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La neolingua di Meloni che diserta ma non lo dice

Il responsabile editoriale di Pagella politica Carlo Canepa sottolinea una frase pronunciata dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni durante il suo pomposo annuncio di candidatura alle prossime elezioni europee: «Lo faccio perché mi sono sempre considerata un soldato, e i soldati, quando devono, non esitano a schierarsi in prima linea».

L’utilizzo di un linguaggio militare in tempi di guerra per infiammare un gesto che non è nulla di più di una candidatura meramente simbolica serve per sottolineare l’essere in linea con il tempo. Ma è ridicolo, eccome, perché la prima linea di cui parla Giorgia Meloni è semplicemente un nome usato come simbolo per aggiungere forza a una votazione che di simbolico non ha nulla. La politica come marketing bellico è un modus che di solito si pratica con un minimo di vergogna ma la fierezza in queste ultime elezioni è un caso scuola.

Si tratta dell’ennesimo riferimento alla politica (e quindi alla vita) come guerra costante, con avversari da sconfiggere, armi da scovare, idee da debellare, territori da conquistare. Come scriveva Michele Nigro in un importante articolo su Pangea la lingua “diventa brutta e imprecisa perché i nostri pensieri sono stupidi, ma a sua volta la sciatteria della lingua ci rende più facili i pensieri stupidi […] pensare con chiarezza è il primo passo necessario verso una rigenerazione politica: così la lotta alla cattiva lingua non è un vezzo e non riguarda solo gli scrittori di professione”.

Se Giorgia Meloni si schiera in prima linea per le europee possiamo quindi dire che Meloni sa già che diserterà, se dovessimo seguire la sua metafora. Le parole sono importanti. Ecco spiegato perché intellettuali e scrittori diventano nemici.

Buon lunedì. 

Nella foto: frame del video della conferenza programmatica di FdI, Pescara, 28 aprile 2024

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Il Bestiario della settimana – Il profumo di Fassino, Letizia lieta che balla, le boiate sul 25 aprile e il dadaista Sangiuliano

Il senso del 25 aprile

In evidente crisi di voti e di credibilità, Matteo Salvini si lancia sulla sua idea del 25 aprile in un’intervista al Corriere della Sera. “Ci sono alcuni principii che vanno difesi a tutti i costi: penso alla libertà di pensiero e parola, messi a rischio dal politicamente corretto ormai assurdo che arriva a censurare le fiabe o i cartoni animati”. Per il ministro alle Infrastrutture quindi quella marea di gente che ha sfilato nelle piazze italiane era lì per difendere le fiabe e i cartoni animati. Ci aspettiamo che dopo il generale Vannacci il leader della Lega candida alle europee anche Topo Gigio come simbolo della Resistenza.

Profumo di Piero

Nuova puntata della saga di quel maledetto profumo che si è infilato nella tasca del deputato dem Piero Fassino. Fonti all’interno dell’aeroporto ora dicono che l’ex sindaco di Torino era controllato perché recidivo. Per questo motivo è stato denunciato dal duty free dello scalo di Fiumicino e per questo motivo i vigilantes lo stavano tenendo d’occhio. Lui replica: “Mai detto che stavo parlando al telefono, lo avevo in mano. Contro di me accanimento, ora sto male. Voglio vedere quelle immagini. In vita mia non ho mai rubato nulla. Un malinteso rischia di oscurare tutti i miei anni di attività politica”. Si sente già aria di cleptomania scritta sulla giustifica nel caso in cui la vicenda si rivelasse vera.

Il Paese che amo

L’ex vicepresidente del Parlamento europeo e politica greca Eva Kaili, arrestata e accusata di corruzione nell’ambito dello scandalo corruzione del Qatar nell’Ue, ha annunciato che si trasferirà in Italia. “Verrò a vivere in Italia, paese garantista”, dice. Qualcuno le dica che nel giro di qualche anno potrà tranquillamente rientrare in politica, qui abbiamo lo stomaco forte.

Stangata veneziana

A Venezia per entrare nel centro storico i turisti dovranno pagare un biglietto di 5 euro. Sarà obbligatorio farlo dal 25 aprile al 5 maggio e nei fine settimana fino al 14 luglio, ma solo nella fascia oraria che va dalle 8:30 alle 16. Sono esentati dal pagamento coloro che vivono, studiano, lavorano o alloggiano a Venezia, oltre ad altre categorie, tra cui i parenti dei residenti in città fino al terzo grado e tutte le persone che abitano in Veneto. Tutti devono comunque registrarsi alla piattaforma messa online dal Comune e scaricare un QR Code da mostrare in caso di controlli. Praticamente serve un commercialista per andare in gita.

