mississipi.Molti dei suoi pazienti arrivavano con tali problemi di malnutrizione che cominciò a prescrivere loro cibo. Loro portavano le prescrizioni al supermercato locale, che le seguivae poi le metteva in carico al budget della farmacia della clinica. E quando all’ufficio per le opportunità economiche di Washington D.C. — che finanziava la clinica di Geiger — lo hanno scoperto, si sono infuriati. Hanno inviato dei burocrati a dire a Geiger che il compito di Gieger era usare i loro fondi per le cure mediche — a cui Geiger rispose notoriamente e logicamente: “L’ultima volta che ho controllato sui manuali, la terapia per la malnutrizione era il cibo”.

(Risate)

Quando ho ricevuto questa email dal Dott. Geiger, sapevo di dover essere fiera di fare parte di questa storia. Ma la verità è che ero distrutta. Eccoci qui, 45 anni dopo che Geiger ha prescritto cibo ai suoi pazienti, ci sono dottori che mi dicono: “Per questi problemi applichiamo la tecnica ‘non chiedere niente, non dire niente'”. 45 anni dopo Geiger, Health Leads deve reinventare la prescrizione per le risorse di base. Ho passato ore e ore a cercare di dare un senso a questo strano Giorno della Marmotta. Com’è possibile che, per decenni, abbiamo avuto uno strumento semplice per mantenere in salute i pazienti, in particolare i pazienti a basso reddito, e non l’abbiamo mai usato? Se sappiamo cosa ci vuole per avere un sistema sanitario che cura anziché un sistema che fa ammalare, perché non lo facciamo?

Queste domande, nella mia testa, non sono difficili perché le risposte sono complicate, ma sono difficili perché dobbiamo essere onesti con noi stessi. Io credo che sia fin troppo doloroso esprimere le nostre aspettative nei confronti dell’assistenza sanitaria, o anche solo ammettere che ne abbiamo. Perché se lo facessimo, verrebbero contraddette dall’attuale realtà. Ma non cambia la mia convinzione che tutti noi, nel profondo, qui in questa sala e in tutto il paese, condividiamo gli stessi desideri. Se siamo onesti con noi stessi e ascoltiamo in silenzio, nutriamo tutti un’incrollabile aspettativa nei confronti dell’assistenza sanitaria:che ci mantenga in salute.

Aspirare a che il nostro sistema sanitario ci mantenga in salute è straordinariamente efficace. E ne sono convinta perché credo che il sistema sanitario sia come qualunque altro sistema. È una serie di scelte che la gente fa. E se decidessimo di fare scelte diverse? E se decidessimo di prendere tutte le parti dell’assistenza sanitaria che ci hanno allontanato da noi stessi e ci fermassimo a dire: “No. Queste cose ci appartengono.Verranno utilizzate per i nostri scopi. Verranno utilizzate per realizzare le nostre aspirazioni”? E se tutto quello di cui avessimo bisogno per capire quello a cui puntiamo per il sistema sanitario fosse proprio davanti a noi in attesa di essere rivendicato?

Ecco dove è iniziato Health Leads. Abbiamo cominciato con il blocchetto delle ricette — un comune pezzo di carta — e ci siamo chiesti, non ciò di cui hanno bisogno i pazienti per essere in salute — antibiotici, inalatori, farmaci — ma prima di tutto, di cosa hanno bisogno i pazienti per rimanere in salute, per non ammalarsi? E abbiamo scelto di usare le prescrizioni per quel motivo. A qualche chilometro da qui al Children National Medical Center, quando i pazienti arrivano nello studio medico, vengono fatte loro alcune domande.Viene loro chiesto: “Ti manca cibo alla fine del mese?” Hai una casa sicura?” E quando il medico inizia la visita, conosce altezza, peso, se c’è cibo a casa, se la famiglia ha un riparo. E solo quello porta a migliori scelte cliniche, ma il medico può anche prescrivere quelle risorse al paziente, utilizzando Health Leads come specialista di riferimento.

