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Votare o patteggiare? In Liguria la risposta è l’astensione

Una regione decapitata da intrallazzi e corruzione, che legano gli interessi del suo presidente regionale a quelli degli affaristi, non spinge alle urne nemmeno la metà degli elettori. Il primo, insindacabile dato delle elezioni regionali in Liguria è questo: nemmeno gli scandali riescono a far recuperare la tessera elettorale dal cassetto.

Quando la politica diventa un esercizio per politici, affezionati, iscritti e fedelissimi, il ripetersi delle stesse logiche diventa altamente probabile. Ma l’astensionismo non è solo un indicatore dello stato di salute della democrazia: è anche un suo esercizio. Insistere sul ritornello «se non votate vi meritate i politici che avete» è un gioco sciocco, un po’ classista.

Le elezioni in Liguria ci dicono, ad esempio, che un patteggiamento per corruzione può essere visto come un peccato veniale. Qualche giorno fa, ospite di una trasmissione televisiva, il giornalista de Il Fatto Quotidiano Gianni Barbacetto – uno che di corruzione se ne occupa da decenni – ha abbandonato lo studio perché trovava inaccettabile «essere costretto a sentire» l’ex presidente ligure Giovanni Toti, che «gli faceva la morale dopo aver patteggiato una pena a due anni e un mese per corruzione». Barbacetto ha spiegato che, nel patteggiamento, «il giudice ha l’obbligo di verificare se sussiste il proscioglimento, cioè se ritiene innocente la persona coinvolta, dopodiché accetta il patteggiamento».

Di fronte a quel gesto di ecologia civile di Barbacetto, molti hanno commentato che un giornalista avrebbe il dovere di rispettare le sentenze. Ma il punto è proprio questo: restituire la gravità di certe condotte. E su questo, il campo largo non esiste.

Buon martedì.

Nella foto: frame del video della conferenza stampa di Marco Bucci, 28 ottobre 2024

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Sulla CO2 tante promesse fatte ma quasi mai mantenute

Ripercorrete per un istante le promesse ascoltate negli ultimi anni sull’abbattimento della CO2. È il nuovo comandamento laico, declamato in ogni campagna elettorale, ripetuto da ogni governo, a ogni tavolo internazionale. Ci hanno garantito che avrebbero ridotto la CO2 e, naturalmente, che lo avrebbero fatto in fretta. Tutti, persino coloro che negano il cambiamento climatico, sussurrano ora che, in fondo, un’aria più pulita non potrebbe far poi così male.

Ieri, però, l’Organizzazione meteorologica mondiale delle Nazioni Unite ha consegnato una realtà ben diversa: nel 2023 la concentrazione di CO2 ha raggiunto il record di 420 parti per milione, il 151% dei livelli pre-industriali. L’ultima volta che la Terra ha registrato simili concentrazioni, parliamo di 3-5 milioni di anni fa, la temperatura globale era di 2-3°C più alta e i mari si innalzavano di 10-20 metri.

Possiamo affermare con certezza che, mentre i governi insistono sul loro impegno a ridurre i gas serra – come la CO2, principale responsabile del riscaldamento globale – i fatti ci raccontano una direzione opposta. Non si tratta di qualche ritardo nei risultati o di una situazione peggiore del previsto: siamo sull’esatto percorso inverso rispetto alle promesse fatte.

Ora, impiegate questi ultimi secondi per valutare la credibilità di quelle promesse e, soprattutto, di chi continua a farle, senza mai cambiar strada.

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In Georgia vincono i filorussi… e Orbán esulta

È una storia georgiana, quella che Viktor Orbán ha deciso di riscrivere con l’inchiostro degli autocrati. L’Unione Europea, intanto, osserva con sconcerto e un’ombra di preoccupazione che s’allunga oltre i confini di Bruxelles: come se lo spettacolo di Orbán a Tbilisi fosse soltanto l’ultimo atto di una tragedia già scritta. La Georgia ha votato, sì, ma nel rumore delle minacce, nella coreografia sinistra delle intimidazioni. E, come da copione, il proscenio è tutto per Georgian Dream, il partito filorusso, che alla fine ha portato a casa il trofeo della “vittoria”, sebbene una folla di testimoni — tra cui delegati europei — denunci un risultato segnato dai veleni della frode.