Quanta Letizia

Letizia Moratti ha ballato sulle note di The best cantata da Ivana Spagna durante la presentazione della sua candidatura. Dopo essersi proposta come punto di riferimento del centrosinistra milanese ora la candidata tornata a casa tra i berluscones decide di riciclarsi come danzatrice. S’è fatta prendere la mano dal trasformismo.

Il dadaista Sangiuliano

Ha ragione il giornalista Massimo Giannini quando dice che il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano “ha tratti di dadaismo politico”. Secondo Sangiuliano, che è pur sempre un ministro, in Italia fino a metà degli anni Settanta c’è stata una dittatura comunista. Nel Paese in cui ha sempre governato la Democrazia cristiana quindi esisteva una dittatura dell’opposizione. Così la destra decide di passare direttamente dal revisionismo all’invenzione. Ce li immaginiamo Fanfani, Andreotti e Forlani a fingere di essere moderati mentre erano spie pagate dal nemico. Una sciagura di ministro.

Ravvedimento operoso

La ministra Daniela Santanchè – che è ancora ministra, sta ancora là, nonostante tutto – per il 25 aprile ha chiesto di “liberare il 25 aprile da chi lo tiene in ostaggio” per farlo diventare “la festa di tutti”. Nel 2008 la stessa ministra festeggiava il 25 aprile scrivendo: “Rivendico con orgoglio di essere fascista, se fascista vuol dire cacciare a pedate nel sedere i clandestini e gli irregolari”. Ora, va bene che devono fare finta di essere diventati improvvisamente adulti e responsabili però non staranno esagerando?

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I tentacoli della ‘ndrangheta in Canada e il sovranismo anche nell’antimafia – Lettera43

Da giorni il collettivo di giornalismo investigativo Occpr si occupa di Angelo Figliomeni, panettiere di Vaughan sospettato di essere uno dei boss a Toronto. In epoca di grande interesse per i criminali percepiti importati in Italia, le ramificazioni delle mafie all’estero sono scomparse dal dibattito pubblico.

I tentacoli della ‘ndrangheta in Canada e il sovranismo anche nell’antimafia

Da giorni il collettivo di giornalisti di inchiesta Occrp si sta occupando di un italiano in Canada, Angelo Figliomeni, ritenuto il boss della locale di ‘ndrangheta a Toronto. Nell’inchiesta condotta da Brian Fitzpatrick (Occrp), Robert Cribb (Toronto Star), Jared Ferrie (Occrp), Alessia Candito (la Repubblica) e Alessia Cerantola (Occrp/Investigate Europe) si racconta di questo apparente panettiere di Vaughan che alza il telefono per minacciare e intimidire alcuni dipendenti della Royal Bank of Canada e della TD Bank. La polizia canadese dal 2017 segue le tracce di Figliomeni e ascolta le sue telefonate in quella che è stata definita «la più grande operazione antimafia» nella storia del Canada. I pubblici ministeri hanno però deciso di non procedere poiché in fase di indagine erano state intercettate anche le telefonate tra gli imputati e gli avvocati. Così le autorità sono state costrette a restituire la mostruosa cifra di 27 milioni di dollari americani che era stata sequestrata. Non male, per un panettiere.

