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Il trucco dei numeri: Gimbe svela l’illusione dei fondi sanitari del governo Meloni

La manovra finanziaria 2025 presentata dal governo Meloni ha ricevuto una dura analisi da parte della Fondazione Gimbe, che ha denunciato l’insufficienza delle risorse destinate alla sanità, evidenziando un “trucco dei numeri” che sembra illudere sulla reale entità degli investimenti. Secondo Gimbe, i fondi destinati al Fondo Sanitario Nazionale (FSN) risultano infatti “fuorvianti”: i 5,8 miliardi previsti per il 2026, i 5,7 per il 2027 e gli oltre 1,3 miliardi annunciati per il 2025 vengono cumulati, nascondendo il reale stanziamento annuale, che è in realtà molto inferiore rispetto alle promesse diffuse dall’Esecutivo.

Promesse e realtà: il trucco dei numeri spiegato da Gimbe

Il presidente della Fondazione, Nino Cartabellotta, ha evidenziato come l’incremento di 1,3 miliardi nel 2025 risulti del tutto inadeguato a coprire le necessità urgenti del Servizio Sanitario Nazionale (SSN), sottolineando che queste risorse sono principalmente assorbite dai rinnovi contrattuali del personale, non certo dagli investimenti strutturali di cui il SSN ha bisogno. La manovra, pertanto, lascia ben poche speranze sul fronte del rafforzamento delle strutture e del personale, con le risorse per le nuove assunzioni di medici e infermieri rinviate a un futuro non meglio precisato. L’aggiornamento delle tariffe per le prestazioni acute e post-acute, pur essendo un passo avanti, partirà solo nel 2026, così come le modeste risorse destinate ai Livelli Essenziali di Assistenza (LEA), ormai bloccati da quasi un decennio e che non sembrano poter cambiare marcia.

In questo quadro desolante, Gimbe non esita a porre le Regioni davanti a un vero e proprio bivio: queste, per rispettare gli obiettivi del governo, dovranno scegliere tra la riduzione dei servizi sanitari o l’aumento dell’addizionale IRPEF. Con un FSN vincolato a incrementi modesti, le Regioni si troveranno costrette a operare drastici tagli ai servizi, aumentando di fatto le disparità territoriali e il divario tra Nord e Sud. Le Regioni, già provate da bilanci in affanno, potrebbero vedersi obbligate a “tirare la coperta troppo corta” a scapito dei cittadini. Nel 2026, ad esempio, a fronte di un aumento del FSN di oltre 4 miliardi, sono previste misure per un totale di 2,3 miliardi che, senza adeguati finanziamenti, si tradurranno in obiettivi disattesi, alimentando un cortocircuito economico che vede ancora una volta penalizzato il settore sanitario.

Sanità regionale in crisi: le Regioni al bivio

La manovra include, inoltre, anche misure aggiuntive, come il fondo per le dipendenze comportamentali giovanili, il contrasto alle patologie derivanti da dipendenze, e l’incremento delle indennità per specifiche categorie sanitarie, come il personale di pronto soccorso e gli infermieri. Tuttavia, la Fondazione denuncia che questi interventi, per lo più operativi solo dal 2026, saranno esigibili in minima parte, lasciando scoperte le attuali esigenze dei cittadini e del personale sanitario. Cartabellotta parla di una “cosmesi sul FSN” che tradisce ampiamente i proclami dell’Esecutivo e descrive una politica che, ancora una volta, sottovaluta il tema cruciale della salute pubblica, lasciando il SSN in una situazione di precario equilibrio, laddove invece ci sarebbe bisogno di una vera e propria riforma strutturale. 

Gimbe conclude la sua analisi mettendo in evidenza quattro punti critici che risultano centrali per comprendere la reale portata della manovra finanziaria. Innanzitutto, sottolinea il modesto incremento del FSN nel 2025, con un reale aumento di appena 1,3 miliardi rispetto ai 3,5 miliardi annunciati: una cifra modesta che non risponde alle esigenze di un sistema sanitario già messo alla prova dalla pandemia e che continua a faticare per recuperare il terreno perso negli ultimi anni.

In secondo luogo, l’analisi rimarca come l’unico reale incremento di risorse sia previsto solo nel 2026, una decisione che appare paradossale e illogica, soprattutto alla luce delle necessità attuali, che vedono una sanità sempre più in affanno. Questo incremento, atteso per il 2026, non risponde a un piano di crescita programmata e sostenibile, ma appare come una mossa isolata in un contesto che manca di una visione a lungo termine.