Il problema è che una volta provato quello che significa rendersi conto di quello che si vuole dal sistema sanitario, si vuole di più. Allora abbiamo pensato: se si possono spingere i medici a prescrivere queste risorse di base ai loro pazienti, possiamo portare l’intero sistema sanitario a cambiare i propri assunti? Abbiamo provato.

Ora all’Harlem Hospital Center quando i pazienti arrivano con un Indice di Massa Corporea elevato, le cartelle cliniche elettroniche generano automaticamente una prescrizione per Health Leads. E i nostri volontari possono poi lavorare con loro per far accedere i pazienti a cibo sano e programmi di esercizi nelle loro comunità. Abbiamo creato un assunto: se sei paziente in quell’ospedale con un Indice di Massa Corporea elevato i quattro muri dello studio medico probabilmente non avranno da offrire tutto quello che ti serve per essere in salute. Avete bisogno di qualcosa di più.

Quindi da una parte, è soltanto una nuova codifica di base della cartella clinica elettronica.Dall’altro lato, è una trasformazione radicale della cartella clinica elettronica da depositaria statica di informazioni diagnostiche a strumento promotore della salute. Nel settore privato,quando tirate fuori quel tipo di valore addizionale da un investimento a costo fisso, si chiama azienda da un miliardo di dollari. Ma nel mio mondo, si chiama riduzione dell’obesità e del diabete. Si chiama assistenza sanitaria — un sistema dove i medici possono prescrivere soluzioni per migliorare la salute, non solo gestire malattie.

La stessa cosa vale per la sala d’attesa della clinica. Ogni giorno in questo paese 3 milioni di pazienti passano dalle sale d’attesa di 150 000 cliniche del paese. E cosa fanno quando sono lì? Stanno seduti, guardano il pesce rosso nell’acquario, leggono vecchie copie di riviste da casalinghe. Ma soprattutto siamo tutti lì seduti, ad aspettare. Come siamo arrivatia dedicare centinaia di ettari e migliaia di ore all’attesa? E se avessimo una sala d’attesadove non si sta lì seduti solo quando si è malati, ma dove si va per essere più in forma. Se gli aeroporti possono essere centri commerciali e McDonald’s può diventare un parco giochi, certamente possiamo reinventare le sale d’attesa delle cliniche.

Ed è quello che Health Leads ha cercato di fare: recuperare gli immobili e il tempo e usarli come accesso per connettere i pazienti alle risorse di cui hanno bisogno per essere in salute. È un inverno rigido nel Nord Est, vostro figlio ha l’asma, il riscaldamento si è spento, e ovviamente siete nella sala d’attesa di un pronto soccorso, perché l’aria fredda ha scatenato l’asma di vostro figlio. Ma se invece di aspettare per ore con ansia, la sala d’attesa diventasse il posto dove Health Leads vi riaccende il riscaldamento?

E ovviamente questo richiede una più ampia forza lavoro. Ma se siamo creativi, abbiamo già anche quella. Sappiamo che i nostri dottori e le nostre infermiere persino gli assistenti sociali non sono sufficienti, e che i tempi limitati dell’assistenza sanitaria sono troppo restrittivi. Per la salute ci vuole più tempo. Richiede una sfilza di persone al di fuori dell’ambiente medico di assistenti sociali, responsabili dei casi e molti altri.

E se una piccola parte di questa futura forza lavoro sanitaria fossero gli 11 milioni di studenti universitari di questo paese? Sollevati da responsabilità cliniche, non disposti ad accettare un no come risposta da quelle burocrazie che hanno tendenza a schiacciare i pazienti, e con una impareggiabile capacità di recuperare le informazioni perfezionata da anni di ricerca su Google.