Le cosche e i legami con le banche canadesi

Figliomeni, originario di Siderno e considerato uno dei principali esponenti della ‘ndrangheta della Jonica, è arrivato a Toronto da pregiudicato nei primi anni del 2000. Il suo negozio di panini apparentemente gli ha fruttato moltissimo, visto che Figliomeni può permettersi di avere autisti sempre pronti per portarlo da una parte all’altra della regione. Per verificare la notevole ricchezza dell’organizzazione Figliomeni, la polizia canadese ha ottenuto ordini giudiziari che hanno costretto quattro delle più grandi banche del Paese a consegnare informazioni suoi suoi conti. Al “panettiere” italiano sono stati sequestrati più di 35 milioni di dollari canadesi (27 milioni di dollari Usa) di beni, tra cui cinque Ferrari. La polizia ha anche bloccato 27 case – vietandone la vendita – per un valore di circa 24 milioni di dollari canadesi (18 milioni di dollari Usa). I conti correnti presso RBC, TD Bank, Canadian Imperial Bank of Commerce e Bank of Montreal erano circa 500. Secondo gli investigatori nelle conversazioni tra il presunto boss e il suo “responsabile dell’assistenza clienti” presso la filiale della Royal Bank of Canada, Nicola “Nick” Martino, i «croissant» erano pacchetti di soldi che andavano ripuliti. Per la polizia canadese il 61enne Figliomeni guiderebbe dal Canada la cosca di Siderno. A testimoniarlo, come scrive sempre Occrp, ci sarebbe anche un viaggio di Vincenzo Muià, determinato a scoprire chi avesse ucciso il fratello Carmelo (uomo di mafia) per le strade di Siderno nel 2018. Dov’è andato Muià? A Toronto. Quando è atterrato all’aeroporto internazionale Pearson la sera del 31 marzo 2019 c’erano anche agenti di polizia italiani. Il suo telefono era intercettato. Tra le conversazioni registrate c’è un’appassionata discussione tra Figliomeni, Muià e Luigi Vescio (un altro pregiudicato che a Toronto gestisce un negozio di pompe funebri) su creme idratanti per la pelle.

Canada, i tentacoli della 'ndrangheta e il sovranismo anche nell'antimafia
Una filiale della TD Bank (Getty Images).

Le aree di influenza di clan in Canada e la faida tra i Costa e i Commisso

La federazione delle ‘ndrine calabresi attive in Canada viene chiamata Siderno Group. «Nel Paese dei grandi laghi», scrive Francesco Forgione nel suo libro Mafia export, «i boss di Siderno sono da decenni diventati i padroni e i capi indiscussi tra tutte le organizzazioni criminali presenti: controllano il traffico della droga, hanno creato e comprato attività commerciali, sono ben radicati nelle attività dei porti». Una potenza economica che ha suddiviso il Canada in aree di influenza, proprio come nella regione di origine, al fine di evitare al massimo lotte intestine che avrebbero potuto indebolire i ricchi affari da sviluppare. Scontri, purtroppo, che non sono mancati. La faida scoppiata proprio a Siderno tra i Costa e i Commisso, che ha lasciato sul terreno 53 morti tra la fine degli Anni 80 e i primi Anni 90, ha fatto le sue vittime anche in Canada, indebolendo il gruppo federato, e cosa ancora peggiore, attirando l’attenzione degli investigatori. Il contrasto tra i Costa e i Commisso è nato dal tentativo dei primi di ritagliarsi più spazio e quindi maggiore profitto nei traffici canadesi. I Commisso negli Anni 80 avevano preso in mano le redini della federazione, oltre che del territorio di Siderno, entrando nel grande business della droga. Le rivendicazioni dei Costa sfociarono in una guerra aperta. Vincitori su tutti i fronti, i Commisso ordinarono l’omicidio a Concord, nella regione dell’Ontario, di Giovanni Costa, uno dei boss di rilievo della cosca avversaria. Sconfitti i Costa, che videro decimata la propria famiglia oltre al proprio potere, i Commisso rilanciarono le attività economiche della federazione.

Canada, i tentacoli della 'ndrangheta e il sovranismo anche nell'antimafia
La stazione di Siderno.

Mentre si puntano i fari sui criminali importati in Italia, i tentacoli delle mafie all’estero sono scomparsi dal dibattito pubblico

Un ulteriore duro colpo agli affari delle ‘ndrine canadesi è stato sferrato dall’operazione Siderno Group coordinata dalla Dda di Reggio Calabria nel 2005. Operazione che portò all’arresto a Toronto del boss Antonio Commisso, uno tra i più importanti trafficanti di cocaina allora in circolazione. «L’operazione Siderno Group», si legge nella relazione del 2008 della Commissione parlamentare antimafia, «condotta tra l’Italia, il Canada, gli Usa e l’Australia, ha messo a nudo le attività criminali e i traffici di stupefacenti gestiti da famiglie mafiose dell’area ionica reggina, in stretto collegamento con loro esponenti emigrati da anni in quei Paesi». A distanza di tre anni l’arresto, sempre a Toronto, di Giuseppe Coluccio. Dimostrazione, questa, della capacità della ‘ndrangheta di recuperare le perdite subite da grosse operazioni internazionali di polizia. Una potenza che mette in allarme i suoi diretti avversari, i Rizzuto di Montréal che proprio a Toronto hanno cercato, senza grandi successi, di estendere il proprio potere, e che adesso, decimati dagli arresti, devono respingere l’onda d’urto della ‘ndrangheta. Ora a Toronto comanda, sostengono gli inquirenti, Angelo Figliomeni. In epoca di grande interesse per i criminali percepiti importati in Italia, le ramificazioni delle mafie all’estero sono scomparse dal dibattito pubblico. È il sovranismo, bellezza, anche nell’antimafia.