L’abbraccio di Orbán alla Georgia di Putin

Orbán, fedele al suo ruolo di disturbatore in capo, ha prontamente applaudito questa “schiacciante vittoria” ancor prima che le urne tacessero. È volato a Tbilisi come si viaggia verso il cuore di una festa clandestina: portando la sua benedizione a un’elezione avvelenata, celebrando la stabilità, quel dono avvelenato che lui stesso continua a offrire al suo popolo e ora anche ai georgiani. E così, mentre la presidente georgiana Salome Zourabichvili invoca il popolo a scendere nelle strade contro quella che chiama “una speciale operazione russa” travestita da voto democratico, l’Ungheria di Orbán si presenta come la strana amica, capace di spazzare via ogni dubbio con la semplicità della sua diplomazia strabica.

L’Unione Europea e la resa dei conti a Budapest

Per l’Europa, l’incontro di Orbán con il governo georgiano rappresenta un drammatico tradimento, un gioco pericoloso di alleanze che prende forma in un angolo lontano ma pesantemente ombroso. C’è chi, a Bruxelles, mormora che Orbán voglia fregiarsi del cappello europeo in questa scorribanda solitaria. Qualcuno si spinge a dire che questa sia solo l’ennesima mossa di una marionetta di Mosca tra i banchi della democrazia europea, una mossa per gettare sabbia negli ingranaggi già arrugginiti del Parlamento. E forse non è solo un sospetto: Orbán lo sa e in questo ruolo si sente a suo agio, all’ombra di un Putin che gli ha riservato uno scranno d’onore tra gli “amici d’Europa”.

La Georgia, nel frattempo, paga il prezzo di un amore dichiarato — quello verso l’Unione — ma mai consumato. Era candidata ideale per entrare nell’orbita europea, ma la luna di miele è finita in fretta: la candidatura è sospesa, congelata dalla stessa Bruxelles che non tollera derive autarchiche travestite da patriottismo. Il Georgian Dream, con le sue leggi sul modello russo, etichetta ONG e media come “agenti stranieri”, inchioda la libertà di stampa e minaccia la comunità LGBTQ+ con restrizioni che puzzano di repressione. Intanto le strade di Tbilisi tornano a riempirsi di proteste, come un fiume carsico che riaffiora, carico di un’energia che il potere non riesce a reprimere.

In tutto questo, Orbán danza tra i tavoli della diplomazia come un giocatore che ha fatto all-in su Putin. La sua campagna di sabotaggio prosegue, ora con la presidenza di turno dell’Ue in mano, giocando al doppio volto: da un lato, il leader ungherese si ritrae come la vittima della rigidità di Bruxelles; dall’altro, spinge i confini dell’Unione verso un’implosione silenziosa, inesorabile. Tra le sue mani, il destino europeo di Georgia e Ucraina è un pedone su una scacchiera ben più vasta, dove il confine tra alleanza e tradimento è diventato una linea sfocata.

Resta da vedere quanto ancora l’Europa riuscirà a chiudere un occhio su questo spettacolo. La Georgia, ora, è una spina nel fianco e uno specchio per un’Europa che vacilla. La prossima riunione a Budapest sarà una scena di confronto, una resa dei conti attesa. Ma nel frattempo, Orbán sorride.

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Non è in vendita la coscienza dei giornalisti (nemmeno su Amazon)

C’è qualcosa di tremendamente affascinante nella dignità di chi sa ancora alzarsi dalla sedia, di chi sa ancora dire “no, grazie” anche quando quel “grazie” vale milioni di dollari. È successo al Washington Post, dove l’ombra lunga di Jeff Bezos ha tentato di soffocare una tradizione quasi cinquantennale di endorsement democratici, scatenando un terremoto che ha fatto tremare le fondamenta del giornalismo americano.