Nel caso pensaste improbabile che un volontario universitario possa prendersi questo tipo di impegno, vi dirò solo due parole: Follia di Marzo. Il giocatore di basket medio della I Divisione della NCAA dedica allo sport 39 ore a settimana. Possiamo pensare che sia un bene o un male, in ogni caso è reale. E Health Leads si basa sul presupposto che per troppo tempo abbiamo chiesto troppo poco ai nostri studenti universitari quando si tratta dell’impatto reale su comunità vulnerabili. Gli sport universitari ci dicono “Passeremo dozzine di ore su un qualche campo al campus in assurdi orari mattutini e misureremo i vostri risultati, e i risultati della vostra squadra, e se non siete all’altezza o non vi fate vedere, vi buttiamo fuori dalla squadra. Ma faremo grossi investimenti per la vostra formazione e il vostro sviluppo, e vi metteremo a disposizione compagni straordinari.” E la gente fa la fila fuori dalla porta solo per avere la possibilità di farne parte.

La nostra sensazione è che se va bene per la squadra di rugby, va bene per la salute e per la povertà. Health Leads recluta in maniera competitiva, offre un’intensa formazione,insegna in maniera professionale, richiede molto tempo, costruisce una squadra coesa e misura i risultati — una specie di Teach for America dell’assistenza sanitaria.

Le prime 10 città americane con il più gran numero di pazienti sotto assistenza sanitaria pubblica hanno ciascuno almeno 20 000 studenti universitari. La sola New York ha mezzo milione di studenti universitari. È non è solo una forza lavoro a breve termine per mettere i pazienti in contatto con le risorse di base, è lo sviluppo della prossima generazione del sistema sanitario che ha passato due, tre, quattro anni nella sale d’attesa delle cliniche a parlare con i pazienti dei loro bisogni sanitari di base. Al termine del loro operato hanno ottenuto la convinzione, la capacità e l’efficacia nel realizzare le nostre aspettative di base nei confronti dell’assistenza sanitaria. E il fatto è che ce ne sono in giro già a migliaia.

Mia Lozada è responsabile di medicina interna all’UCSF Medical Center, ma per tre anni, da studentessa, è stata volontaria all’Health Leads nella sala d’aspetto del Boston Medical Center. Mia dice: “Quando i miei compagni di classe scrivono una ricetta, pensano che sia finita lì. Quando io scrivo una ricetta, penso: la famiglia è in grado di leggerla? Ha i mezzi per recarsi in farmacia? Ha cibo per assumere quello che ho prescritto? Ha un’assicurazione per coprire la prescrizione? Queste sono le domande che ho imparato a farmi a Health Leads, non alla facoltà di medicina.”

Nessuna di queste soluzioni — il blocchetto delle prescrizioni, la cartella clinica elettronica,la sala d’aspetto, la schiera di studenti universitari — sono perfetti. Ma non dobbiamo fare altro che prenderli — esempi semplici della quantità di risorse poco utilizzate dell’assistenza sanitaria che, se recuperate e messe in campo, possono realizzare le nostre aspirazioni di base dell’assistenza sanitaria.

Ero al Greater Boston Legal Services da nove mesi quando questa idea di Health Leads ha iniziato a infiltrarsi nella mia mente. E sapevo di dover dire a Jeff Purcell, il mio avvocato,che dovevo andare via, ed ero così nervosa, perché pensavo che l’avrei delusonell’abbandonare i clienti per un’idea folle. Mi sono seduta accanto a lui e gli ho detto: “Jeff, ho in mente che potremmo mobilitare gli studenti universitari per affrontare i bisogni sanitari di base dei pazienti.” E sarò onesta, tutto quello che volevo era che non si arrabbiasse con me. Ma disse questo: “Rebecca, quando hai un’idea, hai l’obbligo di realizzarla. Devi portare avanti quell’idea”. E devo dire, ho reagito con “Wow. Questa è una pressione forte”. Volevo solo una benedizione, non volevo un qualche tipo di mandato. Ma la verità è che da allora ho passato praticamente ogni minuto ad inseguire quell’idea.

Credo che abbiamo tutti un’idea per l’assistenza sanitaria di questo paese. Credo che alla fine la nostra valutazione sull’assistenza sanitaria, non sarà per le malattie curate, ma per le malattie prevenute. Non sarà per l’eccellenza delle nostre tecnologie o per gli specialisti ricercati, ma da quanto raramente abbiamo bisogno di loro. E più di tutto, credo che il nostro giudizio sull’assistenza sanitaria, non dipenderà da quello che era il sistema, ma da quello che scegliamo che sia.