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In Iran il boia non si ferma mai, pure il rap finisce al patibolo

L’Iran continua la sua opera di repressione del dissenso all’interno del Paese. Ultimo a farne le spese, con la vita, sarà il rapper Toomaj Salehi. Il 32enne è stato condannato a morte per il suo coinvolgimento nelle proteste che hanno travolto l’Iran nel 2022 in seguito alla morte della 22enne Mahsa Amini, la giovane arrestata il 13 settembre 2022 dalla polizia religiosa nella capitale iraniana, dove si trovava con la sua famiglia in vacanza, a causa della mancata osservanza della legge sull’obbligo del velo. Mahsa, condotta in un centro di detenzione, morì dopo tre giorni di coma all’ospedale Kasra di Teheran, presumibilmente dopo esser stata picchiata dagli agenti.

L’avvocato del cantante ha definito “senza precedenti” la decisione del tribunale rivoluzionario, che non ha dato attuazione alla sentenza della Corte Suprema iraniana. Quest’ultima infatti a novembre dello scorso anno ha bocciato la condanna a sei anni e tre mesi di carcere emessa appunto dal tribunale rivoluzionario, a cui aveva poi rimandato il caso per eliminare i vizi di forma riscontrati. Per questo Salehi era stato scarcerato su cauzione: dopo appena 12 giorni di libertà, per aver pubblicato un video su Internet con accuse alla magistratura iraniana e il racconto di torture subite in carcere, era stato nuovamente arrestato. In Iran nel 2023 sono stati giustiziate almeno 883 persone, due al giorno. Sette di loro erano minorenni. I giornalisti che raccontano le rivolte interne sono stati condannati a una media di più di 10 anni di carcere. Amnesty International in un report di agosto 2023 segnalava la morte di “centinaia di manifestanti”, migliaia di arresti, torture e violenze sessuali in stato di detenzione.

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Crosetto impallina Vannacci e Salvini

Ora finalmente il ministro della Difesa Guido Crosetto può liberamente dire ciò che pensa sul suo collega Matteo Salvini e sul suo ex generale Roberto Vannacci candidato di punta della Lega per le prossime elezioni europee.

“Era chiaro da mesi che lo avrebbe fatto. Sarà certamente eletto e le istituzioni europee potranno godere del suo contributo di idee e valori. Sono certo che la sua presenza aiuterà elettoralmente la Lega. Una scelta win-win, come si dice. Per lui, per la Lega e per l’esercito”, ha detto ad Affaritaliani.it il ministro FdI.

Replica del generale ad Un giorno da Pecora su Rai Radio Uno: “Crosetto con sarcasmo ha detto che sarebbe un bene per l’esercito se venissi eletto? Il sarcasmo lo lascio lui. In ogni caso è una sua opinione, se ritiene che sia così non vorrei deluderlo”.

La candidatura alle prossime europee del generale Vannacci fotografa un Salvini sempre più solo

La candidatura del generale fotografa un Salvini sempre più solo, isolato e disperato nel suo partito e con i suoi alleati. Scorrere le agenzie per trovare qualche dichiarazione di benvenuto al neo candidato da parte degli altri componenti della Lega è un’opera di microchirurgia. Ieri solo la ministra alla Disabilità Alessandra Locatelli e l’ex sottosegretario Rossano Sasso hanno impugnato carta e penna per salutare l’ingresso del generale. Per il resto rimbomba un silenzio che non ha bisogno di spiegazioni.