Il terzo punto critico evidenziato riguarda la dispersione delle risorse in un numero eccessivo di micro-finanziamenti, senza una chiara strategia di rilancio per il SSN. Le risorse appaiono diluite in una serie di misure, che sebbene siano necessarie, non trovano un sostegno sufficiente e sembrano condannate a restare prive di un’efficacia concreta. In questo modo, il Governo sembra adottare una (non) strategia che, alla fine, finirà per mettere le Regioni davanti a un bivio: tagliare i servizi o aumentare le tasse locali, in un contesto già gravato dalle difficoltà economiche e sociali che ogni Regione vive. Si tratta di una scelta che, alla fine, ricadrà sulla pelle dei cittadini, che vedranno ancora una volta compromessi i propri diritti alla salute.

Infine, il quarto punto della Fondazione riguarda la mancanza di progressività nel finanziamento del SSN. Nonostante le numerose promesse, non si intravede alcun rilancio progressivo del finanziamento pubblico, che dopo la “fiammata” del 2026 torna a cifre da “manutenzione ordinaria” dell’era pre-pandemica. È evidente come la sanità pubblica sia oggi la vera emergenza del Paese, ma, come sottolineato dalla Gimbe, le scelte politiche sembrano seguire inesorabilmente la strada tracciata negli ultimi 15 anni: tutti i Governi che si sono succeduti hanno definanziato il SSN, senza che nessuno riuscisse ad attuare un piano di rilancio del finanziamento pubblico, che potesse accompagnarsi a una stagione di riforme coraggiose, indispensabili per ammodernare e riorganizzare la più grande opera pubblica del Paese.

Alla fine, conclude Gimbe, si tratta di un vero e proprio tradimento dei principi sanciti dall’art. 32 della Costituzione, che definisce la tutela della salute come un diritto fondamentale dell’individuo.

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Veleni e spacconate, ma Trump vede la Casa Bianca vicina

Donald Trump tira la volata in vista delle elezioni. E come sempre non è silenzioso, non è discreto. Come un tuono che rotola su un paesaggio già devastato, il magnate della politica statunitense punta ancora una volta alla Casa Bianca. Ma questa volta il suo palcoscenico non è solo quello del populista carismatico che promette di “fare l’America di nuovo grande”. Ora Trump è il simbolo di qualcosa di più oscuro, qualcosa di più complesso. È il fulcro di accuse, polemiche, e una narrazione che abbraccia tanto il fascino del potere quanto il cinismo della corruzione morale.

L’ex modella Stacey Williams ha recentemente sollevato un nuovo capitolo nelle accuse che perseguitano Trump, dichiarando che nel 1993 il magnate l’aveva molestata alla Trump Tower, in compagnia di Jeffrey Epstein. Le accuse non sono nuove: il nome di Trump è stato più volte associato a episodi di abuso sessuale, con Epstein che funge da figura di collegamento in questa rete di violenza e potere. La campagna di Trump ha immediatamente negato le accuse, descrivendo Williams come un’ex attivista di Obama, ma è proprio questo tipo di difesa—ridurre tutto a una questione politica—che evidenzia quanto il gioco sia corrotto.

Il ritorno del salvatore o il trionfo del caos?

Da Duluth a Las Vegas, Trump continua a riempire le piazze. I suoi discorsi non sono cambiati: parole taglienti, slogan ripetitivi, una narrazione apocalittica in cui l’America è sotto attacco e solo lui può salvarla. A Duluth, Georgia, ha attaccato Kamala Harris, definendola una minaccia per la democrazia. Ma dietro l’insulto c’è la paura, quella paura che trasforma ogni elezione in una battaglia per la sopravvivenza. Trump è riuscito a far credere ai suoi elettori che senza di lui l’America sarebbe perduta. E così, il pubblico non si limita a sostenerlo; lo venera, lo eleva a figura messianica, un salvatore contro le forze oscure del liberalismo e del socialismo.

Eppure, nel 2024, Trump non è solo un candidato in cerca di rivincita politica. È una figura profondamente divisiva, capace di polarizzare l’intero tessuto sociale americano. Mentre la campagna elettorale prosegue, i sondaggi mostrano un vantaggio sottile ma significativo su Kamala Harris. Gli elettori sembrano dimenticare, o forse scegliere di ignorare, i segni evidenti di un uomo che ha giocato con la democrazia come fosse un suo diritto esclusivo.

Nel suo discorso a Duluth, Trump ha parlato di un’America che “rivivrà l’età dell’oro” sotto il suo governo. Ma quale età dell’oro? Quella in cui i lavoratori stranieri vengono espulsi in massa e l’economia agricola americana rischia di collassare? O forse quella in cui l’industria manifatturiera tedesca teme le conseguenze economiche di un secondo mandato di Trump?