I giornalisti del Post non hanno esitato: hanno sbattuto la porta. Robert Kagan, penna storica del quotidiano, ha definito “facile” la scelta di dimettersi. Facile come sono facili le scelte quando si ha ancora una spina dorsale che funziona, quando si comprende che il giornalismo non è un esercizio di equilibrismo ma una questione di responsabilità.

Mentre in Italia ci culliamo ancora nell’illusione dell’oggettività giornalistica – questa chimera che ci raccontiamo per non affrontare la verità delle nostre scelte – i colleghi americani ci mostrano cosa significa essere intellettualmente onesti: scegliere da che parte stare e dirlo apertamente. Non c’è niente di più trasparente del dichiarare le proprie posizioni, niente di più rispettoso verso i lettori del mostrare le proprie carte.

L’oggettività è un feticcio che abbiamo inventato per nascondere le nostre paure, un velo sottile dietro il quale mascherare le nostre convinzioni. Ma la verità è che ogni parola che scriviamo è già una scelta, ogni virgola è già una presa di posizione. E allora tanto vale avere il coraggio di ammetterlo.

Bezos, con la sua decisione di bloccare l’endorsement a Kamala Harris non ha solo tradito una tradizione: ha mostrato quanto il potere economico possa piegarsi al ricatto del potere politico. Ma ha anche, involontariamente, permesso ai suoi giornalisti di darci una lezione di dignità professionale che dovremmo appendere in ogni redazione italiana.

Forse il vero giornalismo non è quello che si nasconde dietro una presunta neutralità: è quello che ha il coraggio di dire “io sto qui” e di pagarne il prezzo.

 

Foto di Michael Fleischhacker – Opera propria, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=11161982

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La retorica dell’invasione e della guerra ai confini che infetta l’America e fa scuola in Italia – Lettera43

Negli Usa una squadra guidata da Tom Homan, che ha già un posto promesso nell’eventuale amministrazione Trump, alimenta la propaganda dell’emergenza continua e del tradimento dei dem. E nutrendo questa paura incassa anche come business man. Una tattica simile a quella di Salvini-Meloni coi migranti nel Mediterraneo. Dietro il falso allarme c’è sempre un guadagno.

La retorica dell’invasione e della guerra ai confini che infetta l’America e fa scuola in Italia

Nella grande fabbrica della paura americana c’è una nuova retorica: non più solo muri, non solo confini, ma un’ossessione rivestita di parole come «invasione» e «tradimento». Da un’inchiesta del collettivo internazionale giornalistico Lighthouse Reports sappiamo che negli Stati Uniti una squadra guidata da Tom Homan, ex direttore ad interim dell’Immigration and Customs Enforcement sotto Donald Trump, ha costruito una macchina ben oliata che alimenta il fuoco della propaganda. L’associazione “Border911”, travestita da fondazione senza scopo di lucro, alimenta la narrazione della «guerra al confine», e per loro, la minaccia non è più un’ipotesi: è una profezia auto-avverante, raccontata in diretta sui canali di destra e sul palcoscenico delle elezioni presidenziali.

La retorica dell'invasione e della guerra ai confini che infetta l'America e fa scuola in Italia
Tom Homan (Getty).

L’evoluzione del racconto della “frode elettorale”

Quello di Homan non è solo il racconto di una frontiera vulnerabile, ma di un’invasione manipolata da un governo complice: l’idea è che l’amministrazione Biden stia di proposito “aprendo le porte” ai migranti per alterare il voto e mantenere il potere. È la linea che guida i comizi di Homan e dei suoi alleati, che in questi mesi hanno girato gli Stati Uniti seminando dubbi sulle elezioni e preparando così il terreno per contestare il risultato elettorale di novembre 2024 se non dovesse sorridere a Trump. In fondo non è una strategia nuova: si tratta dell’evoluzione del racconto della “frode elettorale”, che inizia con l’assurda premessa di una democrazia venduta agli “illegali”.

Si viaggia sul doppio binario della paura e del profitto

È una macchina complessa, quella costruita da Homan e i suoi collaboratori, che viaggia sul doppio binario della paura e del profitto. “Border911”, con sede a Fredericksburg, in Virginia, opera su più livelli: come fondazione senza fini di lucro da un lato e come organizzazione di “dark money” dall’altro. L’assetto permette alla fondazione di eludere alcuni obblighi fiscali, mentre il denaro scorre da un’entità all’altra come un fiume oscuro, secondo documenti dell’Irs che evidenziano una gestione delle spese sospetta, quasi identica per entrambe le organizzazioni.