Anche Molinari e Romeo avevano già espresso dubbi su un candidato esterno con posizioni xenofobe e omofobe

Nelle scorse settimane i capogruppo leghisti alla Camera e al Senato, Riccardo Molinari e Massimiliano Romeo, avevano pubblicamente evidenziato i dubbi su un candidato esterno con posizioni xenofobe e omofobe. La scelta di metterlo capolista in tutti i collegi ha aggravato la crisi. “Il mio entusiasmo per l’ipotesi di candidatura di Vannacci è meno 2 mila, io non lo voterò”, ha detto nei giorni scorsi il sottosegretario all’Agricoltura Marco Centinaio. Così il generale assume la forma dell’ultimo disperato colpo di coda. 

AGGIORNATO ALLE 17:00

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Ponte sullo Stretto: Salvini smentito dalle carte del suo ministero

“Il futuro di Matteo Salvini è appeso alla costruzione di un ponte”, titola Politico, testata internazionale che si occupa di cose europee. Ma c’è un piccolo problema: il ministro delle Infrastrutture dimostra di non leggere nemmeno i documenti del suo ministero. 

La stampa internazionale deride Salvini smentito dai documenti del suo ministero relativi al Ponte sullo Stretto

“All’inizio di marzo Matteo Salvini è salito su una ruspa per aprire il terreno per un nuovo ponte”, scrive Politico, in “un cantiere benedetto da un prete” e promettendo che in caso di ritardi “sarà lui stesso a piantare una tenda per protestare contro i ritardi”. Il leader italiano agli occhi della stampa europea viene descritto come “l’Orbán italiano” che “spera di poter avere successo dove Benito Mussolini e Silvio Berlusconi hanno fallito lanciando il progetto di costruzione entro giugno, rinvigorendo la sua leadership politica sgretolata lungo la strada”. Segue nell’articolo l’elenco dei deludenti risultati elettorali raccolti fin qui. 

Il ministro deriso sul palcoscenico internazionale però rilancia. Ospite della trasmissione Cinque minuti su Rai Uno lo scorso 24 aprile ha annunciato che “gli studi della Società Stretto di Messina calcolano che dall’apertura del cantiere del ponte sullo Stretto saranno creati 120 mila posti di lavoro”. È falso, ovviamente. La difficoltà del leader leghista con la gestione dei numeri ormai è cronicizzata. I 120mila posti di lavoro erano una declamazione che risale a un anno fa. Poi i 120 mila sono diventati 100 mila, poi 50 mila, poi 40 mila, fino ad “alcune decine di migliaia”. Il 24 aprile siamo tornati al punto di partenza, 120 mila. Stamattina nell’intervista al Corriere della sera di nuovo a 100 mila.

Il leader italiano agli occhi della stampa europea viene descritto come “l’Orbán italiano”

Ma dove li prende i numeri il ministro Salvini? La risposta è peggio di quanto si possa immaginare. Come sottolinea Pagella Politica a marzo la Società Stretto di Messina ha presentato il progetto del ponte sullo Stretto in un’audizione alle Commissioni Ponte dei comuni di Messina (Sicilia) e Villa San Giovanni (Calabria). Tra le slide della presentazione, ce n’è una dedicata agli impatti che la realizzazione del “collegamento stabile tra la Sicilia e la Calabria” potrebbe avere sull’occupazione. La Società Stretto di Messina ha stimato che la costruzione del ponte richiederà 30 mila unità lavorative annue (abbreviate con la sigla “ULA”) per quanto riguarda il lavoro diretto e 90 mila ULA per quanto riguarda il lavoro indiretto e quello indotto. Salvini ha sommato le due cifre, sbagliando. 

Come spiega Pagella Politica le unità di lavoro annuo non corrispondono al numero di occupati: “un’unità di lavoro annuo rappresenta infatti la quantità di lavoro svolta da una persona impiegata a tempo pieno per un intero anno”. In base alle tempistiche stimate dalla Società Stretto di Messina, il cantiere del ponte durerà almeno sette anni. Da qui viene il numero dei “4.300 occupati in media nel periodo di costruzione del ponte” indicato dalla Società Stretto di Messina: bisogna dividere le 30 mila ULA per sette.

È falso che per realizzare il Ponte di Messina saranno creati 120 mila posti di lavoro

La stessa Società stima un picco di “7 mila occupati” durante la costruzione del ponte sullo stretto. Insomma, lo scrive la stessa società incaricata dal ministro: i lavoratori impiegati alla costruzione del ponte sono molti molti molti meno. Se riteniamo attendibili le cifre date dalla società che dovrebbe costruire l’opera i numeri sventolati dal ministro sono una panzana che non si ritrova da nessuna parte. Siamo nel campo della fantasia moltiplicata per questioni elettorali. Un terreno sdrucciolevole che non lascia ben sperare per la costruzione di un ponte lungo tre chilometri. Soprattutto se la carriera di Salvini è appesa lì. 