Grazie.

(Applausi)

Grazie.

(Applausi)

Quelli che vogliono abbattere Formigoni per i calzini

Scusate, l’ora è tarda e l’argomento antipatico per tanti democratici, vip antimafia e uomini di centrosinistra. Ma dopo la nausea per i calzini viola di Mesiano (ve lo ricordate? qui per rinfrescarvi) leggere dei calzini bianchi di Formigoni su Repubblica mi lascia basito. Perché l’opposizione fatta su camicie, slogan e (solo) hashtag su twitter è offensiva per la politica. E scrivere dei calzini di Formigoni non ha nessuna differenza con Claudio Brachino che cerca di sputtanare il giudice del Lodo Mondadori.

Non so voi. Non so se è politicamente corretto. Ma il berlusconismo mi sembra più vivo nell’area democratica che nel suo morituro partito.

Vedere qui per credere.

E alla fine sarà colpa nostra anche via D’Amelio

Poi alla fine verranno a dirci che, comunque, è colpa nostra e dei nostri venti o trent’anni. Ci diranno che siamo stati troppo poco curiosi, che non abbiamo fatto le domande giuste o che siamo superficiali, disinteressati, disillusi: antipolitici.

Siamo cresciuti con Falcone e Borsellino nelle orecchie come un mantra per farci addormentare. Sembrava semplice, anche, a vederlo da fuori o da lontano, arrampicati quassù a Milano dove le bombe al massimo erano un incidente di percorso ma senza rischio. Chi erano i buoni e chi erano i cattivi: era semplice. Loro, ci dicevano, li hanno uccisi perché erano buoni, Falcone perché combatteva la mafia. E allora così piccolo e sprovveduto pensavi sempre che era una battaglia a perdere, quella contro la mafia, come la bottiglia da restituire quando ci hai bevuto tutta l’acqua dentro. Borsellino l’hanno ucciso perché era l’amico di Falcone, il suo erede. E ce l’hanno raccontato con quelle facce che hanno gli adulti quando sanno di raccontare una storia che è così chiara da sembrare banale, con le certezze dei dogmi da passare ai figli con la solennità che si addice ai padri sempre un po’ di fretta di ritorno dal lavoro.

Era la stessa faccia che si ingrugniva su Andreotti, che forse sì, non era stato sempre trasparente ma “la mafia è un’altra cosa”. Forse Andreotti l’aveva incrociata a qualche fermata del tram o l’aveva salutata seduta al tavolo di fianco durante la pausa pranzo. Ma “la mafia è un’altra cosa”. Oppure le facce con il mezzo sorriso dei cretini mentre scuotevano la testa quando si diceva di odore di mafia con Raul Gardini, che da noi, qui giù al nord, era l’abbronzato più nordico che si potesse immaginare. Insomma sì, la politica e qualche imprenditore saranno stati un po’ spericolati in quegli anni ma “la mafia è un’altra cosa” e l’importante è santificare i morti. Ricordandosi e ricordandoci tutti che la mafia è sporca e cattiva, tutti insieme nella santa messa dei morti ammazzati saltati in aria quell’anno lì, quell’anno di Falconeeborsellino scritto tutto attaccato come si mischiano le cose quando perdono la memoria e il senso.

Poi ci è toccato di andare a studiare Andreotti com’era Andreotti dentro le carte del processo, cosa diceva Dalla Chiesa al figlio e alla moglie, abbiamo frugato nei cassonetti della memoria superficiale e deteriorabile in fretta per ripescare gli articoli che si incaponivano, che non volevano semplificare. Che non era tutto bianco e nero e che in mezzo al brodo di tutto quel grigio ci stava la forza buia degli ultimi vent’anni. Non è nemmeno stato facile trovare le memorie di quel tempo: gli articoli stavano annichiliti dietro alla lavagna, dove si castigano gli allarmisti per professione e per eversione professionale.