Melania Trump ha costretto suo marito, l’allora presidente Donald Trump, ad abbandonare una legge sull'immigrazione
Un comizio di Donald Trump di agosto a Sierra Vista, sul confine dell’Arizona con il Messico (Getty Images).

Un «nuovo 11 settembre» che minaccia l’integrità americana

Nel reticolo di “Border911” spuntano figure che aggiungono credibilità alla messinscena della “minaccia”: ex agenti federali, investigatori, volti noti dei canali di destra come NewsMax e Fox News. Gente come Rodney Scott, ex capo della Border Patrol, e Derek Maltz, ex agente della Dea, che ai microfoni del Congresso e ai meeting locali sfoderano la narrazione di un confine assediato, un «nuovo 11 settembre» che minaccia l’integrità americana. Al fianco di Homan c’è chi non disdegna il ritorno economico di questa retorica: le consulenze private di Scott e il software di sorveglianza che Maltz pubblicizza, già adottato da Ice e Dea, generano contratti miliardari proprio grazie a questa narrazione di emergenza continua.

Forze di polizia locali diventano sceriffi della frontiera

Il teatro di Homan non si limita a questo. In Arizona i legislatori repubblicani, ispirati da “Border911”, hanno già introdotto proposte per dichiarare formalmente una “invasione” e trasformare le forze di polizia locali in una sorta di sceriffi della frontiera. L’iniziativa si fonda su un vecchio istinto: prendersi il diritto di stabilire chi è dentro e chi è fuori dalla comunità, come se l’America non fosse altro che un fortino sotto assedio. Nella loro versione, ogni stato è una “frontiera”. E se i confini giuridici non bastano si può sempre dichiarare una “guerra”.

Migranti, droga e dazi: il Messico guarda al voto Usa e tifa Harris
Migranti davanti al muro al confine tra Messico e Usa (Getty).

Slogan, microfoni aperti e contratti multimilionari

La politica della paura si costruisce sui simboli. Alla conferenza di luglio a El Paso, Homan proclamava: «Milioni di persone nei prossimi censimenti saranno contati nelle città santuario», il che «creerà più seggi in Congresso per i democratici. Hanno venduto questo Paese, è quasi tradimento». L’audience applaude, perché ciò che risuona non è la verità ma la risonanza di un fantasma che si alimenta da sé. Nessun confine è “sicuro” nella sua visione, a meno che non sia una barricata, un muro: ma un muro fatto di slogan, di microfoni aperti, e di contratti multimilionari ai fedelissimi.

Pronta «la più grande forza di deportazione mai vista in America»

Trump, dal canto suo, sembra assecondare questo progetto senza batter ciglio. Ha già promesso un ruolo di punta a Homan nella sua ipotetica prossima amministrazione e la sua elezione pare far parte di un piano già scritto. «Trump torna a gennaio, e io sarò al suo fianco per comandare la più grande forza di deportazione che questo Paese abbia mai visto», dichiarava Homan. L’ex direttore Ice è abile nel giocare su due livelli: come difensore “patriottico” e come business man, che da un lato costruisce il mito dell’invasione e dall’altro incassa sui contratti federali che la giustificano.

Migranti, droga e dazi: il Messico guarda al voto Usa e tifa Harris
Il candidato vicepresidente repubblicano JD Vance al confine col Messico (Getty).