Leggi anche: Il Sud in default sulle infrastrutture. Ma il governo insiste ancora col Ponte sullo Stretto

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“Nessuno vuole la guerra”. Sicuri?

Ospite due giorni fa di una trasmissione televisiva mentre si discuteva della guerra in Ucraina mi sono ritrovato di fronte alla solita affermazione appoggiata come se fosse definitiva: «nessuno vorrebbe le guerre», mi hanno detto. È falso, falsissimo, da sempre. Le guerre sono il pane per l’industria bellica e per i suoi prodromi nelle istituzioni. 

Questa mattina su Repubblica Gianluca Di Feo smaschera l’Italia “al fianco dell’Ucraina” nelle dichiarazioni ufficiali della presidente del Consiglio, sempre concentrata a simulare un atlantismo e un europeismo che sono la negazione di tutto ciò che ha sempre detto fino a un minuto prima di salire a Palazzo Chigi. 

Per semplificare basta sapere che dal 2023 l’Italia ha fornito all’Ucraina solo armi vetuste, poco efficaci e in sensibile calo rispetto agli anni precedenti. Il governo Meloni è tra gli ultimi in Europa nell’invio di armi doppiato addirittura dalla Danimarca. 

In compenso l’Ucraina è diventato il secondo più importante cliente dell’industria bellica italiana. Nel 2023 ci sono state forniture per 400 milioni di euro verso Kiev (a pagamento, mica “solidali”) e le spedizioni comprendono anche armi offensive nonostante nessuno in Parlamento abbia mai annunciato il cambio di linea di quel famoso “solo armi difensive” pronunciato tempo fa. 

La “solidarietà al popolo ucraino” è quindi solo un ormone per gonfiare i bilanci delle industrie delle armi. È scritto nero su bianco. Con buona pace della litania ripetuta sui giornali, in radio e in tivù del “nessuno vuole la guerra”. 

Buon venerdì. 

Nella foto: la presidente del Consiglio Meloni e il presidente Zelensky, Kyiv, 21 febbraio 2023

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Quindi è fascista

Il quotidiano Il Tempo, diretto da quel Tommaso Cerno che è uno dei troppi abbagli del Partito democratico renziano, titola “Piazza rossa” con caratteri rossi e scrive “così hanno rovinato il 25 aprile”. Con l’abituale vigliaccheria che li contraddistingue manca il soggetto ma c’è un elenco: “l’allarme anarchici nel nome di Cospito” (roba che galleggia ormai solo nel cervello di qualche complottaste indomito), “l’antisemitismo e la paura della comunità ebraica”, “i testimonials: da Salis a Scurati fino a Landini” e la stentorea conclusione “oggi la Liberazione non è più la festa di tutti”. 

Daniele Capezzone su Libero diretto dall’ex portavoce della presidente del Consiglio Mario Sechi scrive “ci hanno letteralmente sfinito con l’uso politico del 25 aprile”. Sempre in prima pagina Francesco Storace scrive un pezzo intitolato “25 aprile, tutto pronto per lo show”. Uno show.

Su Il Giornale Alessandro Sallusti definisce la Festa della Liberazione “una baraccata” e titola il suo editoriale “perché oggi non posso dirmi antifascista”. 

Su La Verità in prima pagina titolano “La festa del 25 aprile forse è meglio abolirla”. Notate il “forse”, sinonimo della vigliaccheria di chi insegue la provocazione fine a se stessa consapevole di essere molto vicino al fare la figura del cretino. 

Il 25 aprile è divisivo solo per chi è fascista. Il 25 aprile è politicizzato solo per chi persegue una politica che non prevede l’antifascismo, e quindi è fascista. Il 25 aprile imbarazza solo chi non riesce a fare pace con la Liberazione e quindi è fascista. 