Ora quel 1992 e quella bomba esplosa sotto le scarpe di Paolo Borsellino forse non è più così semplice. Ora le indagini e le Procure dicono che c’era qualcosa in più. Forse, ci dicono, forse non è vero “che la mafia è un’altra cosa”. Forse il filo rosso che sta dietro gli ultimi venti anni ha un padre che viene da molto lontano e dei figli che sono la seconda generazione di quel buco in via D’Amelio. Figli dallo stesso utero del tritolo di Capaci. Altro che buoni e cattivi, bianco o nero, e i complotti che stanno a zero. Altro che le farneticazioni dei figli, dei fratelli e dei parenti che non riescono a sopravvivere tranuquilli ai familiari morti ammazzati.

Qualcuno balbetta, sì forse abbiamo dato per scontato e invece c’è qualche scheggia impazzita. Provano a tranquillizzarci così. Un’educazione antimafiosa di errori, banalizzazioni e falsità e provano a discolparsi accusando pochi personaggi minori della storia. Poi ci diranno che bisogna aspettare i riscontri. Sicuro. E che comunque queste sono le settimane della memoria: mani giunte, sguardo umido e poche domande. Non si bisbiglia durante la messa. E’ un peccato mortale.

Poi alla fine verranno a dirci che, comunque, è colpa nostra e dei nostri venti o trent’anni. Ci diranno che siamo stati troppo poco curiosi, che non abbiamo fatto le domande giuste o che siamo superficiali, disinteressati, disillusi: antipolitici.

Pubblicato su I Siciliani Giovani – giugno 2012

Per scaricare il nuovo numero: www.isiciliani.it

Nell’uscita di questo mese:

Margherita Ingoglia e Michela Mancini  Giovani: Telejato e Siciliani Gian Carlo Caselli Illusioni e verità Nando dalla ChiesaNdrangheta e sanità Giulio Cavalli Via D’Amelio Riccardo Orioles Maledetta antimafia Norma Ferrara / Sabina Longhitano Gaetano Liardo Un’estate libera Emanuele Midolo Terre bruciate Giovanni Caruso Terre bruciate Pietro Orsatti Beni confiscati Rino GiacaloneBeni confiscati Rino Giacalone Il mancato arresto di Messina Denaro Francesco Feola Rewind-Forward Salvo Vitale Muoiono 40 tv, si salva Telejato Maria Visconti e Salvo Ognibene Telejato e le scuole di Bologna Studenti di Bologna Lettera al Presidente Nadia Furnari Rita Atria vent’anni dopo Luciano Mirone Il caso Manca Antonio Mazzeo I droni di Sigonella Sara Spartà Niscemi: NoMuos e antimafia Arnaldo Capezzuto L’azzardo di Laboccetta Arnaldo Capezzuto L’editto di Nick ‘o ‘Mericano Ester Castano Perego e ‘ndrangheta Desirée Miranda e Leandro Perrotta Catania/ “Vuoi parlare? Paga!” Salvo Vitale L’affare dela distilleria BertolinoMargherita Ingroglia Partinico/ Elezioni in cosca Francesco Appari e Giacomo Di Girolamo Pantelleria/ Un sindaco in mezzo al mareCarlo Gubitosa, Kanjano e Mauro Biani Mamma Jack Daniel Satira/ Vergine again Luca Salici e Luca Ferrara Grafic Novel/ Caponnetto Antonello Oliva Musica/ I nuovi cantautori Elio Camilleri Storia/ Portella delle Ginestre Alessandro Romeo Altri Sud/ Pausa indiana Giuseppe Giustolisi Medici catanesi Daniela Sammitto Chi vuol chiudere la comunità Rossana Spadaro Vittoria/ Volti e storie Lorenzo Baldo Interviste/ Alfredo Morvillo Giovanni Abbagnato Palermo fra passato e futuro Irene Di Nora Antimafia in IrlandaAntonio Cimino Da Chinnici a Borsellino Salvo Vitale Antimafie, Istruzioni per l’uso Rossomando Campania/ Il triangolo del lavoroPietro Orsatti Fare libri Fabio Vita Apple vs Bitcoin Pino Finocchiaro Lettere al Quirinale Riccardo De Gennaro “Fondata sul lavoro”Gapa I bambini, la resistenza, i perseguitati Piero Cimaglia e Daniela Siciliano Uomini e no Giovanni Caruso Periferie/ La fossa Dino Frisullo Periferie/ Malli Gullu Fabio D’Urso e Luciano Bruno Ballata della città dimenticata Giuseppe Fava Sicilia, miseria e miliardi

E non è cambiato niente mai, e la disperazione ha preso il cuore di mi­lioni di cittadini, e io questo posso scriverlo onestamente perché la di­sperazione ancora non mi ha vinto.