L’immigrazione, il tema che Trump cavalca con maggiore fervore, è il perno attorno al quale ruotano gran parte delle sue politiche. Ma mentre si fa vanto delle sue proposte di deportazione di massa, nessuno sembra voler affrontare le reali conseguenze di una tale stretta. L’industria lattiero-casearia americana, già in difficoltà, ne uscirebbe distrutta. E i prezzi del latte? Salirebbero a livelli inimmaginabili. Ma queste preoccupazioni sono irrilevanti quando la narrazione è focalizzata su un’America bianca e cristiana, un’utopia che Trump promette di realizzare.

Le conseguenze di una politica del terrore

D’altra parte, Kamala Harris, la sua rivale democratica, non è stata tenera con lui. Lo ha definito “un pericolo per l’America” e persino “un fascista”. Le sue parole trovano eco tra gli elettori democratici ma sono accolte con una freddezza gelida tra coloro che credono ancora in Trump. Harris cerca di posizionarsi come alternativa al caos ma non riesce a sfuggire all’ombra di Biden e il suo messaggio, seppur potente, sembra non riuscire a raggiungere il cuore di una nazione esausta dalle guerre culturali.

Trump, intanto, continua a incarnare quel mix di arroganza e vittimismo che lo ha reso celebre. Parla di una “caccia alle streghe”, si presenta come l’eroe di una battaglia contro un sistema corrotto, anche se lui stesso ne è stato il più grande beneficiario. Come un attore consumato, Trump sa esattamente quale copione recitare, sa dove colpire e come far leva sulle paure e le speranze di un’America divisa.

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Solo come un fesso

“Magistrato militante e corrotto spero che qualcuno ti spari molto presto, sarà un giorno di gioia e festa”. E ancora: “la toga rossa Albano fa politica e non fa trattenere i clandestini in Albania”.

Sono decine di messaggi arrivati nella casella di posta della giudice Silvia Albano, uno dei sei magistrati della Sezione specializzata sui Diritti della persona ed immigrazione del Tribunale di Roma che si sono espressi nei giorni scorsi sui provvedimenti di trattenimento in Albania. 

I molto furbi hanno pensato che fosse una buona idea minacciare di morte via mail, con la solita insipienza dei violenti infoiati da questo clima destrorso. 

Albano si aggiunge ai pubblici ministeri del processo Open Arms, in cui è imputato il vice presidente del Consiglio Matteo Salvini, che si sono visti assegnare la scorta per le minacce di alcuni esagitati di cui non è nemmeno troppo difficile immaginare la provenienza politica. 

Lo “scontro tra politica e magistratura” che ha tenuto banco per qualche giorno sulle prime pagine dei giornali non è solo uno sfilacciamento dell’equilibrio democratico di uno Stato. Quando il potere così violentemente scredita qualcuno lo indica come bersaglio agli arrapati violenti che in questi anni sono stati nutriti dalle bestie social di qualche leader mistificatore.

Così gli elettori pompati dalla propaganda truculenta si convincono che sia cosa buona e giusta difendere il proprio leader minacciando di morte il nemico del giorno. Quello denuncia, il leader controvoglia esprime solidarietà per il minacciato e l’elettore rimane incastrato in una bella denuncia irrimediabilmente solo. Come un fesso tradito. 

Buon venerdì. 

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La spunta il Parlamento Ue, Rivellini deve restituire 250mila euro a Strasburgo

Crescenzio Rivellini è stato europarlamentare nelle file del Partito popolare europeo dal 2009 al 2014, eletto con il Popolo della libertà (poi diventato Forza Italia) e infine approdato a Fratelli d’Italia. Rivellini si è visto definitivamente respingere il suo ricorso alla giurisdizione europea.

La sentenza (della quinta sezione del Tribunale del Lussemburgo pronunciata il 23 ottobre scorso) ha confermato che dovrà restituire 252.321,88 euro al Parlamento europeo, come avevamo già dato conto su La Notizia quando raccontammo del contenzioso aperto con l’organo elettivo dell’Ue di cui si occupò anche Politico.eu. Quei fondi, destinati a sostenere la sua attività parlamentare, finirono nelle casse di “una società unipersonale a responsabilità limitata” della quale “unica socia” risultava Bianca D’Angelo, per un certo periodo, sua assistente e compagna.

Come rilevato nella sentenza, infatti, Rivellini “non ha confutato, nella sua denuncia, la constatazione dei questori secondo cui intratteneva una relazione sentimentale e stabile” con la donna, “come attestava nel suo libro intitolato Non faccio nomi… solo cognomi, pubblicato sul proprio sito internet”. E nel quale afferma “espressamente” che “durante l’anno 2009”, D’Angelo “era lacompagna della (sua) vita da dieci anni”.