Certe retoriche sono entrate anche nel linguaggio italiano

Da questa parte dell’Atlantico i leader italiani guardano e imparano. Non è un caso che certe retoriche siano entrate anche nel nostro linguaggio, nei proclami che guardano al Mediterraneo come una minaccia e vedono nei migranti un’arma lanciata contro l’Europa. Alimentare il sospetto non è solo un’arte: è un investimento, una scommessa che paga bene. L’Italia e l’Europa, con i loro “patti” e le nuove forme di sorveglianza alle frontiere, si muovono sullo stesso piano inclinato: rendere l’invisibile tangibile, il pericolo imminente, giustificare lo stato d’emergenza con la paura del diverso, mentre i confini si fanno sempre più business. Così, nel grande teatro del mondo il copione di Homan si duplica, ispira nuovi attori e trova sostenitori in Italia e altrove, dove i confini sono aperti, sì, ma solo agli interessi di chi sa come far girare la macchina della propaganda. La “guerra” di Homan è un monito: per fermarla non basta chiudere le frontiere, serve disinnescare la retorica e svelare il guadagno dietro il falso allarme.

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La beffa del Canone Rai: il tributo torna a 90 euro e le Tv private ringraziano

Il taglio promesso del canone Rai per il 2025 non ci sarà. Nonostante le rassicurazioni, la nuova legge di Bilancio ha lasciato da parte la misura che doveva ridurre il canone da 90 a 70 euro, come era stato previsto per il solo 2024. Lo schema è chiaro: da una parte si assicura un “regalo” alle famiglie per addolcire il quadro dei rincari; dall’altra, senza clamore, si lascia decadere il beneficio, rientrando nei ranghi del solito bilancio statale. Ma chi beneficerà del mancato taglio?

Il dietrofront sul taglio del canone: una promessa a metà

In prima fila c’è Mediaset, il gigante mediatico della famiglia Berlusconi: il canone a 90 euro è la migliore garanzia che i tetti pubblicitari imposti alla Rai non verranno ritoccati al rialzo – con tutto ciò che ne deriverebbe in termini di concorrenza – per compensare un’eventuale riduzione del sostegno pubblico. Ma come mai Giorgia Meloni, che in passato tuonava contro l’obbligo di pagare un canone “sospetto”, ha deciso di mettere da parte un impegno di sconto al pubblico? Nel 2016, da battagliera leader dell’opposizione, Meloni criticava aspramente il canone in bolletta, vedendolo come una tassa per ingrassare quelli che chiamava “pseudo artisti” della Rai. Oggi, al contrario, sposa lo stop al taglio, facendo leva su un silenzio di governo di cui beneficia direttamente Mediaset, il concorrente per eccellenza della Rai, dimenticando le promesse ai cittadini.

La questione è anche economica. L’abolizione del canone è stata una promessa elettorale sventolata dalla Lega, e nel 2024 l’iniziativa di riduzione del canone Rai da 90 a 70 euro ha comportato un costo di 430 milioni di euro, coperto con altre voci di bilancio. Per il 2025, però, il governo non ha trovato quei soldi. Anzi, la questione è sparita dal Documento programmatico di bilancio 2025, anticipando una disillusione per milioni di italiani. Una scelta di cui la maggioranza parlamentare dovrà rispondere. Senza un emendamento che reintroduca il taglio, si torna ai 90 euro: una beffa per chi, forse ingenuamente, aveva sperato nella continuità di un governo che dichiara di avere a cuore i portafogli delle famiglie.

In fondo, il condono del taglio del canone Rai parla una lingua ben conosciuta. Invece di risparmiare, gli italiani si troveranno un costo in più tra le spese già appesantite. Dopo mesi di rincari energetici, il conto finale è pronto a scaricarsi sui consumatori. Secondo il Codacons, il mancato rinnovo costerà alle famiglie tra i 420 e i 430 milioni di euro nel 2025. Un rincaro che si fa sentire, e che cade su un tessuto sociale già provato da due anni di crisi energetica.

Mediaset e Rai: una concorrenza sempre più sbilanciata

Dunque, si può dire che le intenzioni del ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti – confermate pubblicamente appena dieci giorni fa – si siano sgretolate (come osserva Pagella Politica, ndr) davanti a una logica che, ancora una volta, se non ad avvantaggiare va quantomeno a non danneggiare le imprese private, come Mediaset, nella raccolta pubblicitaria. I silenzi di Meloni non lasciano spazio a dubbi: l’eliminazione del taglio del canone è una delle tante manovre economiche che flettono la schiena al volere di una certa economia televisiva tra pubblico e privato.

