Che la coerenza non sia una qualità di molta classe dirigente (non solo politica) in Italia lo sappiamo da tempo. Ma che il ministro della guerra Lorenzo Guerini provi a convincerci dell’ineluttabilità e addirittura della moralità che c’è nell’aumentare le spese militari è qualcosa che grida (pacifica) vendetta.
Era il 2014 quando Guerini (all’epoca vicesegretario del Pd) insieme all’allora sottosegretario Graziano Delrio con il gruppo Pd in commissione Difesa lavorava per equilibrare le «spese per la “funzione difesa” sulla base del paradigma 50-25-25, cioè 50 per cento per il personale, 25 per cento per l’esercizio e 25 per cento per gli armamenti». Se così fosse, si produrrebbero «risparmi nella spesa militare per armamenti non inferiori ad un miliardo di euro annui per il prossimo decennio». Avevano scritto proprio così.
Al tempo Guerini incassò anche gli applausi dell’allora Udc Pier Ferdinando Casini che disse testualmente: «Gli impegni militari servono ma io credo che faccia bene il governo, pur confermando gli impegni internazionali, ad alleggerire il programma previsto sugli F-35 perché siamo in una fase di difficoltà economiche e abbiamo necessità di dare ossigeno all’economia».
Era il periodo in cui il Pd veniva raccontato così su Huffington Post: «Rendere “sostenibile gli investimenti nel settore dei sistemi d’arma con le esigenze di finanza pubblica”. Nel mirino c’è il programma di acquisto dei cacciabombardieri americani F-35: da sospendere e ridurre. Ma c’è anche il programma “Forza Nec”, costo oltre 20 miliardi di euro: da sospendere. E poi ci sono anche le due portaerei in Marina militare: troppe, una delle due, via (probabilmente la Garibaldi). Creare “un organismo di controllo sulla qualità degli investimenti” perché al momento in Italia le spese le decidono i “singoli stati maggiori” senza coordinamento e spesso “in concorrenza” tra loro. Razionalizzare gli investimenti per i prossimi anni, che al momento risultano “superiori al 25 per cento del budget per la funzione Difesa”, mentre se questa quota fosse rispettata si produrrebbero “risparmi per un miliardo di euro all’anno per il prossimo decennio”».
TAP, TAV, ILVA, Atlantia, la regola dei due mandati, gli F35, i voti di fiducia: il Movimento 5 Stelle continua imperterrito la sua corsa verso lo stravolgimento delle promesse fatte in campagna elettorale e continua la sua inesorabile trasformazione a un partito come tutti gli altri. Nonostante manchi l’autocritica. E nonostante continuino a sparire i voti. Continua a leggere
Francesca Del Rosso se n’è andata portata via dalla malattia. Wondy (era il suo nome ‘da battaglia’) è stata una penna di vitalità e forza nei suoi articoli e nei suoi libri.
Wondy è anche la moglie di Alessandro Milan, un giornalista di quelli che tutte le mattine legge e commenta la rassegna stampa. Lui lo fa su Radio24. Ma Alessandro oggi si è arrampicato sulla cima del dolore e dell’amore e s’è fatto penna scrivendo una delle lettere d’amore più belle che io abbia mai letto. E per quel che vale gli mando un abbraccio e un pensiero. Forza Ale. Eccola qui:
A FRANCESCA
Non vi racconterò stupide favolette. Wondy ha perso la battaglia. Perché lei voleva vivere. Francesca amava follemente vivere. Di più: non ho mai conosciuto una persona più attaccata di lei alla vita. Sempre gioiosa, sempre sorridente, sempre ottimista, sempre propositiva, sempre sul pezzo, sempre avanti.
In studio, a casa, c’è il faldone in cui ha raccolto sei anni di referti dellamalattia. Catalogata così: “Tumore franci :-)”
Poco prima di andarsene, tra i sospiri, ha detto a un medico: “Siamo vicini a Natale, se non erro. Se lo goda tanto, lei che può. Io purtroppo sono qui”. Però, dopo mezz’ora, mi ha chiesto se il tal primario che tanto le vuole bene avesse dei figli. “Ma perché lo vuoi sapere?” E non scorderò mai quel gesto lento delle mani che roteano e la bocca che si corruccia. “Così… gossip”.
Questa era lei. Altruista fino all’estremo. Curiosa con purezza.
Era il mio Harry Potter. La chiamavo così, sul cellulare è ancora registrata con questo nome. Era il 2002, un giorno imprecisato. Entrai in casa e la vidi di spalle, ricurva sui libri, mentre studiava per prendere la seconda laurea. “Sembri Harry Potter!” esclamai. Una somiglianza fisica. Da allora, per me, è Harry.
Wondy, Harry Potter.
Franci. Moglie mia, hai perso la battaglia dunque. Ma hai lasciato tanto. A me due splendidi bambini, al mondo una forza incrollabile, una positività che emanava luce. Sfido chiunque ti abbia conosciuta a raccontarmi una volta in cui ti ha vista o sentita piegata dalla vita.
“Ho avuto una vita piena – mi dicevi in ultimo -. Ho fatto il lavoro che volevo, ho scritto libri, ho avuto una bella famiglia, ho viaggiato in mezzo mondo”. Però aggiungevi anche che “certo, è dura accettare tutto questo. Mi spiace un po’ non vedere crescere i bambini. Pazienza…”. Ma io so che avresti voluto urlare di rabbia, perché tu volevi vivere ancora a lungo.