L’indagine amministrativa dell’Ufficio antifrode

Il Tribunale, che ha anche condannato Rivellini alle spese di giudizio, ha confermato la restituzione, a suo carico, di quei circa 250mila euro. Finiti sotto la lente dell’Ufficio europeo per la lotta antifrode (Olaf) e al centro di “un’indagine amministrativa concernente le indennità di assistenza parlamentare pagate dal Parlamento per il contratto” all’assistente “e i contratti controversi conclusi con la società”.

L’8 agosto 2019 l’Olaf ha trasmesso al Parlamento la sua relazione finale, concludendo che l’impiego dell’assistente “presso il ricorrente (Rivellini, ndr) era fittizio” dal momento che D’Angelo “non si era trasferita a Bruxelles (Belgio) né aveva fornito la prova di qualsivoglia lavoro in qualità di assistente parlamentare”. L’Olaf ha anche rilevato che la donna, “allorché era ancora assistente parlamentare”, aveva “omesso di dichiarare, in quanto attività esterna, i servizi forniti alla sua società”.

Ergo, sempre secondo l’Olaf, Rivellini si sarebbe trovato “in una situazione di conflitto di interessi quando ha concluso i contratti controversi”. Di qui l’avvio della procedura di recupero degli oltre 250mila euro: 32.314,34 per l’assunzione dell’assistente parlamentare e 220.007,04 in esecuzione dei contratti controversi.

Un lungo braccio di ferro legale con l’Europa

Per anni Rivellini ha cercato di opporsi alle richieste di Bruxelles, appellandosi e respingendo ogni addebito, mentre la sua pensione europea (1.615,22 euro mensili) veniva decurtata, ma non sotto i 1.000 euro (come prevede la legge italiana), per rifondere il Parlamento europeo della somma indebitamente percepita. Il Tribunale ha infatti respinto anche l’estremo tentativo del ricorrente di farsi ridurre la trattenuta mensile da 615,22 euro a 123,04 euro. Insomma, la sentenza dei giudici europei non lascia dubbi: dopo una battaglia legale durata anni, l’ex eurodeputato Rivellini dovrà rifondere il Parlamento Ue.

Intanto Bianca D’Angelo, l’assistente parlamentare “fittizia” di cui si parla nella sentenza è tornata alla ribalta durante la presentazione in grande stile del ministro Matteo Salvini a Napoli, quando lo scorso aprile l’ha accolta come membro del gruppo della Lega nel Consiglio comunale. Sul palcoscenico Salvini applaudiva, D’Angelo sorrideva. Rivellini era in prima fila, ma dopo la sentenza del Tribunale del Lussemburgo non gli resta molto da festeggiare.

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Prestiti garantiti dallo Stato ai clan, commissariata Banca Progetto

Banca Progetto, la banca digitale milanese nota per la cessione del quinto e il supporto alle PMI, è finita sotto amministrazione giudiziaria. Dieci milioni di euro sono stati concessi a società legate alla ‘ndrangheta, con garanzie statali previste dal Fondo Centrale di Garanzia, un sostegno destinato all’economia in crisi durante la pandemia e il conflitto russo-ucraino. Ma quei soldi invece di risollevare il tessuto economico, sono finiti direttamente nelle mani della criminalità organizzata. L’accusa è chiara: elusi i protocolli antiriciclaggio, favorendo imprenditori legati a clan mafiosi e traferendo il rischio d’insolvenza sullo Stato.

Prestiti milionari ai clan: la rete criminale tra banche e Stato

Le indagini, coordinate dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Milano, hanno portato a galla un sistema marcio e opaco, dove le verifiche sui clienti sono state del tutto trascurate. Nonostante gli ispettori di Banca d’Italia avessero rilevato già tra il 2021 e il 2022 “gravi criticità”, l’istituto ha continuato a concedere prestiti a società che, secondo l’inchiesta, erano pienamente inserite in dinamiche mafiose. Le società, riconducibili a soggetti legati ai clan, hanno ricevuto tra il 2019 e il 2023 finanziamenti per oltre 10 milioni di euro. Il clan, attivo nella provincia di Varese, è noto per reati fallimentari, tributari e trasferimenti fraudolenti di valori, tutti con l’aggravante del metodo mafioso.

I magistrati della Sezione misure di prevenzione del Tribunale di Milano non hanno usato mezzi termini: l’operato di Banca Progetto è stato “agevolatorio” verso il sodalizio criminale, contribuendo all’arricchimento della ‘ndrangheta con fondi pubblici. Un modus operandi “opaco e discutibile”, che ha ignorato i principi basilari della normativa antiriciclaggio e ha alimentato l’economia mafiosa, come evidenzia il decreto firmato dai giudici Pendino, Cucciniello e Profeta. La banca ha così trascurato qualsiasi forma di prevenzione, anche di fronte alle sollecitazioni della Banca d’Italia e dell’Unità di Informazione Finanziaria (UIF).