Resta una domanda: che fine hanno fatto le promesse? Forse lo stesso ministro dell’Economia, apparentemente “confermando” la misura qualche giorno fa, ne era consapevole. Ma il colpo di coda del governo Meloni sembra suonare come un monito a quanti si fidano delle parole di facciata. La politica di governo, in fondo, sembra ancora dominata dall’arte del fare “un po’ e un po’…”, il che, stavolta, coincide con una comoda spartizione dei vantaggi: al governo, un bilancio senza spese aggiuntive; a Mediaset, una Rai senza sconti che le impediscono di competere oltre un certo limite sul mercato pubblicitario.

Intanto, mentre la proposta della Lega per abolire il canone giace dimenticata in commissione Trasporti, gli italiani resteranno con il solito balzello.

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Il crollo del baluardo moderato in Europa: come il Ppe si è piegato ai sovranisti

Il Partito Popolare Europeo (Ppe), che da sempre si dichiara baluardo della moderazione, sembra ora essersi abbandonato a un gioco pericoloso di equilibrio tra potere e compromessi. La sua discesa verso la destra sovranista non è un semplice cambio di rotta ma un tradimento delle proprie radici. I segni erano già visibili: un Ppe che gioca la parte del custode della stabilità, mentre siede sempre più vicino a coloro che negano i fondamenti della democrazia liberale.

L’ambigua alleanza del Ppe con i sovranisti

Manfred Weber, lo stratega che guida il più grande gruppo politico del Parlamento europeo, sta tessendo una trama che oscilla tra i fili sottili del pragmatismo e del cinismo politico. La recente alleanza con l’ECR, il gruppo guidato da Giorgia Meloni, ne è la manifestazione più esplicita. Un corteggiamento sottile ma fin troppo visibile: da una parte, il Ppe finge di sostenere la coalizione di Ursula von der Leyen, dall’altra si avvicina a coloro che mettono in discussione i valori stessi dell’Unione europea. Come non ricordare l’opposizione della stessa Meloni alla riconferma della presidente della commissione? Eppure, oggi, quel dissenso sembra evaporato nel calore di accordi e compromessi dietro le quinte.

È emblematico il caso di Raffaele Fitto, un tempo figura centrale del Ppe, ora divenuto alleato dei sovranisti italiani e polacchi. Nonostante le sue posizioni, l’ex ministro italiano è stato difeso con zelo dai popolari, come se le vecchie alleanze personali valessero più delle ideologie attuali. Il messaggio è chiaro: in nome della convenienza politica, il Ppe è disposto a difendere chiunque, anche chi ora rappresenta l’opposto di ciò che il partito affermava di essere.

Un bilancio che segna la svolta a destra

Ma il vero campanello d’allarme è suonato durante il voto sul bilancio dell’Ue. Qui, il Ppe ha rotto ogni vincolo con i suoi alleati centristi e ha scelto di sostenere emendamenti proposti dall’AfD, un partito che rappresenta una delle espressioni più viscerali dell’estrema destra in Europa. Le politiche migratorie che l’AfD promuove, con la costruzione di centri di deportazione e barriere ai confini, sono state accolte dai popolari senza esitazione. Un’operazione da anima venduta per una manciata di voti.

Un tempo bastione della democrazia cristiana e della moderazione europea, i popolari ora si ritrovano a ballare sul filo teso tra il centro e l’estrema destra, con il rischio di cadere rovinosamente da entrambi i lati. Le recenti parole di Auke Zijlstra, deputato del gruppo Patriots for Europe, che festeggiava apertamente la collaborazione con il Ppe, sono un simbolo del declino. Il cordone sanitario che un tempo isolava l’estrema destra è stato smantellato e il Ppe ha scelto di accogliere i suoi nuovi alleati estremisti a braccia aperte.

Tutto questo sotto lo sguardo preoccupato di figure come Donald Tusk, che vede il suo partito trascinato in un gioco politico di cui fatica a riconoscere le regole. E se Tusk rappresenta l’anima moderata del Ppe, Weber è l’uomo delle contraddizioni, capace di stringere alleanze con chiunque possa garantirgli un posto al tavolo del potere.