Hai sorriso. Fino all’ultimo secondo, fino a quando la morfina non ti ha stritolata, hai sorriso quando ti dicevo di chiudere gli occhi e tenermi per mano sulle spiagge di Samara, in Costarica; nelle praterie del Kruger a cercare leoni, tra i coralli delle Perenthian a scovare squali, nelle viuzze della Rocinha a scrutare umanità, nelle cascate giamaicane, nei templi induisti di Bali, nei mercatini di Chiang Mai, tra le casette variopinte del Pelourinho di Salvador, tra le pietre millenarie della via Dolorosa a Gerusalemme, insomma in uno qualsiasi degli infiniti luoghi in cui mi hai portato, sempre in cerca di vita e emozioni.
Mai una piega storta sul tuo volto. Eppure di motivi ne avresti avuti, eccome. Harry, hai vissuto un tale calvario negli ultimi sei anni… Un calvario vero, nascosto a tutti, celato dietro a uno sguardo luminoso e sbarazzino e a una cazzuta voglia di reagire. Non ricordo neppure quante operazioni hai subito, quante menomazioni fisiche, quante violazioni del corpo. Non so quante medicine tu abbia preso, quante infusioni di chemio, quante pastiglie, quanti buchi nelle vene, quante visite. Non ne hai mai fatto pesare mezza. A me, prima di tutto.
Per questo, ti ringrazio.
Non ti è stato risparmiato neppure un briciolo di strazio finale. E quando hai alzato entrambi gli indici delle mani al cielo dicendo “ma perché è così faticoso arrivare lassù?”, beh sappi che ti ci avrei portata in braccio.
Sì, è vero, Wondy ha perso la battaglia. Ma ha anche trionfato. Perché il mio Harry ha combattuto il tumore proprio da Wonder Woman. Ora vi svelo una cosa che quasi nessuno sa: tre giorni prima di presentarsi alle ‘Invasioni Barbariche’ da Daria Bignardi ricevette l’ennesima brutta notizia. Una recidiva, l’ennesima operazione, la radioterapia in vista. Ricordo i consulti nel lettone: che si fa, vado? Non vado? Io le dissi che avrebbe potuto annullare tutto, avrebbero capito. Al solito, fece di testa sua. Andò in tv con un unico obiettivo: ‘NON devo piangere, a nome di tutte le donne’. E alla inevitabile domanda “Ma ora come stai?” sfoggiò il solito disarmante sorriso: “Bene, grazie!”. Lei sorrideva. Io, solo, a casa davanti alla tv, piangevo. Due giorni dopo, era in sala operatoria. Il consueto rituale con i medici, le solite battute sulla Mont Blanc dell’anestesista, la degenza, il ritorno a casa, le terapie, il nuovo viaggio da programmare…
Da tutta questa sofferenza ha tenuto lontani tutti, il più possibile. A cominciare dai nostri magnifici Angelica e Mattia. La Iena e l’Unno.
Lo so che le persone sono stupite. “Ma stava così bene!”. No, non stava bene. Ogni tre settimane in ospedale si sottoponeva a esami del sangue (un buco in vena ogni 20 giorni, con la prospettiva che fosse per tutta la vita) con annessa visita e responso sulla possibile avanzata del tumore (e ogni volta il sospiro di sollievo: “Bene, dai, è fermo, chissà tra 20 giorni”); ogni tre mesi faceva una risonanza (“Sai che c’è gente che quando arriva il mezzo di contrasto nelle vene si fa la pipì addosso? A me non è mai successo, bene dai”); ogni giorno prendeva 4 pastiglie di farmaco sperimentale per tenere sotto controllo le metastasi (fanno 1460 pastiglie l’anno, con la prospettiva che fosse per sempre). Non stava bene. Solo che non lo diceva. Solo che consolava gli altri. Lei.
Più il tumore avanzava, più lei scovava motivi e occasioni per fare feste, organizzare eventi, viaggi, iniziative. “Chissà quanto vivrò ancora, avanti: festeggiamo”.
Era, anche, una grandissima rompicoglioni. E questo i suoi migliori amici possono confermarlo al 130%.
Ogni tanto crollava, sì, anche lei. Soprattutto quando l’ultima battaglia la stava per abbattere. “Che destino, ogni volta che faccio una cosa bella, arriva una botta”. L’ultima cosa bella era il romanzo “Breve storia di due amiche per sempre”.
La vedo all’opposto, Harry. Come ti ho detto, la verità è che nessuno al mondo, nella tua sofferenza, avrebbe avuto la straordinaria forza che hai avuto tu di scrivere due libri, fare viaggi, progettare, sognare. Io non avrei combinato un centesimo di quel che hai fatto tu.
Ricordo il giorno in cui dovevi presentare il tuo ultimo libro, e un’ora prima della presentazione ti ho trovata mentre confabulavi al telefono con qualcuno, entusiasta. Quando hai messo giù, ho scrutato quel lampo malandrino tipico dei tuoi occhi, non ti ho fatto domande ma tu mi hai preceduto: “Stavo raccontando all’editor la trama del mio prossimo romanzo: sarà una figata!” Ho scosso la testa e ti ho lasciato lì: al tuo nuovo sogno.