Uno dei casi più eclatanti riguarda un prestito da 3,5 milioni di euro, erogato il 10 febbraio 2023, mesi dopo i richiami di Banca d’Italia. L’indagine ha rivelato che Banca Progetto ha continuato a concedere crediti a società riconducibili a soggetti legati ai clan anche dopo l’arresto di uno di essi nel marzo dello stesso anno. “Sarebbe bastata una semplice verifica del mio nome” ha dichiarato il titolare durante un’udienza. Ma la banca ha ignorato anche questo, erogando prestiti a società legate all’imprenditore attraverso intermediari che, formalmente, non avevano nulla a che fare con lui.

Non si tratta di errori isolati o di singole disattenzioni. La documentazione raccolta dalla Guardia di Finanza di Milano ha dimostrato che il sistema era sistematico e continuativo. Banca Progetto ha deliberatamente ignorato i controlli necessari, trattando con faciloneria pratiche di finanziamento che avrebbero dovuto far scattare immediatamente campanelli d’allarme. Invece, come sottolineano i giudici, l’istituto ha messo in atto una politica aziendale orientata esclusivamente alla massimizzazione del profitto, lasciando che la criminalità organizzata accedesse a fondi statali senza alcun freno.

L’amministrazione giudiziaria, decisa dal Tribunale, affiancherà per un anno il management interno della banca. L’obiettivo è verificare le procedure e creare modelli organizzativi in grado di prevenire situazioni simili in futuro. Ma la vera domanda rimane: in un sistema economico sempre più digitalizzato, come può una banca che dovrebbe garantire sicurezza e trasparenza diventare così vulnerabile alla criminalità organizzata 

Controlli ignorati e procedure eluse: l’indagine della DDA

L’indagine ha portato alla luce la permeabilità di un settore che, sulla carta, dovrebbe essere blindato. La normativa antiriciclaggio è chiara e stringente ma la sua applicazione, come dimostra il caso di Banca Progetto, non sempre lo è. La ‘ndrangheta è riuscita a infiltrarsi in circuiti finanziari protetti da garanzie statali, e lo ha fatto con la complicità di chi avrebbe dovuto vigilare e controllare. L’assist ai clan è stato netto e il denaro, come affermano i giudici, è stato “cannibalizzato” dalla criminalità, con la beffa che quei soldi provenivano direttamente dalle casse dello Stato.

È così che la mafia continua a banchettare, in silenzio, mentre il dibattito pubblico sembra aver dimenticato la sua esistenza. Si preferisce parlare di altro, si preferisce non usare la parola “mafia”, come se non nominarla potesse cancellarla. Ma intanto loro, i clan, si infilano nei varchi lasciati aperti, si appropriano dei fondi destinati alle imprese in difficoltà e trasformano le banche in strumenti di riciclaggio. 

Banca Progetto non è il primo caso e, purtroppo, difficilmente sarà l’ultimo. E mentre i palcoscenici politici si concentrano su temi più immediati, la mafia resta lì, nascosta, ma ben presente. E soprattutto, banchetta.

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Altro schiaffo al governo sulla cannabis light

La crociata del governo Meloni contro la cannabis light si infrange ancora una volta contro il muro della realtà. Il Tar del Lazio ha confermato la sospensione del decreto del ministero della Salute che, con un colpo di mano a base di proibizionismo, aveva tentato di classificare il Cbd come sostanza stupefacente. Una decisione che sa di schiaffo sonoro all’ennesimo tentativo ideologico di questo esecutivo di fare guerra alle windmill del nemico immaginario. Ma si sa, quando l’ideologia prevale sulla scienza, quando la propaganda sovrasta il buonsenso, quando il pregiudizio offusca la ragione, il risultato è sempre lo stesso: una figuraccia. Perché il Cbd non è una droga, non lo è mai stato, e questo lo sanno tutti. Lo sa l’Europa che ne permette la commercializzazione, lo sanno gli esperti che ne attestano l’assenza di effetti psicoattivi, lo sa persino il professor Ciallella, ex direttore dell’istituto di medicina legale della Sapienza, che lo ha messo nero su bianco.

Eppure il governo insiste, accanendosi contro un settore che dà lavoro a migliaia di persone, che rappresenta un’opportunità di sviluppo per le aree rurali, che potrebbe essere un volano per l’economia agricola italiana. E mentre il Tar ricorda al governo che le leggi devono basarsi su evidenze scientifiche e non su pregiudizi ideologici, l’esecutivo prepara già la prossima offensiva con il Ddl Sicurezza, l’ennesimo tentativo di criminalizzare un settore legale e produttivo. Un accanimento terapeutico contro il buonsenso che sta diventando la cifra distintiva di questo governo. Ma la realtà, ancora una volta, si prende la sua rivincita. E non c’è decreto o emendamento che tenga quando i fatti sono più testardi delle ideologie.