Buon 25 aprile.

foto di Marioluca Baronia

Turin, Italy. 24 April 2024. Torchlight procession before April 25th. Credits: M.BARIONA

 

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Muro delle destre, no a Corsini e Bortone in Vigilanza. Bocciata la richiesta di audizione che può imbarazzare Gasparri

Niente audizione in Commissione vigilanza Rai per il direttore Approfondimenti Rai Paolo Corsini e la giornalista Serena Bortone in merito alla partecipazione censurata dello scrittore Antonio Scurati con un monologo sul 25 aprile. La maggioranza ha votato contro la proposta di Stefano Graziano (Pd) sostenuta da tutta l’opposizione. “Meglio aspettare l’indagine interna”, dicono dai partiti della maggioranza, riferendosi all’atto ispettivo annunciato dall’ad Rai Roberto Sergio.

Bocciata anche la richiesta di audire Corsini e Bortone dopo l’audizione dei vertici Rai fissata per l’8 maggio. Corsini non può rispondere alle domande dei parlamentari, nonostante sia disponibile – secondo quanto ha riportato ieri Repubblica – a rispondere alle telefonate di capi di governo stranieri, come l’albanese Edi Rama. La giornalista Bortone invece agita la maggioranza che preferisce attaccarla via stampa come ha fatto il capogruppo alla Camera di Fratelli d’Italia Tommaso Foti evocandone addirittura le dimissioni.

Il retroscena

Tra i preoccupati di un’eventuale audizione della giornalista Rai spicca anche il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri. Su Gasparri e Bortone in Rai circola da settimane una storia tutt’altro che edificante per l’azienda pubblica. In occasione della puntata di Report che fece infuriare il senatore – tanto da scomodare la commissione per mettere sotto torchio Sigfrido Ranucci – si dice che la Rai avrebbe inviato a tutti i talk politici in onda sulla rete un invito (di quelli che sarebbe meglio non rifiutare) per concedere a Gasparri lo spazio per rispondere all’inchiesta.

Questione di riequilibrio, era la giustificazione usata con i conduttori. A ribellarsi a quel diktat fu proprio Serena Bortone con la sua trasmissione Chesarà. Una rapida osservazione delle puntate di quei giorni certifica la rumorosa assenza. La notizia non uscì dai corridoi di Viale Mazzini ma avrebbe potuto essere un’interessante domanda da porre a Bortone nella sua audizione in Vigilanza, anche per comprendere se il “caso Scurati” sia un inciampo oppure rientri in una più complessa e preoccupante strategia di occupazione del servizio pubblico.

Non se ne farà niente. Bortone è oggetto di una pubblica discussione che non può pubblicamente discutere. La maggioranza ha deciso così. Con il voto pure del senatore Gasparri.

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Lo stigma di Regeni sugli accordi con l’Egitto

Il ricercatore italiano Giulio Regeni è stato ucciso “tra le 22,00 del 31 gennaio e le 22,00 del 2 febbraio del 2016”. Le torture subite sono “provate e documentate” nonostante l’autopsia egiziana sia stata, forse volutamente, superficiale e incompleta. Per gli avvocati si tratterebbe di un’autopsia sotto gli standard minimi richiesti. Giulio Regeni è stato ucciso dopo le richieste di collaborazione all’Egitto formulate dall’ambasciatore italiano Maurizio Massari (il 25 gennaio 2016) e dall’ex presidente del consiglio Matteo Renzi e dall’allora ministro degli Esteri Paolo Gentiloni (31 gennaio 2016), che chiedevano al presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi notizie sul cittadino italiano scomparso. È stato torturato per sei giorni.

“Sul corpo di Giulio Regeni – dicono i consulenti – sono state trovate quasi tutte le lesività elencate nella letteratura sulla tortura tipica in Egitto”. È un elenco dell’orrore. Torture ricorrenti, quelle elencate negli studi. Pugni, calci, mazze, percosse, bruciature, l’utilizzo di un “pettine chiodato” e la “Falanga”: le bastonate sui piedi che provocano la rottura di tutte le ossa, “riscontrata ahimè sul corpo di Giulio Regeni”, conferma il medico. La causa di morte comunicata dai medici egiziani, ovvero la “lesione cranica subdurale” è incompatibile con i risultati degli esami effettuati dai periti. Questi sono gli elementi emersi ieri a Roma durante il processo ai quattro 007 egiziani. Queste sono le mani sporche di sangue del presidente egiziano al-Sisi che da anni insozzano stringendole quelle dei più importanti leader europei. Ogni accordo con l’Egitto ha questo colore, questo odore, questi frantumi.

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