Ora vai. Mi hai guardato negli occhi, quando eravamo vicini all’ultimo chilometro, e mi hai detto: “Spero solo, almeno, di lasciare in te e nei bambini un bel ricordo”.
Lasci qualcosa di più: mi hai semplicemente insegnato come si vive. Non imparerò mai, puoi scommetterci, ma ti prometto che ce la metterò tutta.
Lascio da parte le migliaia di immagini nostre, intime. Tranne una. Domenica 11 dicembre, alle 5, ti ho sognata. Eri serena come non ti vedevo da mesi. Mi parlavi, ci abbracciavamo, io piangevo tanto, tu mi hai ringraziato perché hai potuto parlare con Chiara e Sara. Eri tranquilla, anche se avevi “questo ciuffo matto” nella testa. Poi sei partita per un viaggio tutto tuo, verso chissà dove.
Devo dire di cuore dei grazie, e nel farlo dimenticherò tante persone.
Le amiche e gli amici veri, loro sanno a chi mi rivolgo.
In un Paese vergognosamente anti scientifico, mi inchino alla competenza e alla preziosa umanità scovata all’Ospedale Humanitas: alle infermiere e agli infermieri, o candidi angeli, un immenso grazie! Anche per i sontuosi caffè con la moka, come se li avessi bevuti. Avete pianto con me, non lo dimenticherò mai.
I medici: Andrea, Barbara, Corrado, Cristiana, Francesco, Marco K., Monica, Pietro. Ancora: Marco R., scusa se spesso ti ho trattato da Frate Indovino e non da splendido UomoDottore quale sei; Vittorio, vabbè Vittorio… Zione putativo, ti dirò sempre un ‘grazie’ in meno di quanti ne meriteresti. Ridi, ti prego.
Infine: Silvia. La Doc. La Scienza. Tu sei stata una delle scoperte più belle della nostra recente vita. Tu e la tua bella famiglia. Hai fatto tantissimissimissimo. Ricordati che mi devi togliere ancora quelle due cose o quella là continua a rompere il cazzo.
E poi, Maria Giovanna. Nel cuore di Franci avevi un palchetto d’onore tutto tuo, con le tue ‘pozioni magiche’, le tue visioni, le tue parole profonde e precise, i tuoi consigli sempre azzeccati. Per osmosi, sarai sempre anche in me.
Non piangete, medici, non piangete infermieri. E sappiate che se ci fossero anche solo 100 persone come voi in ogni professione, il mondo sarebbe un posto molto migliore.
Non ringrazio chi, senza neppure conoscermi, in un giorno che voglio dimenticare di inizio novembre mi ha detto con freddezza, senza neppure sfiorarmi, che mia moglie sarebbe morta nel giro di un mese, massimo tre, perché lo dicono le statistiche. Mi hai fatto piangere troppo e prima del necessario. Non si fa. Ma spero che migliorerai negli anni.
Ringrazio infine tutti coloro che hanno capito il motivo per cui ho voluto proteggere il mio Harry all’ultima curva. Non potevo fare più nulla, per lei, se non una cosa: preservarne la dignità, proteggerne il silenzio e il sorriso appena un po’ incrinato. Se avessi fatto diversamente, esponendola, non me lo sarei perdonato per il resto dei miei giorni. Di più, avrei violato un suo preciso volere. Non si fa, se si ama.
Se avete capito, bene, altrimenti: amen.
Ora vai, Harry. Che la Vita finalmente ti sorrida un po’. Veglia sui tuoi bimbi, sorreggili, guidali.
Vai lassù, faccia da ranocchia. Porta anche Leo, il neo. Ciao, nasino freddo.
Tic-ti-tic. Tic-ti-tic. Le senti, le fedi che si sbaciucchiano?
Prometto di rispettare le tue ultime volontà. Tranne una. Perdonami.
Prometto di prendermi cura dei nostri bambini.
Prometto di portarti sempre con me.
Ti chiedo un ultimo sforzo: da lassù getta sul capo di ognuno di noi una goccia del tuo inesauribile ottimismo. Basterà e avanzerà per capire come si vive sorridendo.
Se poi, tu e Rudy, vorrete buttarci giù anche una goccia di mojito, ci terremo pure quella.
Alla tua. Alla vostra.
Mi vivi dentro.
Tuo, Ale.
(La storia di Adolfo Parmaliana, di quel verminaio Intorno al Procuratore Generale, magistralmente raccontata da Gian Antonio Stella per il Corriere)
Era proprio lui, il corvo: l’allora procuratore generale messinese. Lo dice la sentenza della Cassazione che, depositata nei giorni scorsi, inchioda Franco Antonio Cassata, a lungo il più influente magistrato della città sullo Stretto, per una colpa infamante. La diffamazione pluriaggravata, con un dossier anonimo, di un morto: Adolfo Parmaliana, il docente suicida perché stremato dalla fatica di battersi contro il malaffare e una certa poltiglia giudiziaria.