Per non avere la memoria a corrente alternata ma una resistenza elettrica e continua, oggi ho ritrovato un pezzo di Pippo Fava. Era il 1975. Dovevo nascere due anni dopo. E può tornare utile rileggerlo per uscire dalla stucchevole polemica su alleati e alleanze di questi giorni:

Mi volete spiegare perché un uomo, un cittadino che da anni vede gli enti pubblici gonfiarsi di racco­mandati, le­noni della politica, imbro­glioni, gabel­loti dei partiti, e vede l’amministrazio­ne onesta paralizzata dalla faida di po­tere a tutti i livelli, e vede le opere pubbliche boicottate e annientate dalla paura che ogni uomo politico nutre ch’essa opera pubblica possa servire al concorrente, e vede i quartieri della città trasformati in lan­de di scorreria per teppisti d’ogni età; perché quest’uomo cittadino che pos­sibilmente è anche povero e galantuo­mo e non riesce a trovare lavoro one­sto, e vede i raccomandati, i lacché, i vassalli poli­tici scavalcarlo continua­mente negli esami, nei concorsi, nel diritto civile alla vita; quest ‘uomo che magari è stato ricoverato una vol­ta in ospedale o vi ha condotto un fi­glio o un padre, e ha visto i topi cam­minare sotto i let­ti, e gli esseri umani agonizzare per­ché mancava un litro di sangue, men­tre duemila, tremila impiegati politici divorano ogni mese miliardi di pubbli­co denaro, quest’uomo povero, fiducioso, perseguitato, che per anni e anni ha votato per la democrazia acca­nendosi a sperare che da una settima­na all’altra, da un anno all’altro, tutto potesse cambiare, e infine ha fanatica­mente votato fascista per esprimere la sua disperazione e nemmeno allora è successo niente, nessuno ha raccolto il monito drammatico.

Perché quest’uomo così ridotto e fe­rito come essere vivente e come cit­tadino ora, in questa occasione eletto­rale, non do­vrebbe votare comunista?

E così per anni e decenni, per mesi e per giorni, e per infinite occasioni, in­finite illusioni e speranze, gli italia­ni (e i catanesi) hanno perdonato e re­stituito la fiducia, e nutrita la speran­za che tutto stesse veramente per cambia­re.

E non è cambiato niente mai, e la disperazione ha preso il cuore di mi­lioni di cittadini, e io questo posso scriverlo onestamente perché la di­sperazione ancora non mi ha vinto.

(21 giugno 1975)

L’odio di Carlo Cosco, i suoi “fratelli”, Lea Garofalo e l’orgogliosa Denise

Depositate le motivazioni del processo per l’uccisione di Lea Garofalo. Ci torneremo. Sicuro. Intanto il bel pezzo scritto da Giovanna Trinchella per Il Fatto Quotidiano. E le parole che scolpiscono una colte per tutte il vergognoso spessore criminale di Cosco e i suoi fratelli:

L’unica cosa certa è che Lea Garofalo è stata uccisa per “odio”. Massacrata da “criminali di mestiere e per scelta di vita”. Il suo corpo, dissolto in cinquanta litri di acido, non è mai stato trovato ma quella “donna fragile, sofferente, infelice” è morta assassinata “al di là di ogni ragionevole dubbio”. I giudici della I corte d’Assise di Milano, che il 30 marzo scorso hanno mandato in galera per sempre sei uomini tra cui l’ex compagno della vittima Carlo Cosco, non hanno potuto concedere nessuna attenuante a chi, come scrive la presidente Anna Introni nelle motivazioni della sentenza, ha dimostrato solo “disprezzo della vita e dei più nobili sentimenti famigliari”.