In questo scenario, si delinea un futuro incerto per il Ppe e per l’Europa stessa. Se un tempo i popolari potevano essere considerati un garante della stabilità, oggi il loro ruolo appare più ambiguo che mai. Weber potrebbe credere di poter controllare il fuoco che ha acceso, ma la realtà politica insegna che il vento del sovranismo brucia tutto ciò che incontra. E in questo braciere, il Ppe rischia di consumare la sua stessa natura.

Così mentre i sovranisti festeggiano e brindano, l’Europa osserva preoccupata. Imbellettare l’estrema destra per avere i numeri che servono per governare è il modo migliore per aprirle le porte. Qui a Roma ne sanno qualcosa.

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Il grande bluff dei Cpr: milioni spesi per un rimpatrio su dieci

I Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) italiani rappresentano oggi uno dei capitoli più vergognosi della gestione migratoria. Il rapporto “Trattenuti 2024”, redatto da ActionAid e dal Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Bari, espone in dettaglio l’inutilità pratica e lo sperpero economico delle strutture così amate dal governo Meloni. Il bilancio è chiaro: a fronte di una spesa pubblica di quasi 39 milioni di euro solo negli ultimi due anni, i Cpr hanno prodotto un tasso di rimpatrio pari al 10%. Questo significa che solo una minima parte delle persone trattenute viene effettivamente espulsa, mentre il resto resta confinato in una sorta di limbo, con costi umani e finanziari altissimi.

Cpr, cifre da capogiro per un fallimento colossale

L’analisi dei dati raccolti da ActionAid dipinge uno scenario di caos amministrativo e finanziario: dai costi delle strutture come il Cpr di Roma Ponte Galeria, che supera i 6 milioni di euro tra il 2022 e il 2023, alle drammatiche inefficienze, come quella di Torino, chiuso dal marzo 2023 nonostante le spese milionarie per affitto e ristrutturazioni. I numeri del fallimento si ripetono: a Brindisi il costo annuo per posto supera i 71.500 euro, mentre a Macomer si arriva a spendere più per il vitto e l’alloggio delle forze dell’ordine a presidio del centro che per la gestione stessa.

Le ragioni dell’inefficacia dei Cpr vanno oltre la sola gestione economica. Come sottolinea Fabrizio Coresi, esperto di migrazioni di ActionAid, questi centri sembrano progettati non tanto per rimpatriare ma per trasformare i migranti in “criminali” agli occhi dell’opinione pubblica, ignorando il diritto d’asilo e riducendo la dignità dei trattenuti a una questione di numeri e posti disponibili. Le strutture detentive funzionano a meno della metà della loro capacità e spesso restano inutilizzabili a causa di danneggiamenti e rivolte provocate da condizioni di vita disumane, in cui autolesionismo e proteste sono all’ordine del giorno.

Un sistema che alimenta lo stigma e ignora i diritti umani

La Sicilia, con i suoi Cpr, è ormai diventata un “hub di trattenimento” per le procedure di frontiera, specialmente per i cittadini tunisini, grazie a un accordo bilaterale con la Tunisia. Questo sistema però si scontra con la realtà: nel 2023 i tunisini sono stati meno dell’11% degli arrivi complessivi in Italia, mentre l’85% dei rimpatri è stato riservato a loro, rendendo evidente l’assurdità di un sistema che isola e trattiene in frontiera solo una specifica nazionalità, lasciando irrisolto il quadro complessivo delle migrazioni.

Anche la trasparenza è una chimera: alcune strutture, come quelle di Gorizia, non hanno dati contabili disponibili. I gestori, spesso gli stessi da anni, continuano a vincere appalti nonostante il coinvolgimento in illeciti o scandali amministrativi. Questa continuità, denuncia Coresi, permette alle cooperative e ai soggetti for-profit di accumulare guadagni nonostante una cronica inadempienza degli obblighi contrattuali.

Il Decreto Cutro, con l’incremento della permanenza nei Cpr fino a 18 mesi, promette un ulteriore aggravio dei costi senza garanzie di efficienza. Il modello di trattenimento “leggero” dei richiedenti asilo in aree di frontiera si avvia ad estendersi in Albania, dove il governo italiano ha previsto centri di detenzione offshore, spostando all’estero le inefficienze e i costi di un sistema già fallimentare in Italia.