Una condanna piccola piccola: 800 euro. E spropositatamente bassa, per fare un esempio, rispetto ai nove mesi di carcere inflitti nel 2013 a un immigrato senegalese, mai arrestato prima, che dopo aver perso il lavoro aveva tentato di rubare in un supermarket un paio di confezioni di latte in polvere: di qua un dossier anonimo gonfio di veleni, di là il tentato furto di latte in polvere. Ma una condanna fondamentale per una città dove quel giudice era potentissimo. E che consente ora alla vedova del morto, Cettina, di chiedere un risarcimento in sede civile scartando ogni ipotesi di accordo bonario: «La cosa che più mi fa male è vedere come, nonostante le condanne in primo, secondo e terzo grado, lui si muova per Barcellona Pozzo di Gotto, la sua città, come fosse sempre Sua Eccellenza il Signor Procuratore Generale. Come se nessuno sapesse nulla. E gli fanno pure l’inchino. Un signorotto feudale».
Ricordate? Al centro di tutto c’è la storia di Adolfo Parmaliana, un professore universitario di chimica industriale descritto come «amante dei libri, dei vestiti eleganti, della Juve e idolatrato dai suoi allievi» che il 2 ottobre 2008, dopo anni di battaglie contro le piaghe della cattiva politica siciliana (perfino dentro la sinistra in cui si riconosceva) si uccise buttandosi da un viadotto autostradale. Combattivo segretario diessino di Terme Vigliatore, un paese a due passi da Barcellona, a sud di Milazzo, era stato appena messo sotto inchiesta per diffamazione (lui!) e l’aveva presa malissimo. La sua colpa, diceva, era aver fatto manifesti che ringraziavano Carlo Azeglio Ciampi per aver sciolto il consiglio comunale per le ingerenze della criminalità: «Giustizia è stata fatta. La legalità ha vinto. Tanti dovrebbero scappare… Se avessero dignità!». Aveva chiesto di essere interrogato dal magistrato. Richiesta lasciata cadere…
Sulla scrivania, quel giorno che si era messo al volante per raggiungere il viadotto, aveva lasciato l’orologio, il portafogli e una lettera: «La Magistratura barcellonese/messinese vorrebbe mettermi alla gogna, umiliarmi, delegittimarmi; mi sta dando la caccia perché ho osato fare il mio dovere di cittadino denunciando il malaffare, la mafia, le connivenze, le coperture e le complicità di rappresentanti dello Stato corrotti e deviati. Non posso consentire a questi soggetti di offendere la mia dignità di uomo, di padre, di marito, di servitore dello Stato e docente universitario». Chiudeva accusando «una magistratura che ha deciso di gambizzarmi moralmente». Ultime parole: «Questo sistema l’ho combattuto in tutte le sedi istituzionali. Sono esausto, non ho più energie per farlo e me ne vado in silenzio. Alcuni dovranno avere qualche rimorso, evidentemente il rimorso di aver ingannato un uomo che ha creduto ciecamente, sbagliando, nelle istituzioni. Un abbraccio forte, forte da un uomo che fino ad alcuni mesi addietro sorrideva alla vita».
Colpito da quella morte, dove si impastavano mala-politica e mala-università, mala-amministrazione e mala-giustizia, il giornalista e scrittore Alfio Caruso, da sempre attento a questi temi (sono suoi «Da cosa nasce cosa» e l’ustionante «Perché non possiamo non dirci mafiosi») decise di farci un libro: «Io che da morto vi parlo». E stava quasi per finirlo dopo aver ricostruito una serie di vicende inquietanti quando ricevette un plico. Lo stesso spedito in contemporanea a Giuseppe Lumia, già Presidente dell’Antimafia. Conteneva un dossier anonimo pieno di fango. La faccenda sfociò in un’inchiesta. Sul margine di uno dei fogli del dossier anonimo (il diavolo fa la pentola ma non il coperchio…) era rimasto il timbro del telefono della cartoleria da dove era stato spedito. E dalla cartoleria fu possibile risalire al destinatario di uno dei fax del dossier: il numero 090-770424 era intestato alla Procura generale di Messina. Era solo la prima delle sorprese.
Convinto di essere intoccabile, il giudice Cassata accolse cerimoniosamente gli inquirenti reggini giunti a Messina per indagare su quel fax senza prendere la precauzione di svuotare l’ufficio da quanto c’era di compromettente. E cosa notò casualmente il capitano del Ros Leandro Piccoli in una vetrinetta? Un fascicolo con scritto «copie esposto Parmaliana da spedire». Istantanea telefonata al procuratore Giuseppe Pignatone che conduceva le indagini: «Che facciamo?» «Sequestrate». La carpetta, ricostruisce l’avvocato Fabio Repici che con la collega Mariella Cicero ha difeso il professore suicida, «conteneva quattro copie del dossier anonimo — senza il timbro dell’ufficio con il numero di protocollo — e su due di queste erano attaccati due post-it con su scritto “Procura ME” e “Procura Reggio C.”». Possibile che un procuratore generale si fosse abbassato a quel livello? Le prove erano schiaccianti. Da lì il rinvio a giudizio per «diffamazione pluriaggravata in concorso con l’aggravante di aver addebitato alla presunta vittima fatti determinati e di aver agito per motivi abietti di vendetta». E dopo la condanna in primo grado, fu implacabile la sentenza d’appello confermata poi in Cassazione: «…tale ritrovamento è evidente spia di un lavoro di dossieraggio che vedeva l’imputato raccogliere carte per usarle contro la memoria del professore…». La memoria d’un morto. Suicida per difendere il proprio onore di uomo perbene. La parola adesso spetta ai giudici civili che dovranno stabilire quale sia il risarcimento dovuto alla famiglia. Ma esiste al mondo una cifra che possa minimamente risarcire una cosa così?