E’ stato un processo difficile quello contro “imputati imperterriti e imperturbabili”, silenti tranne quando hanno scelto di parlare per dire “menzogne”. E’ più che un percorso giudiziario il film della vita di questa donna, che iniziò una collaborazione da testimone di giustizia solo per dare una chance di vita migliore alla figlia Denise, assomiglia a un romanzo. Una vita difficile ricostruita dai giudici con parole che entrano raramente in atti giudiziari: “Lea, orfana di padre dall’età di nove mesi, sin dalla prima infanzia respira e vive in un ambiente socio famigliare caratterizzato da povertà culturale, con elevati profili di illegalità patologici ed improntato a valori educativi deviati, la nonna le insegna che il sangue si lava con il sangue tanto da compiacersi dell’onore mostrato dall’altro suo figlio che aveva cercato di vendicare la morte del fratello con il sangue divenendo irrilevante che lo stesso fosse rimasto ucciso nell’ambito delle vendette incrociate”.

Ed è per questa vita complicata che il pm di Milano Maurizio Tatangelo, ad apertura del processo, disse: “A questo processo vi appassionerete, è una vicenda umana tragica”. Perché non solo c’è un uomo che uccide la’ex compagna con l’aiuto dei parenti, ma una figlia che si costituisce parte civile contro il padre, l’assassino di sua madre: “La testimonianza di Denise Cosco, come già visto e come si vedrà soprattutto in seguito, è assai preziosa, Denise è il teste chiave – scrive il giudice Introini – e le sue dichiarazioni si pongono quali momenti fondamentale per la ricostruzione di alcuni eventi, di parecchi episodi, di tutto quanto successo che ha visto protagonisti i suoi genitori. La sofferenza di Denise unitamente ad altri nobili sentimenti manifestati nel corso delle sue deposizioni, quali il coraggio, il senso della conoscenza, della verità esimono dal commentare le sue dichiarazioni se non nei limiti in cui ciò risulti strettamente necessario per l’accertamento della verità (finalità cui deve tendere il processo penale)”.

Per il pubblico ministero, che aveva chiesto e ha ottenuto l’ergastolo per gli imputati, “quella di Lea Garofalo è stata una morte annunciata, da anni”. Forse da quando la donna, nel 1996, dopo l’arresto di Carlo Cosco, lo lascia. Di sicuro dal 2002 quando Lea, sfuggendo alla “mentalità mafiosa” in cui era cresciuta, decide di svelare tutto quello che sa di omicidi ed estorsioni. Fino al 2009 Lea e Denise fanno parte di un programma di protezione e vagano per l’Italia in una sorta di via Crucis. Ma in aprile del 2009 Lea, che aveva solo 37 anni, smette i panni della testimone, forse perché sente il fiato sul collo di Cosco (che ha saputo dove si trova da un carabiniere), e dopo tredici anni cerca un contatto con lui. Cosco però, affiliato a una cosca della ’ndrangheta di Crotone “chiede l’autorizzazione a due capi-cosca per uccidere la Garofalo”, vuole la sua “vendetta”. Il movente di quest’uomo , cui non veniva fatta vedere la figlia quando era detenuto, è tutto in questa riflessione: non solo “lo straziante dolore di un genitore che a causa delle scelte dell’altro non vede più la figlia, non sono solo sentimenti di rabbia, di odio, di vendetta che provano quei genitori ai quali per le scelte dell’altro genitore vengono privati della quotidianità dei figli, vengono privati della gioia di vederli crescere, è qualcosa di più è il disonore, l’umiliazione provata per essere stato lasciato da Lea nel momento del suo arresto e per non vedere più la figlia per una decisione unilaterale della moglie”.