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Antimafiaduemila intervista Giulio Cavalli sui centri di deportazione in Albania

Ritengo i centri costruiti in Albania, in tutto e per tutto, dei centri di deportazione”. È netto il giudizio del giornalista e scrittore Giulio Cavalli sui centri per migranti fatti costruire dal governo Meloni (per i quali sono stati messi a bilancio 700 milioni di euro) in accordo con Tirana. “I centri per i rimpatri sono dei buchi neri, anche dal punto di vista della legittimità legale, lasciando perdere la legittimità umanitaria; quella penso che nessuno abbia il coraggio minimamente di avvicinare a una visione umanitaria di trattamento di persone. Anche in Italia sono forieri di morti, di violenze e soprattutto di illegalità diffusa”, ha spiegato. “Il gioco sporco della politica”, ha poi puntualizzato Cavalli, “non l’ha fatto solo il governo Meloni; l’hanno fatto governi di tutti i colori, già con il ministro Marco Minniti nel 2017.” Secondo il giornalista, “c’è una componente politica non solo italiana, ma che attraversa tutta l’Europa e che in questi giorni si prepara alle battute finali della campagna elettorale degli Stati Uniti, ed è convinta che si possa far scomparire un certo tipo di persone. E promette ai suoi elettori di poterli fare scomparire.” Questa componente si scaglia contro chiunque si opponga, anche in forza del diritto, alle decisioni delle forze politiche, come i giudici, per esempio. Su questo aspetto, Cavalli ha commentato il grido al complotto lanciato dalla maggioranza rispetto alla decisione del Tribunale di Roma di far rientrare in Italia i primi 16 migranti mandati nei centri in Albania. “Questo è un governo che ha evidenti problemi con la legge; del resto, è il figlioccio di un presidente del Consiglio che ha utilizzato la politica come legittima difesa dai tribunali e che ha utilizzato la politica per suggellare un patto con Cosa Nostra. Evidentemente, il gene dell’illegalità simpatica è passato anche a questi suoi figliocci che ci ritroviamo oggi al governo”. Oltre al tema, attualissimo, delle politiche migratorie e dell’insofferenza della maggioranza all’indipendenza della magistratura, si è parlato anche di bavaglio alla stampa e dell’evoluzione delle mafie, specialmente al Nord Italia. In particolare si è parlato dell’unitarietà delle mafie (Cosa nostra, ‘Ndrangheta e Camorra romana) in Lombardia emersa dall’inchiesta Hydra della Dda di Milano. “Questo dimostra che la criminalità organizzata è stata molto brava ad attuare l’autonomia differenziata, molto meglio di Calderoli (ministro per gli affari regionali, ndr)”, è il commento di Cavalli (per 15 anni sotto scorta per aver denunciato il crimine organizzato). “Questa inchiesta ci racconta che mentre noi stiamo a interrogarci sulle parole che abbiamo usato fino a ieri sulle mafie, le mafie oggi sono già un’altra cosa”. 

Profilazione razziale dalle forze dell’ordine, un decennio di richiami ignorati

Le critiche rivolte all’Italia per episodi di discriminazione razziale non rappresentano una novità. Ogni tanto un rapporto internazionale riporta l’attenzione su un fenomeno che, sebbene noto, non è mai stato affrontato con la serietà necessaria. Il recente rapporto del Consiglio d’Europa, che denuncia la persistente discriminazione razziale da parte delle forze dell’ordine italiane, è solo l’ultimo di una lunga serie di richiami che a partire da oltre un decennio fa, continuano a segnalare irregolarità mai risolte.

Un decennio di richiami ignorati: il fallimento delle riforme

Come ricorda Pagella politica già nel 2012 il Comitato europeo per la prevenzione della tortura aveva sottolineato abusi legati alla profilazione razziale e all’uso sproporzionato della forza durante gli arresti, in particolare contro migranti e minoranze etniche. Quelle osservazioni furono seguite da altre, nel 2015 e nel 2017, quando il Comitato delle Nazioni Unite per l’eliminazione della discriminazione razziale (CERD) evidenziò come la polizia italiana continuasse a ricorrere a pratiche di profilazione etnica, soprattutto nelle aree ad alta densità di immigrazione. Nella maggior parte dei casi, queste segnalazioni non portarono a cambiamenti significativi, lasciando le stesse problematiche in sospeso.