Anche quest’anno è stato pubblicato il report annuale “Don’t bank on the bomb” a cura di PAX e dell’International Campaign to Abolish Nuclear Weapons (ICAN) con il quale le due organizzazioni intendono incrementare la trasparenza sui finanziamenti delle armi nucleari e stimolare il dibattito pubblico a sostegno della loro delegittimazione.
Come sempre il report, chiaro nelle sue argomentazioni, evidenzia una carenza di informazioni ufficiali di pubblico dominio sulla produzione e sugli investimenti delle medesime armi.
Esso non riporta ogni singolo investimento e non include gli investimenti fatti da governi, università o chiese, ma solo dalle istituzioni finanziarie, prendendo in considerazione una varietà di fonti (rapporti delle ONG, report delle istituzioni finanziarie, siti web e altre fonti pubbliche).
I nove Paesi dotati di armi nucleari (Cina, Corea del Nord, Francia, India, Israele, Pakistan, Federazione Russa, Regno Unito e Stati Uniti) stanno modernizzando i propri arsenali. Alcuni di essi si giustificano dietro la pretesa della manutenzione, mentre altri annunciano apertamente la produzione di nuove tecnologie e piani di sviluppo.
“Ad esempio, il Congressional Budget Office nel gennaio 2015 ha comunicato che gli Stati Uniti spenderanno circa 350 miliardi di dollari nei prossimi dieci anni per potenziare e mantenere il proprio arsenale nucleare. Si arriverà a 1.000 miliardi di dollari nell’arco di trenta anni. Il solo programma di radicale modernizzazione delle testate nucleari tattiche B61, di cui 70 sono sul territorio italiano, costerà circa 10 miliardi di dollari. Queste testate saranno destinate ad essere trasportate dai nuovi aerei F35, 90 dei quali saranno acquistati dall’Aeronautica italiana come è stato confermato dalla recente legge sul Bilancio dello Stato 2016” nota Maurizio Simoncelli, vicepresidente dell’Istituto di Ricerche Internazionali Archivio Disarmo (IRIAD).
Si stima che la spesa mondiale per queste armi sia di oltre 100 miliardi di dollari ogni anno. Questa spesa serve per assemblare nuove testate, modernizzare le vecchie e costruire missili, sistemi di lancio e tecnologie di supporto.
Se la maggior parte del finanziamento per le armi nucleari proviene da contribuenti che hanno sede all’interno dei Paesi nucleari, una parte consistente proviene anche da investitori privati di Paesi non-nucleari.
All’interno del report, le istituzioni che finanziano queste attività sono elencate in tre gruppi in base alla misura del loro coinvolgimento nel finanziamento dell’industria militare nucleare intesa come insieme delle aziende che producono componenti chiave per testare, sviluppare, mantenere, modernizzare e dislocare le armi nucleari:
a) Nella cosiddetta “Hall of Fame” rientrano 13 istituzioni finanziarie a livello globale (5 in più dello scorso anno) che in maniera attiva e significativa hanno adottato, applicato e pubblicato politiche globali di prevenzione contro qualsiasi tipologia di finanziamento ai produttori di armi nucleari. Queste istituzioni finanziarie cosiddette “virtuose” si trovano in Danimarca, Italia, Paesi Bassi, Norvegia, Svezia e Regno Unito;
b)40 istituzioni finanziarie (cc.dd. “Runners-Up”), invece, hanno intrapreso una strada di esclusione parziale dei finanziamenti;
c)382 banche, compagnie assicurative, fondi pensione di 27 diversi paesi (“Hall of Shame”) investono significativamente nell’industria delle armi atomiche. 238 hanno sede in Nord America, 76 in Europa, 59 in Asia e nel Pacifico, 9 in Medio Oriente. Si tratta di 29 istituzioni in meno rispetto all’anno precedente.
Per quanto riguarda l’Italia vi sono alcuni esempi virtuosi e altri meno. Banca Etica rientra nella “Hall of Fame”. Unicredit e Intesa San Paolo nella lista dei “runners-up”. Nel complesso, 11 istituti bancari italiani hanno concesso una somma totale di 4 miliardi e 149 milioni di euro a 26 società. L’azienda Finmeccanica, di cui il 30,2% è del Ministero dell’Economia e delle Finanze, fa parte della “Hall of Shame”. A partire dal 2013 è legata alla produzione di testate destinate a far parte dell’arsenale francese e attraverso la joint venture MBDA e di un programma per la consegna di veicoli di supporto al missile balistico intercontinentale dell’esercito statunitense.
La gran parte dell’opinione pubblica globale concorda sull’inaccettabilità delle armi nucleari. In che modo, dunque, è possibile facilitare la loro eliminazione? Quali pressioni si possono realisticamente effettuare? Se le nucleari sono le uniche armi di distruzione di massa a non essere ancora illegali, quali lezioni si possono trarre dalle esperienze passate sulla messa al bando di altre armi “inumane”?