Tra gli “impeterriti e imperturbabili” imputati – Carlo Cosco appunto, i fratelli Giuseppe e Vito, Rosario Curcio, Massimo Sabatino – c’è anche Carmine Venturino “al servizio stabile dei Cosco” che “non si è sottratto neppure all’ignobile compito di affiancare Denise ed intrattenere con la stessa una relazione sentimentale”. La “rara efferatezza”, la “fredda determinazione” di tutti non hanno risparmiato Lea e forse non avrebbero risparmiato Denise che consapevole delle responsabilità della sua famiglia per oltre un anno, e fino agli arresti degli assassini, ha dovuto vivere in una prigione di silenzio e paura: “Ho fatto finta di niente – aveva detto in aula la ragazzina nascosta dietro un paravento – come ho fatto finta di niente tutto l’anno successivo. Cosa dovevo fare? La stessa fine di mia madre?”. Lea, che con la figlia voleva scappare in Australia, scomparve fra il 24 e 25 novembre 2009; le telecamere del comune di Milano ripresero all’Arco della Pace di Milano i suoi ultimi istanti in vita. Alle 18,37 salì sull’auto guidata da Carlo Cosco. Fu portata in un appartamento, poi in un magazzino, interrogata, torturata. Tra il 26 e il 28 novembre fu dissolta nell’acido. Denise, difesa dall’avvocato Enza Rando, ora vive sotto protezione, (lontana da nonna e zia materne, anch’esse parti civili nel processo), ma “orgogliosa testimone di giustizia”.

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Il federalismo che serve: tornare alle città, ripensare il territorio

Il secolo nuovo, nei suoi primi dieci anni, ha portato una “mistificazione” della questione urbana. Le politiche della sicurezza da una parte e il dibattito sul federalismo municipale, dall’altro, hanno dominato il discorso pubblico e hanno evitato che si affrontassero le questioni urbane entro a un quadro di respiro strategico che ne evidenziasse l’interesse nazionale dinanzi ai cambiamenti che le città hanno registrato nel ventennio a cavallo tra il secolo vecchio e il nuovo. Le città hanno subito cambiamenti profondi, per alcuni versi radicali. 

Pretendiamo che l’affermazione di centralità delle Città nella politica del governo centrale, pur nel rispetto delle competenze e delle attribuzioni che restano alle Regioni, alle Province e ai Comuni, si affermi; pretendiamo che si individui un percorso reale che porti alla costruzione di un vero Piano nazionale per le Città d’Italia. Dobbiamo pretendere, anche in vista dei futuri programmi di governo, che le forze politiche si pongano l’obiettivo di ricostituire in sede nazionale un luogo di elaborazione e di attuazione di queste politiche (meno improvvisato e spartitorio della cabina di regia prevista dal decreto). Sparare sul Piano Città di Monti è come sparare sulla Croce Rossa e ci distoglie dalla questione vera che merita di essere affrontata: se e come le città possono tornare al centro dell’Agenda politica nazionale. 

Lo scrive Giovanni Caudo e pone un tema che non si riesce a prendere in toto. Un po’ perché tutti intimiditi a parlare di federalismo come se ce l’avessero scippato e allora è meglio non lambirlo nemmeno e un po’ perché fa comodo a tutti depotenziare i sindaci per controllare le scelte. Eppure un Piano Nazionale per le città sarebbe una bella pagina dell’agenda politica (anche e soprattutto in Lombardia per praticare federalismo senza appuntarselo al petto) che lambisce consumo di suolo, ambiente e il modo di intendere lo stare insieme.

Quelli che ieri hanno perso 1 a 0

Sono quelli che hanno esultato sul divano davanti ai goal di Balotelli ma non riconoscono in Parlamento la cittadinanza a chi è nato in Italia. Oggi rileggono i propri programmi politici e scoprono che hanno perso uno a zero in semifinale con la Germania. La loro avventura europea è finita qui. E forse sarebbe bello che noi prendessimo l’assist al volo di Super Mario e decidessimo di segnare una volta per tutte e chiudere la partita.

(beh, direte voi, bisogna vedere cosa ne dice l’ala destra del centrosinistra. Vero. Sì. Mi sarò fatto prendere dall’entusiasmo. Noi italiani. Ci basta poco)