A questi rapporti si sono aggiunte altre denunce, come quelle contenute nel documento del 2019 stilato dal Gruppo di esperti contro la discriminazione razziale del Consiglio d’Europa (ECRI), che riprendeva i temi già sollevati in passato. Eppure, nonostante le numerose sollecitazioni, le autorità italiane hanno tardato nell’attuare riforme concrete per evitare ulteriori violazioni. È evidente che il problema non si limita a singoli episodi (e a singoli governi): si tratta di una questione strutturale che ha bisogno di un intervento di più ampio respiro.

Il rapporto del 2021 del Consiglio d’Europa, che fa parte di questa lunga sequela di segnalazioni, ha ribadito come la Polizia italiana non abbia fatto passi in avanti significativi per evitare comportamenti discriminatori, soprattutto in contesti di controllo dei documenti e di ordine pubblico. Anche Amnesty International ha più volte denunciato le irregolarità nell’operato della Polizia italiana, sottolineando come i soggetti più colpiti siano sempre le persone di origine africana, i rom e altre minoranze etniche. La maggior parte di questi rapporti richiama anche l’assenza di un monitoraggio adeguato e trasparente sulle operazioni della Polizia, una lacuna che rende difficile quantificare con precisione l’impatto delle pratiche discriminatorie.

Discriminazione radicata: una questione strutturale

Un’altra importante raccomandazione, risalente al 2014, è quella del Comitato contro la tortura dell’ONU, che ha sottolineato la necessità di creare un meccanismo di controllo indipendente per monitorare i comportamenti delle forze dell’ordine. Anche questa proposta è rimasta inattuata. Nel 2018, il CERD ha nuovamente richiamato l’Italia, specificando che, senza un intervento legislativo chiaro e una formazione adeguata, sarebbe stato difficile interrompere il ciclo di violenza e discriminazione all’interno delle istituzioni di sicurezza.

Se questi rapporti condividono una cosa, è la loro capacità di far emergere un ritratto inquietante della Polizia italiana, in cui la discriminazione razziale sembra ormai radicata. Come evidenziato in un rapporto del 2020 dell’European Union Agency for Fundamental Rights (FRA), gli episodi di violenza e abuso di potere da parte delle forze dell’ordine non sono solo sintomatici di un problema italiano ma rivelano una questione più profonda: la mancanza di volontà politica per riformare efficacemente le forze di polizia. Questo ha portato a un circolo vizioso in cui le stesse raccomandazioni si ripetono, senza mai essere seguite da azioni concrete.

Il recente rapporto del Consiglio d’Europa del 2023 non fa altro che riaffermare ciò che era già chiaro.  Le testimonianze di discriminazione razziale non si fermano alle strade, ma proseguono all’interno delle carceri italiane, come abbiamo raccontato qui su La Notizia il razzismo diventa parte integrante del trattamento riservato ai detenuti di origine straniera, spesso soggetti a violenze e trattamenti inumani. Anche qui, i richiami da parte delle organizzazioni internazionali, come l’ONU e il Consiglio d’Europa, non sono mancati, ma l’azione concreta si fa attendere.

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Maysoon Majidi, scafista in un bicchiere d’acqua

Maysoon Majidi è nata in Iran. Nel 2019 con suo fratello scappa nella Kurdistan iracheno per sfuggire a un mandato di arresto. La sua colpa I diritti. Ci sono Paesi in cui la difesa dei diritti costa nel migliore dei casi il carcere e nel peggiore la vita. 

In Iraq persevera nel suo impegno, con l’associazione Hana. Quando non le viene rinnovato il permesso di soggiorno capisce subito che sarebbe stata un boccone prelibato per gli sgherri iraniani di Ali Khamenei. Decide di partire. Attraverso la Turchia fino alle coste del crotonese. 

Sulle coste crotonesi insieme ad alcuni compagni di sventura attracca in un Paese – il nostro – con l’ossessione di scovare scafisti in tutto l’orbe terraqueo. Così basta che alcune persone delle forze dell’ordine traducano poco e male le testimonianze dei suoi compagni di viaggio per essere accusata di essere l’aiutante del capitano, quindi scafista anche lei. 

La prova regina sarebbe che Majidi distribuiva acqua durante il viaggio, evitando che i migranti venissero cotti dal sale e dal sole. Ci vuole una gran fantasia per convincersi che una donna a rischio della propria vita per la difesa dei diritti umani decida di arruolarsi nella criminalità organizzata per qualche spiccio da guadagnare con una traversata. 

Il 31 dicembre dell’anno scorso viene arrestata e sbattuta in carcere. Lei reclama la sua innocenza, arriva a pesare 38 chili per uno sciopero della fame. Più della condanna teme ovviamente il rimpatrio in Iran. 