Innanzitutto, delegittimare le armi nucleari e dimostrare l’opposizione della Società Civile al loro possesso aiuta gli sforzi negoziali per renderle illegali, facilitandone di conseguenza l’eliminazione. Nessuna arma, infatti, è mai stata eliminata senza essere stata messa al bando e senza essere prima stata delegittimata dalla società.
Come la società civile, anche le istituzioni finanziarie nel tempo hanno accolto questo principio, ma, come dimostra il report, la strada è ancora lunga.
Infatti, i 10 maggiori investitori, tutti con sede degli Stati Uniti, da soli hanno fornito capitali per più di 209 miliardi di dollari. Tra questi i primi 3 (Capital Group, State Street e Balckrock) hanno investito più di 95 miliardi.
In Europa, i maggiori investitori sono BNP Paribas (Francia), Royal Bank of Scotland (Regno Unito) e Crédit Agricole (Francia).
53 istituzioni finanziarie, invece, hanno pubblicamente messo in moto politiche virtuose, 18 in più rispetto al 2014.
ABP, un fondo pensione olandese, ha deciso di interrompere i rapporti con le società indiane Larsen & Toubro e Walchandnagar.
Fonds de Compensation, un fondo investimenti lussemburghese, ha deciso di bloccare definitivamente i finanziamenti ad Aecom, Fluor e Huntington Ingalls.
Infine, Nordea, una banca svedese, ha annunciato nel maggio 2015 di voler escludere dai propri finanziamenti la Boeing, a causa del coinvolgimento della stessa nella produzione di componenti per i missili Trident D5.
SEB, Swedbank (banche svedesi), Co-operative Bank (Regno Unito) e la Pensioenfonds Horeca & Catering (Olanda) hanno rafforzato politiche simili.
La pubblicizzazione delle politiche che proibiscono gli investimenti ai produttori di armi nucleari può dar vita ad un effetto domino di delegittimazione che coinvolge altre istituzioni finanziarie.
È quanto accaduto con alcune delle “Hall of Fame” e “Runners-up” che hanno discusso diversi modi per prevenire i finanziamenti delle armi nucleari.
Questo sistema di delegittimazione, volto ad interrompere i flussi finanziari, ha trovato efficace applicazione nella precedente campagna internazionale contro le “cluster bombs”.
A differenza delle armi nucleari, queste sono state chiaramente bandite tramite uno specifico trattato internazionale, nonostante non tutti i paesi abbiano cessato di produrle o acquistarle.
Il suo successo evidenzia come la pressione economica abbia un grande ruolo nell’interrompere la produzione delle armi “inumane”, anche quando queste armi sono ancora vendute a paesi che non rientrano nel regime dei trattati.
Pertanto, secondo il Rapporto, tagliare i finanziamenti privati alle aziende del settore nucleare militare può certamente dimostrarsi una strategia efficace per bloccarne la produzione, non sostenibile da parte dei singoli stati.
A far discutere, di recente, è soprattutto l’invio di armi e di uomini dall’Italia all’Iraq, in funzione anti Isis – inchiesta di Ilaria de Bonis per “Popoli e Missione”
Il nostro Paese non solo spende una fortuna per il settore della Difesa (nel mirino della società civile per l’improvvido acquisto degli F35), ma è anche tra i Paesi europei che più esportano armi in Medio Oriente. Quest’anno l’Italia ha persino superato Francia e Germania nella vendita di armi verso Israele: il dato viene dall’Osservatorio permanente sulle armi leggere e politiche di sicurezza e difesa. Per impedire di “gettare benzina sul fuoco” in aree del mondo in cui l’equilibrio è già molto precario – alla vendita si è aggiunto anche l’invio gratuito di armi all’Iraq la Rete Italiana Disarmo ha chiesto al governo chiarimenti. I centri di ricerca che vi aderiscono producono periodicamente analisi puntuali delle relazioni governative, segnalando le numerose vendite di sistemi militari nelle zone di conflitto, ai regimi autoritari e anche ai Paesi fortemente indebitatati che spendono rilevanti risorse in armamenti.
Solo lo scorso anno – informa Rete Disarmo – su un totale di poco più di 2,1 miliardi di euro di esportazioni autorizzate, comprensivo dei “programmi intergovernativi”, quasi il 51,5% ha riguardato Paesi non appartenenti né all’Ue né alla Nato, cioè un insieme di Paesi che non fanno parte delle principali alleanze politiche e militari dell’Italia. In particolare, oltre 709 milioni di euro, pari al 33% delle autorizzazioni sono state rilasciate ai Paesi del Medio Oriente e del Nord Africa. Ma soprattutto nel 2013 sono stati effettivamente esportati verso questi Paesi (in cui non è inclusa la Turchia) sistemi d’armamento per quasi 810 milioni di euro pari al 29,4% del totale.