Alla luce di tutte queste criticità, emerge un paradosso: i Cpr, anziché facilitare i rimpatri, contribuiscono a un ingorgo burocratico che non risolve la questione migratoria, alimenta la spesa pubblica e compromette i diritti umani dei detenuti. La loro esistenza appare più una misura di facciata che una soluzione, mentre il governo fatica a giustificare un modello insostenibile, costoso e inefficace. Il grido “a casa!” è solo un costosissimo slogan. 

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È la solita Ue: due pesi e due misure

La “legittima difesa” dell’esercito di Israele ieri ha provocato l’uccisione e il ferimento di circa 150 civili effettuando un attacco aereo su un complesso residenziale nel campo profughi di Jabalia, nel nord della Striscia di Gaza. L’esercito israeliano avrebbe raso al suolo almeno 10 edifici. Nel frattempo l’Idf ha anche fatto irruzione nell’ospedale Kamal Adwan di Beit Lahia, anche qui nel nord della Striscia, dove sono intrappolate più di cento persone. L’irruzione è avvenuta il giorno dopo che i carri armati israeliani hanno bombardato il complesso dell’ospedale.

Il Kamal Adwan è uno dei pochi centri sanitari ancora operativi nel nord della Striscia. Un’altra carneficina nelle stesse ore a Khan Younis, dove sotto le bombe sono rimasti uccisi 38 civili di cui 14 bambini. In Libano si registravano altri attacchi dell’esercito israeliano contro le basi dell’Unifil e il bombardamento di una sede televisiva e di un edificio in cui si erano riparati diversi giornalisti locali con fuori le auto con la scritta ‘press’ sul tetto.

Almeno tre cronisti son rimasti uccisi. Nessun cenno, nemmeno mezza parola, è arrivato dal governo italiano. Silenzio tombale – nel senso letterale – anche dall’Europa. L’Ue ieri ha però minacciato sanzioni contro la Georgia nel caso in cui alle elezioni di domani vincesse il partito di governo filorusso. È l’amorale atteggiamento dei due pesi e due misure: prevenire in un caso e fingere di non vedere nell’altro.

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Sgarbi inciampa sull’arte e sulla sua stessa vanità

Vittorio Sgarbi, critico d’arte dall’eloquio infuocato e dai gesti teatrali, si trova oggi dall’altra parte della tela: accusato di possedere e aver contraffatto un dipinto del Seicento rubato, un’opera di Rutilio Manetti, “La cattura di San Pietro”. Un quadro che dal castello piemontese di Buriasco sparì nel 2013, per riapparire anni dopo, sorprendentemente, proprio in una mostra di Sgarbi a Lucca, in una versione “inedita”, con una torcia aggiunta nell’angolo in alto a sinistra. Una variazione di pennello che ha sollevato sospetti, tramutatisi presto in indagini. Per quell’opera, che secondo la procura di Macerata sarebbe stata “taroccata” e riciclata, il critico rischia fino a 12 anni di carcere per riciclaggio e contraffazione.

Ma c’è di più: la confessione del pittore-copista Pasquale Frongia, detto Lino, che ammette di aver alterato l’opera su richiesta dello stesso Sgarbi, aggiunge peso all’accusa. A incastrarlo anche una traccia quasi ironica: un tubetto di tempera trovato in una delle sue case, comprato a pochi passi dal Collegio Romano, lì dove Sgarbi lavorava da sottosegretario alla Cultura. Così, mentre lui insiste che quel quadro l’ha trovato in soffitta “già così com’era” il mistero si infittisce.

Ecco l’amara ironia: l’uomo che si è sempre fatto paladino della purezza artistica e della verità storica, sembra aver “restaurato” un’altra storia, la propria. Un ritratto poco lusinghiero di un critico d’arte che, cadendo nella sua stessa vanità, rischia di finire prigioniero di un inganno non solo per i giudici ma anche per quell’arte che dice di perorare.

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