Dopo quasi 11 mesi ieri il tribunale di Crotone ha accolto l’istanza del suo avvocato e Maysoon Majidi ha potuto dormire da donna libera, in attesa della sentenza di assoluzione che dovrebbe arrivare il 27 novembre. Ah, gli scafisti. 

Buon giovedì. 

Foto dalla pagina facebook Maysoon Majidi

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Italia e Austria in pressing per inserire la Siria nell’elenco dei Paesi sicuri

Inserire la Siria nell’elenco dei paesi sicuri. No, non è l’inizio di una barzelletta ma l’ultima trovata di Italia e Austria che vorrebbero riscrivere la geografia della sofferenza umana con la penna dell’ipocrisia. Secondo fonti Ue, il governo di Giorgia Meloni starebbe lavorando a stretto contatto con il premier austriaco per fare pressioni su Bruxelles chiedendo all’Unhcr, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, una verifica sull’esistenza di aree della Siria che possano essere considerate sicure per il rientro di alcune categorie di richiedenti asilo.

Facciamo un passo indietro: nel 2015, quando un milione di rifugiati siriani bussava alle porte dell’Europa, la Germania di Angela Merkel spalancava le braccia dicendo “Ce la possiamo fare”. Oggi, quasi dieci anni dopo, l’Italia di Giorgia Meloni e l’Austria di Karl Nehammer vorrebbero convincerci che quel paese, dove Assad ha usato armi chimiche contro il suo stesso popolo, sia improvvisamente diventato un resort a cinque stelle.

La realtà dei numeri non mente

Ma i numeri, si sa, sono testardi. Parliamo di 4,5 milioni di siriani fuggiti dal loro paese, un quinto della popolazione prebellica. Scappavano da una guerra civile che ha trasformato intere città in cimiteri a cielo aperto. E l’Europa, quella stessa Europa che oggi vorrebbe voltare loro le spalle, ha concesso protezione internazionale a 1,3 milioni di loro tra il 2015 e il 2023.

La realtà è che nel 2023 i siriani rimangono il gruppo più numeroso a chiedere protezione internazionale nell’UE. Più di 180.000 richieste solo l’anno scorso, con un incremento rispetto alle 130.000 dell’anno precedente. E il 90% di queste richieste viene accettato. Perché? Perché ogni singola autorità competente riconosce che rimandare queste persone in Siria significherebbe esporle a “un rischio sostanziale di danni gravi”.

Nehammer ha una prova inconfutabile della sicurezza siriana: 200.000 persone hanno attraversato il confine dal Libano alla Siria durante l’attuale crisi con Israele. Come se fuggire da una zona di guerra verso un’altra zona di guerra fosse la dimostrazione che la seconda è un paradiso terrestre. Per il premier austriaco cadere dalla padella alla brace significa che la brace era “sicura”. 

L’Agenzia dell’Unione europea per l’asilo (EUAA) è cristallina: un paese sicuro è quello dove “la legge è applicata democraticamente e le circostanze politiche non portano generalmente e costantemente a persecuzioni, torture, trattamenti o punizioni disumani”. La Siria di Assad, quello stesso Assad che l’UE ha sanzionato per l’uso di armi chimiche e torture sui civili, non rientra neanche lontanamente in questa definizione.

L’EUAA, nell’aprile 2024, definisce il governo di Assad come “un attore principale della persecuzione e dei gravi danni nel paese”. In alcune aree, come il governatorato di Aleppo, la sola presenza di un civile costituisce “un rischio reale di gravi danni”. Ma evidentemente per alcuni leader europei questi sono dettagli trascurabili.

L’ipocrisia europea al servizio della convenienza politica

La verità è che la proposta di “paese sicuro” è l’ennesimo tentativo di mascherare il fallimento delle politiche migratorie europee dietro una facciata di presunta legalità. È come dire a qualcuno che sta annegando che l’acqua non è poi così profonda.

E mentre i politici giocano con le definizioni, ci sono siriani in Europa che lavorano, studiano, contribuiscono alle nostre società. Persone che, come ricorda Eva Singer del Consiglio danese dei rifugiati, “vengono costantemente ricordate che potrebbero non essere autorizzate a rimanere qui”.

La Danimarca ci ha già provato dal 2019, sostenendo che Damasco fosse sicura. Risultato? Nessun siriano è stato deportato. Perché anche i tribunali sanno che la realtà non si può piegare alla convenienza politica.

L’ipocrisia ha le gambe corte, dice il proverbio. Ma evidentemente cammina abbastanza veloce da raggiungere i palazzi del potere europeo. La Commissione europea continua a ricordare che metà della popolazione siriana è sfollata e i bisogni umanitari sono ai massimi storici ma per alcuni governi, evidentemente, questi sono solo dettagli che intralciano la narrazione. 

La verità è che non esistono scorciatoie nella gestione dei rifugiati. 

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