«L’Italia – spiega l’analista Giorgio Beretta – è il maggiore esportatore dell’Unione europea di sistemi militari e di armi leggere verso Israele: si tratta di oltre 470 milioni di euro di autorizzazioni per l’esportazione di sistemi militari rilasciate nel 2012 (dati del Rapporto Ue) ed oltre 21 milioni di dollari di armi leggere vendute dal 2008 al 2012». In percentuale, oltre il 41% degli armamenti regolarmente esportati dall’Europa verso Israele sono italiani. Ma a far discutere, di recente, è soprattutto l’invio di armi e di uomini dall’Italia all’Iraq, in funzione anti Isis. Il nostro governo ha deciso di inviare: un aereo Kc-767 per il rifornimento in volo, due velivoli senza pilota Predator, 280 militari, tra istruttori delle forze curde che contrastano l’Isis ad Erbil e consiglieri degli alti comandi delle forze irachene. Francesco Vignarca, coordinatore della Rete Disarmo, ci ha spiegato che le obiezioni a questa decisione sono svariate: anzitutto c’è il non trascurabile dettaglio della provenienza di queste armi che sarebbero parte di uno stock di munizioni ed armi dell’ex Unione Sovietica, confiscate nel 1994 alla nave Jordan Express. Con ogni probabilità oggi poco efficaci. E dunque la funzione di questo invio sarebbe puramente simbolica: dimostrare ai Paesi della coalizione che l’Italia è presente sul campo. In ogni caso, «uno dei rischi più grossi è che quelle più operative finiscano nel buco del mercato nero. C’è il forte timore che possano andare nelle mani sbagliate», ha spiegato Vignarca. E anche nell’universo curdo le “mani sbagliate” non mancano.
«La sparizione di armi in quella regione è un dato di fatto ampiamente documentato dai rapporti del Pentagono e da Centri di ricerca come il Sipri di Stoccolma», scrive la Rete Italiana Disarmo. Insomma «il rischio è che si vada ad ampliare un incendio», aggiunge Vignarca. Ma l’obiezione assunta non solo dai movimenti pacifisti, suggerisce che in questo contesto mediorientale così incerto e magmatico, armare il nemico del nostro nemico non paga. In generale, la guerra all’Isis andrebbe fatta con altre armi, suggeriscono ricercatori, analisti e docenti. Ad esempio quella del taglio alle risorse finanziare. Isolare finanziariamente l’Isis, impedendogli di rivendere il petrolio estratto o di commerciare con i Paesi del Golfo, sarebbe una vittoria ben più grande. In un bel libro collettivo, dal titolo “La crisi irachena. Cause ed effetti di una storia che non insegna” (a cura di Osservatorio Iraq e Un Ponte per…), la ricercatrice dell’Università di Pavia, Clara Capelli, scrive proprio questo: che l’Isis non è un mostro invincibile e che è da combattere facendo appello alla strategia. Tra le possibili alternative per sottrarre risorse c’è quella di individuare i mediatori tra l’Isis e gli acquirenti del petrolio,e costringerli a non fare da tramite per lo smercio di petrolio le cui risorse vengono impiegate per arricchire i terroristi.
Tra le uscite più funzionali e poetiche del primo Renzi c’era il continuo rimando alle troppe spese per la Difesa e alle poche risorse riservate agli asili. Ve lo ricordate? Anche lui si era espresso chiaramente sugli F35 (smentendosi poi ovviamente nei fatti) e allo stesso modo sembrava finalmente aprire alla cooperazione. Bene: le cose non sono andate esattamente come ci venivano prospettate e il focus pubblicato da Openpolis con ActionAid (che trovate qui) smaschera l’ennesima promessa non mantenuta. Del resto si sa bene come le spese militari siano un argomento intoccabile in Italia ed è un peccato che il rottamatore non abbia avuto il coraggio di rottamare. Ecco tutti i dati:
La collana MiniDossier si arricchisce di una sezione di approfondimento: Agenda Setting. Il primo focus, realizzato con ActionAid, riguarda la cooperazione italiana allo sviluppo. Una panoramica sia dei lavori parlamentari che dei progetti nel mondo.
Mai priorità. La cooperazione allo sviluppo ha fatto fatica a trovare spazio nelle aule parlamentari , non rientrando fra gli argomenti più trattati durante nessuno degli ultimi 4 Esecutivi. 27° con il Governo Berlusconi IV, 49° con il Governo Monti, 47° con il Governo Letta. Solamente con l’Esecutivo Renzi è entrato nella Top15, grazie soprattutto all’approvazione della Legge n. 125/14 del 11 agosto 2014 che modifica la disciplina generale in materia.
Decreto Missioni. Ne è conferma lo spazio sempre minore che viene riservato alla discussione del decreto di rifinanziamento delle missioni internazionali e degli interventi di cooperazione allo sviluppo. Un tempo al centro del dibattito e anche dello scontro fra le forze politiche, è ora derubricato a una semplice prassi a cui – nell’ultimo passaggio riguardante la prima rata 2015 – non è stato neanche concessa una trattazione in un atto dedicato ma è stato inserito nel decreto anti-terrorismo 2015.
Ampia maggioranza. Una prima motivazione la si può trovare nel carattere “bipartisan” che ormai contraddistingue il provvedimento, che stabilmente riceve il consenso dei principali partiti anche quando questi sono su schieramenti contrapposti. In particolare, sotto il Governo Berlusconi IV il Pd ha votato a favore pur stando all’opposizione, stessa cosa a parti invertite con FI che ha dato il suo assenso sotto il Governo Renzi.
Organizzazioni Internazionali. La parte maggior parte (nel 2013 oltre il 76%) delle risorse che l’Italia destina alla cooperazione non vengono gestite direttamente dal nostro Paese ma attraverso le organizzazioni internazionali di cui fa parte. All’Unione Europea per esempio è andato un miliardo e mezzo di euro per portare a termine azioni a favore dei paesi in via di sviluppo. A seguire l’Agenzia Internazionale per lo sviluppo (oltre 300 milioni) e le banche regionali di sviluppo (172 milioni).
Interventi diretti. 3.287 sono state le iniziative italiane di aiuto allo sviluppo nel mondo nel 2013 . Distribuite in 113 paesi in tutti i continenti hanno comunque visto una concentrazione in alcuni paesi: Albania (28 milioni di euro impiegati), Afghanistan (27,9) e Etiopia (18,2) i principali. Da sottolineare come il 43% dei fondi bilaterali in realtà non abbia mai lasciato l’Italia essendo destinato alla gestione dei rifugiati politici in Italia.
Meno fondi. Negli ultimi dieci sono costantemente diminuiti i fondi per la cooperazione allo sviluppo, dai 4,5 miliardi di euro del 2005 si è arrivati ai 2,9 miliardi del 2014. L’Italia quindi si sta allontanando sempre più dal raggiungimento dell’obiettivo ONU che chiede ai paesi donatori di destinare lo 0,7% del reddito nazionale lordo. Se eravamo già distanti nel 2005 (quando destinavamo lo 0,29%) inevitabilmente lo siamo ancor di più nel 2014 (0,16%).
Spesa militare. Se il Decreto Missioni nel corso degli anni ha aumentato la percentuale delle risorse destinate alla cooperazione dobbiamo ricordare che con quell’atto viene stanziato appena il 4% del budget totale per difesa e aiuto allo sviluppo. Un’analisi complessiva invece rileva come la tendenza sia di una diminuzione della parte dedicata alla cooperazione, che in dieci anni è passata dal 14% all’11%.
MiniDossier Openpolis. “Agenda Setting: La cooperazione italiana” è il numero 7/2015 della collana di approfondimento MiniDossier. L’impostazione di data journalism prevede la verifica, l’analisi e la comparazione dei dati provenienti da fonti ufficiali per fare emergere notizie e proporre un altro punto di vista. Anche per dare continuità a questo lavoro durante l’anno è fondamentale sostenere openpolis attraverso la campagna di adesione.
L’Italia ordina altri due F35. Circa 100 milioni di euro ciascuno. Non si tratta di pacifismo: rispetto alle parole di papa Francesco sono due bestemmie, per noi laici l’ennesima scena della farsa dei pupi paninari.
Mettiamo che un giorno io decida di comprare un cacciabombardiere. Non ne ho assoluto bisogno, per carità, ma semplicemente dopo avere fatto il tagliando e pagato l’assicurazione alla monovolume che serve alla famiglia e dopo essere riuscito anche quest’anno a stare alla pari con i pagamenti del mio fondo pensionistico ho deciso di comprarmi un caccia perché mi rassicura poi alla sera al bar con gli amici. Oggi, qui giù al paesello, comprare i nuovi f35 dà un lustro che nemmeno avere in tasca il prototipo esclusivo del nuovo iphone, per dire. Anzi: da quando ho ordinato il mio nuovo cacciabombardiere i bulli del bar mi lanciano addirittura qualche sguardo d’intesa. Non è stato facile, eh: ho dovuto convincere mia moglie che avrei rinunciato agli interni in radica (poi le ho raccontato che erano in omaggio nell’allestimento previsto, tanto è semplice convincerla che sia stata un’occasione) e ho dovuto promettere ai miei figli che avrei assicurato comunque buoni zaini, moderne consolle e lunghe vacanze; preso dalla foga ho provato anche a convincerli che un buon cacciabombardiere fosse indispensabile per una famiglia del giorno d’oggi ma poi ci ho rinunciato perché non riuscivo comunque a stare serio mentre lo ripetevo a tutti. Così mi è stata passata come una battuta infelice e ripetitiva.
Mettiamo che poi il lavoro di mia moglie abbia avuto dei problemi non preventivati e ci ritroviamo con metà del suo stipendio: lei mi chiede almeno di rinunciare ad un’ala, al carrello e di dimostrare che ho la responsabilità del buon padre di famiglia. Ho fatto l’offeso per qualche giorno e poi l’ho rassicurata dicendo che avrei fatto qualche ora di straordinario in più. Ora è tutto a posto. Cioè, quasi tutto. Il concessionario che mi ha venduto il mio cacciabombardiere metallizzato mi ha detto che hanno allungato i tempi delle consegne perché qualcuno non vola. Niente di grave, eh: semplicemente il motore ha qualche annetto di progettazione e si svita qualche bullone. È il normale rischio da pagare per comprarsi un mito, no?
Mia moglie ha letto la notizia sul giornale, anche i miei figli a dire la verità, e mi ha chiesto delucidazioni. Io sono stato prontissimo: le ho risposto che gli equilibri della stima giù al bar sono roba che non può rientrare nelle chiacchierate dopo cena. È la politica, bellezza. E il mio figlio più piccolo mi ha chiesto: ‘e il buonsenso, papà?’. Io gli ho risposto che se vuoi diventare qualcuno nella vita non puoi preoccuparti sempre solo del buonsenso, vuoi mettere la soddisfazione di andare giù al bar a prendere un aperitivo con un cacciabombardiere. O no?